Biancamaria Consales
È quanto deciso dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di cassazione, con sentenza n. 5991 del 17 aprile 2012. Questi i fatti. Il Consiglio dell’ordine degli avvocati territorialmente competente notificava ad un avvocato un atto di citazione, contenente l’indicazione di vari addebiti in relazione ad alcune dichiarazioni rilasciate ad un periodico con le quali imputava ad un collega di aver chiesto un compenso per l’attività professionale svolta in favore della p.a. spropositato.
In particolare, con tali dichiarazioni, al professionista veniva addebitata la violazione dell’art. 5 del codice deontologico per aver compromesso l’immagine della classe forense a fronte di un collega che agiva per il recupero delle sue spettanze, omettendo di affermare che l’ordine degli avvocati provvede istituzionalmente alla liquidazione delle parcelle limitatamente alla sola voce “onorari”, lasciando, invece, la voce “diritti e spese” al tariffario professionale anche in base agli esborsi sostenuti. Gli veniva, altresì, addebitata la violazione dell’art. 18 del codice deontologico in quanto, rilasciando le predette dichiarazioni ad una testata giornalistica, non rispettava i doveri di discrezione e riservatezza in quanto esprimeva giudizi negativi sull’operato di un collega che si era limitato ad azionare, secondo i dettami di legge, un proprio diritto. Infine, la violazione dell’art. 29 del codice deontologico, in quanto collegando l’azione del collega, con particolare riferimento al tempismo dell’istanza di pignoramento, alle imminenti elezioni amministrative, esprimeva apprezzamenti denigratori sull’attività e l’immagine professionale del collega. Il Consiglio dell’ordine degli avvocati aveva, pertanto, inflitto la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività forense per tre mesi, sanzione che era stata ridimensionata a due mesi dal Consiglio nazionale forense, successivamente adito.
Contro tale decisione l’avvocato incriminato aveva ricorso in cassazione, sollevando ben otto motivi. In particolare, con il primo motivo che assorbiva tutti gli altri, eccepiva che la decisione della sospensione disciplinare dall’attività era intervenuta quando era già pendente presso il tribunale un procedimento penale per i medesimi fatti: pertanto, attesa l’instaurazione del suddetto procedimento penale, allorché il procedimento disciplinare non era stato ancora definito, quest’ultimo avrebbe dovuto essere sospeso.
Il ricorso è stato accolto dalla Suprema Corte, in quanto, considerato che in tema di procedimento disciplinare nei confronti di avvocati, per effetto della modifica dell’art. 653 c.p.p. disposta dall’art. 1 della L. 97/2001, qualora l’addebito abbia ad oggetto gli stessi fatti contestati in sede penale, si impone la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza del procedimento penale ai sensi dell’art. 295 c.p.c., nella fattispecie occorre procedere da parte del Consiglio nazionale forense ad una delibazione in ordine alla effettiva identità esistente tra le condotte contestate in sede penale e quelle per le quali egli era stato sottoposto dal consiglio dell’ordine degli avvocati a procedimento disciplinare, onde verificare la sussistenza dei presupposti per la sospensione necessaria del procedimento stesso. La causa, pertanto, all’esito dell’accoglimento del primo motivo di ricorso, dovrà essere rimessa al Consiglio nazionale forense.
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