Sanzionato il legale che sponsorizza via mail l’attività professionale di colleghi non abilitati

Redazione 18/12/13
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Biancamaria Consales

Così hanno deciso le Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di cassazione, pronunciandosi, con sentenza n. 27996 del 16 dicembre 2013, sul ricorso proposto da un avvocato contro il giudizio di colpevolezza del Consiglio nazionale forense che, a seguito del procedimento disciplinare, aveva disposto la sanzione della censura.

Questi i fatti. A seguito di varie segnalazioni di avvocati ed ordini professionali forensi, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano sottopose a procedimento disciplinare un proprio iscritto, abilitato al patrocinio per Cassazione, per essere venuto meno ai doveri di probità e correttezza, per aver trasmesso a mezzo di posta elettronica ad un numero imprecisato di colleghi (circa 20.000), una comunicazione con la quale proponeva una convenzione annuale dal costo di 1.500 euro. Attraverso tale convenzione, gli interessati avrebbero potuto ottenere, da uno dei legali dello studio del proponente (pur non abilitati alle giurisdizioni superiori), la rappresentanza per una volta avanti alla corte di cassazione e per una volta presso il Tribunale di Milano, Torino o Roma.

Il Consiglio Nazionale Forense aveva concordato con il Consiglio dell’ordine degli Avvocati territorialmente competente, sulla inequivoca chiarezza testuale della censura proposta, la cui attuazione si sarebbe tradotta nell’aggiramento dei limiti relativi all’esercizio della professione di legali non abilitati al patrocinio di legittimità.

Anche le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno confermato la censura nei confronti del professionista, in quanto gli ermellini hanno affermato che nella fattispecie è fondata la grave trasgressione disciplinare, in quanto il legale ha proposto la sottoscrizione di ricorsi di legittimità predisposti da soggetti non muniti dello jus postulandi, al fine di agevolare l’esercizio della professione ai non abilitati alle giurisdizioni superiori. Tale comportamento è senza dubbio alcuno contrario ai doveri deontologici.

“Il principio di stretta tipicità  dell’illecito, proprio del diritto penale – hanno poi affermato i giudici di piazza Cavour – non trova applicazione nella materia disciplinare forense, nell’ambito della quale non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti illeciti non conformi, ma solo quella dei doveri fondamentali, tra cui segnatamente quelli di probità, dignità e decoro (art. 5 del codice deontologico forense), lealtà e correttezza (art. 6 cod. cit.), ai quali l’avvocato deve improntare la propria attività, sia professionale, sia non professionale, la cui violazione, da accertarsi secondo le concrete modalità del caso, da luogo a procedimento disciplinare”.

In conclusione, nella fattispecie è stata confermata la illiceità del comportamento del legale che, nonostante non ci sia stata la consumazione, è stata palesemente posta allo scopo di realizzare un comportamento espressamente vietato dal codice deontologico.

Redazione

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