Esterovestizione: la società è residente in Italia agli effetti dell’imposta di registro

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La Corte di Cassazione con sentenza n. 3386 del 06/02/2024 è intervenuta sull’esterovestizione, accogliendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, che riteneva residente fiscalmente in Italia una società con sede nel Regno Unito, a seguito di avviso di liquidazione di maggior imposta di registro per immobili situati in Italia e conferiti alla società inglese.

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Corte di Cassazione – Sez. V Civ. – Sent. n. 3386 del 06/02/2024

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Indice

1. Società nel Regno Unito e avviso di liquidazione imposta di registro

A seguito di conferimento a società con sede nel Regno Unito di beni immobili in Italia, l’atto veniva assoggettato a imposta di registro in misura fissa ex art. 4, nota IV, della parte I della tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, poiché la società aveva sede legale o amministrativa in altro Stato membro dell’Unione Europea (l’atto del conferimento risale al 2011, quando il Regno Unito era ancora membro dell’UE).
Nel 2014, l’Agenzia delle Entrate notificava alla società un avviso di liquidazione di maggior imposta di registro, applicando l’aliquota proporzionale del 7% (attualmente 9%) sul valore degli immobili conferiti.
Ciò perché, a parere dell’Agenzia delle Entrate, la società operava solo fittiziamente all’estero, mentre la sede d’affari era in realtà in Italia.
Veniva quindi presentato ricorso avverso l’avviso di liquidazione. La CTP rigettava il ricorso, ma, in sede di appello veniva data ragione ai contribuenti.
La CTR motivava la sentenza asserendo che il fisco deve dimostrare l’esterovestizione, il che non avrebbe avuto luogo nel caso di specie.
L’Agenzia delle Entrate proponeva quindi ricorso per Cassazione basato su due motivi.
Con il primo motivo, veniva contestato alla CTR di non aver ricondotto la fattispecie all’73, comma 5-bis, TUIR, che prevede una presunzione legale relativa di esterovestizione, con conseguente inversione dell’onere della prova, gravante sul contribuente.
Asseriva in proposito l’Agenzia delle Entrate che:
a) la società londinese aveva i suoi uffici in Italia;
b) l’unico socio di quest’ultima ne era anche amministratore ed era italiano;
c) la società aveva adempiuto alla presentazione dei bilanci, ma senza menzionare gli immobili in Italia e i ricavi tratti dalla locazione degli stessi;
d) la CTR si era basata sulla sola circostanza che la società aveva un ufficio di segreteria in Inghilterra, senza verificare se le decisioni strategiche riguardanti l’attività della società venivano effettivamente prese all’estero.
Pertanto, i contribuenti non avevano dimostrato un concreto radicamento nello Stato estero della direzione effettiva della società.
Con il secondo motivo, l’Agenzia delle Entrate lamentava il fatto che la CTR non avesse affatto considerato le dichiarazioni dei redditi presentate in Italia dalla società in relazione agli anni d’imposta dal 2011 al 2013, i quali dimostravano pienamente la stabile organizzazione in Italia della società.  
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2. La Cassazione giudica la società esterovestita in base all’art. 73 comma 3 TUIR

La Corte di Cassazione, nel ritenere fondato il primo motivo di ricorso (con assorbimento del secondo), imbastisce precisazioni sull’art. 73, comma 5-bis, citato dall’amministrazione finanziaria, secondo cui, salvo prova contraria, sono considerate residenti in Italia le società che detengono partecipazioni di controllo in società italiane o che siano controllate, anche indirettamente, da soggetti residenti nel territorio dello Stato ovvero amministrate da un consiglio di amministrazione composto in prevalenza di consiglieri residenti in Italia.
Mancando, nel caso di specie, tali requisiti, viene meno l’argomentazione per cui la società sarebbe esterovestita, e dunque non ha luogo la presunzione legale relativa ex art. 73, comma 5-bis.
Tuttavia, osserva la Cassazione, in base all’art. 73, comma 3, TUIR “si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”.
La società, ragiona la Corte, ha collocato la propria sede legale all’estero per fruire di vantaggi fiscali, ma le allegazioni dell’Agenzia delle Entrate dimostrano che la direzione effettiva è in Italia.

3. Non c’è conflitto tra normativa nazionale e libertà di stabilimento anche per imposte registrali

La Corte coglie l’occasione per precisare che l’assoggettamento della società alla normativa nazionale non contrasta con la libertà di stabilimento promossa dal diritto unionale.
Infatti, in base anche alla giurisprudenza della CGUE, di cui si cita la sentenza C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, del 2006, non è sanzionabile la società creata in uno Stato dell’Unione Europea per fruire di vantaggi fiscali, ma quella che abusa della libertà di stabilimento, il che avviene quando si dà vita a “costruzioni di puro artificio finalizzate ad escludere l’applicabilità della normativa dello Stato membro interessato”.
Quanto poi alla circostanza che l’attrazione alla normativa fiscale italiana della società esterovestita si riferirebbe alle imposte dirette, la Corte, in sede di accoglimento del ricorso, vertente su imposte indirette, si richiama alla Direttiva 2008/7/CE, concernente le imposte indirette sulla raccolta dei capitali, che “individua lo Stato al quale spetta il potere impositivo unicamente con quello ove è situata la sede della ‘direzione effettiva’ della società al momento in cui è effettuato il conferimento”.

4. L’esterovestizione alla luce del nuovo art. 73, comma 3, TUIR

La sentenza della Corte ribadisce l’orientamento per cui va valutata l’effettivo svolgimento dell’attività societaria in un dato paese, ai fini della sua nazionalità fiscale.
Come la stessa Corte ha osservato, ciò non collide con la libertà di stabilimento, il cui abuso si configura quando la residenza della società poggia su costrutti artificiosi per eludere la normativa fiscale meno vantaggiosa di un altro Stato membro.
La sentenza C-196/04 della CGUE, citata dalla Cassazione afferma che: “Gli artt. 43 CE e 48 CE devono essere interpretati nel senso che ostano all’inclusione, nella base imponibile di una società residente in uno Stato membro, degli utili realizzati da una società estera controllata stabilita in un altro Stato allorché tali utili sono ivi soggetti ad un livello impositivo inferiore a quello applicabile nel primo Stato, a meno che tale inclusione non riguardi costruzioni di puro artificio destinate a eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta”.
Pertanto, stando alla CGUE, non è sanzionabile la scelta di uno Stato con una tassazione inferiore (libertà di stabilimento), ma la scelta operata per fini elusivi (prevalenza della normativa interna).
E l’elusione si dà quando lo stabilimento all’estero non è determinato da ragioni di effettivo svolgimento dell’attività societaria.
Chiarisce a tal proposito la CGUE, che: “pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la controllata è realmente impiantata nello Stato di stabilimento e ivi esercita attività economiche effettive”.
Anche il Modello OCSE, al paragrafo 25 delle osservazioni all’art. 4 prevede che si debba primariamente prendere in considerazione la “sede della direzione effettiva”, chiarendo che è anche quella nel quale viene svolta l’attività principale dell’impresa.
L’art. 73 comma 3, dopo la riforma della fiscalità internazionale ex d.lgs. 209/23 elimina il criterio dell’oggetto principale e della sede dell’amministrazione, in luogo della e della gestione degli affari correnti, che fa riferimento ad un criterio amministrativo.
Dunque la sentenza della Cassazione, dovendo giudicare fatti risalenti, ha giustamente applicato la legge allora vigente, che dava prevalenza a criteri sostanziali di effettività operativa, qualora quelli formali o direzionali fossero manchevoli.
Le conclusioni della Corte sarebbero valide anche oggi, alla luce del nuovo contesto normativo, in quanto la società esterovestita risultava tale tanto per carenza di centro decisionale, che per effettiva attività nel luogo di stabilimento.
Dovendoci muovere ormai sul doppio binario del diritto nazionale e del diritto sovranazionale e internazionale, due osservazioni mi paiono conseguenti rispetto alla fattispecie di cui al ricorso e in ottica futura.
Rispetto al ricorso, giuste le conclusioni della CGUE, deve prevalere un criterio di effettiva attività dell’entità accertata, il che significa, se dobbiamo trarne le dovute conseguenze, che, anche qualora l’amministrazione fosse in Italia, e non si configurassero condotte elusive, prevarrebbe il luogo di stabilimento ai fini della nazionalità fiscale. E questo striderebbe con un radicamento della stessa sulla base di criteri amministrativo-gestionali. Al limite, i due criteri andrebbero integrati, come vuole l’OCSE.
La legge italiana attuale, come abbiamo visto, privilegia criteri amministrativi.
Dunque la domanda è: se la società di cui alla sentenza in commento avesse esercitato attività effettiva a Londra, mentre il socio-amministratore unico è residente in Italia, quale criterio avrebbe prevalso?
Mi vien da dire il criterio amministrativo, in base al nuovo art. 73, comma 3, TUIR.
La riforma della fiscalità internazionale è stata ispirata da una volontà di adesione alla prassi internazionale.
E la prassi internazionale prevede la primazia dei criteri sostanziali di estrinsecazione dell’oggetto sociale, come si stabiliva nel vecchio art. 73, comma 3, TUIR.
Oggi che la normativa va verso criteri amministrativo-direzionali, non è utopistico ritenere che i giudici comuni e la Suprema Corta potrebbero propendere per la linea argomentativa ‘amministrativa’.
Ed è a quest’altezza –  tenendo conto da un lato della necessità di arginare fenomeni di esterovestizione in base alla normativa italiana e, dall’altro, della libera allocazione delle entità societarie, e non, al netto di pratiche artificiose, dunque anche superando criteri meramente amministrativo-gestionali, per i quali ha mostrato preferenza il legislatore delegato, e focalizzandosi, invece, sulla fattualità delle attività svolte – che mi vedo costretto a tradire il finale di scritti come il presente, che normalmente sono assertivi, chiudendolo, con una domanda: quale futuro, presso il nostro ordinamento e la nostra giurisprudenza, per la libertà di stabilimento?

Avv. Savino Mauro

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