Residenza delle società e degli enti nel decreto di riforma della fiscalità internazionale

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L’art. 2 del decreto legislativo n. 209 del 27 dicembre 2023, nello sforzo di svecchiare la nostra normativa e adeguarla alla migliore prassi internazionale, elaborata soprattutto in ambito OCSE, ha dato forza di legge ai richiami della legge delega n. 111 del 9 agosto 2023. Impresa non semplice quella di recepire e adattare al diritto nazionale quanto elaborato in sede unionale e internazionale. Concetti come direzione effettiva, centro strategico dell’attività delle società e delle altre entità equiparate, non potevano non costituire l’architrave del disegno governativo. Altri, come oggetto sociale (principale, secondario), così come le relazioni tra questo e la tanto discussa sede d’affari, esulano dalla disposizione normativa. Mi propongo, in questo articolo, di portare l’attenzione su questo vuoto di fini.

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Indice

1. L’art. 73, comma 3, T.U.I.R. (residenza delle società e degli enti) nel decreto di riforma

L’art. 2 del decreto legislativo n. 209 del 27 dicembre 2023, per la riforma della fiscalità internazionale, ha modificato l’art. 73, co. 3, TUIR, sulla residenza delle società e degli enti [1].
La precedente formulazione dell’art. 3 prevedeva quanto segue: “Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”.
Mentre la modifica operata dal Governo precisa che: “Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno nel territorio dello Stato la sede legale o la sede di direzione effettiva o la gestione ordinaria in via principale”.
A parte il criterio temporale della “maggior parte del periodo d’imposta”, rimasto invariato, e che, per prassi dell’Amministrazione finanziaria, è di 183 giorni (o 184, per gli anni bisestili) come per le persone fisiche, e la sede legale, che è quella fissata nello statuto o nell’atto costitutivo, in luogo della sede amministrativa, il Governo ha indicato la sede direzionale effettiva o di gestione ordinaria.
Scompare invece il riferimento all’oggetto sociale.
Prima di addentrarci nel commento di queste modifiche, occorre dire che, tanto la legge delega, quanto il decreto legislativo sono state animate dall’intento di armonizzare la nostra normativa con quella internazionale e, in primis, con i punti cardine delle convenzioni contro le doppie imposizioni siglate dall’Italia sulla falsariga del Modello OCSE.
Più nello specifico, ci si riferisce all’Action 6 del progetto BEPS, che ha modificato le tie-breaker rules dell’art. 4, paragrafo 3, del modello OCSE, per rendere più agevole la risoluzione dei conflitti sulla doppia imposizione in capo alle società.
Infatti, se prima si faceva riferimento al place of effective management, quello cioè in cui hanno luogo le decisioni che indirizzano l’attività dell’impresa, quest’ultimo è ora da riconsiderarsi, insieme a ogni altro criterio ritenuto rilevante, in un contesto più orientato alla fattispecie singola e favorendo l’accordo tra gli Stati, ossia il Mutual Agreement Procedure di cui parla l’art. 25 del Modello OCSE.
Si tratta ora di capire se il decreto legislativo abbia colto nel segno o meno.

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2. I criteri della direzione effettiva e della gestione ordinaria

Riprendiamo l’art. 73, co. 3 TUIR come modificato dal decreto.
Si parla di direzione effettiva o gestione ordinaria in via principale.
Non occorre fare sforzi ermeneutici perché il governo stesso ci chiarisce che “per sede di direzione effettiva si intende la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società o l’ente nel suo complesso”, mentre “per gestione ordinaria si intende il continuo e coordinato compimento degli atti della gestione corrente riguardanti la società o l’ente nel suo complesso”.
Già nel vigore dell’art. 73 nella sua versione precedente, la sede dell’amministrazione era concepita, in contrapposizione alla nozione formale di sede legale dell’ente, come centro propulsore dell’attività societaria, quello in cui si prendono le decisioni strategiche in merito tanto alla gestione societaria che alla realizzazione dell’oggetto sociale.
Il Modello OCSE, all’art. 4, di cui abbiamo appena detto, considera fondamentale il riferimento alla sede di direzione effettiva, e qualora non fosse possibile trovare una soluzione, rimanda al luogo di costituzione e a ogni altro elemento rilevante al fine di dirimere i conflitti di nazionalità fiscale delle società e degli altri enti.
Naturalmente, nulla vieta agli Stati di prendere accordi specifici, ciò al fine di favorire l’ecumene normativa che tanto sta a cuore all’Unione Europea. 
Ora, mi pare che sotto quest’aspetto il Governo abbia fatto i compiti, infatti, si parla espressamente nel decreto di decisioni strategiche.
Si parla poi di gestione degli affari correnti, che completano il quadro degli elementi ritenuti idonei a decidere se una società opera in Italia o all’estero.
Il criterio degli affari correnti non è subordinato, si badi, a quello della direzione effettiva, ma è criterio alternativo a questo.
Cosa vuol dire questo?
Che per dirimere questioni di residenza fiscale delle società ed enti equiparati, basterà dimostrare che c’è un ragioniere in Italia che tiene in ordine le carte della società per dire che questa ha sede in Italia. O che in Italia si scrivano i contratti che riguardano l’attività societaria o che ivi si predispongano tutti quegli atti e documenti che precedono la fase vera e propria di esercizio dell’oggetto sociale.
Ignoro la necessità e l’utilità di tale inserzione normativa. E la ritengo pericolosa per i suoi sviluppi ‘attrattivi’ della nazionalità fiscale delle società estere in Italia, anche quando le decisioni che contano vengono prese altrove.
Vero è che si può ricorrere sempre a interpretazioni sistematiche dell’ordinamento ed evitare pronunce innecessariamente afflittive, ma non si capisce perché si debba correre il rischio.
Tra l’altro, non mi pare che il nostro ordinamento o il Modello OCSE assegni una qualche rilevanza a un siffatto criterio.
Piuttosto, mi sarei aspettato che il decreto si intrattenesse sul concetto di oggetto sociale, che manca del tutto.
E su questo punto, vorrei proporre una breve considerazione, coinvolgendo anche la famigerata stabile organizzazione.

3. Oggetto sociale e stabile organizzazione: Quo vadis?

Non tedierò il lettore con l’amplissima bibliografia esistente sul concetto di stabile organizzazione, anche perché qui vorrei porre a sistema tale concetto con il grande assente dalla disposizione che ci occupa: l’oggetto sociale.
Mi limiterò a ricordare soltanto che, per l’art. 162, TUIR e per l’art. 5 del Modello OCSE, quando si parla di stabile organizzazione si intende una sede fissa di affari in cui l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività.
Sede d’affari, esercizio dell’attività a quest’ultima collegato [2]: ecco i punti cardine della definizione.
Dirò anche che i depositi, i magazzini, gli uffici che hanno come solo scopo la raccolta di informazioni, non determinano stabile organizzazione, tanto in sede TUIR, quanto in sede OCSE, e che, pertanto, uffici e locali dove si espletino gli atti di gestione corrente a ciò diretti non erano fino ad oggi consentanei con l’attribuzione della nazionalità italiana alle imprese estere, mentre ora si rischia il contrario e che questo genera un conflitto normativo di cui nessuno sentiva la necessità?
Ma è sugli aspetti ‘positivi’ della stabile organizzazione che vorrei portare l’attenzione.
Intanto, direi che mi pare ovvio che l’individuazione di una stabile organizzazione di una società implica, per la natura della cosa, una identificazione dell’attività esercitata dalla società, dunque del suo oggetto sociale.
Ora, la ‘svista’ del governo, non prendendo in considerazione un aspetto sostanziale del nesso tra società e territorio ai fini fiscali (ma non solo), realizza, in un colpo solo tre obiettivi:
1) non ci si dice nulla della rilevanza dell’oggetto sociale ai fini della residenza della persona giuridica, e si omette così un punto chiave della nozione stessa di impresa;
2) Non si chiarisce se e in che misura, bisogna considerare una distinzione tra oggetto sociale principale e oggetto sociale secondario, nel caso di entità particolarmente strutturate;
3) Non si offre alcun chiarimento sulla interdipendenza tra oggetto sociale e stabile organizzazione.
Per fortuna si tratta di cose a cui v’è rimedio.
Ma occorrerebbe, nel silenzio della normativa, una fine opera di interpretazione sistematica dell’ordinamento per scoraggiare pronunce fuor di quella rule of law che l’Unione Europea tanto caldeggia – e che il diritto romano ha donato al mondo millenni prima che Bruxelles se ne accorgesse – e che, viene, proprio dal nostro legislatore delegato, disattesa con tanta sciatteria, come spero di aver, se non dimostrato, almeno suggerito, in questo scritto.

Note

  1. [1]

    Si tratta degli enti di cui all’art. 73, co. 1, TUIR, ossia:
    a) le società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative e le società di mutua assicurazione nonché le società europee di cui al regolamento (CE) n. 2157/2001 e le società cooperative europee di cui al regolamento (CE) n. 1435/2003 residenti nel territorio dello Stato;
    b) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali;
    c) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, i trust che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale nonché gli organismi di investimento collettivo del risparmio, residenti nel territorio dello Stato;
    d) le società e gli enti di ogni tipo, compresi i trust, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello Stato.
    Tra gli enti diversi dalle società, di cui alle lettere b) e c) del comma 1, si comprendono, oltre alle persone giuridiche, le associazioni non riconosciute, i consorzi e le altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi, nei confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifica in modo unitario e autonomo. Tra le società e gli enti di cui alla lettera d) del comma 1 sono comprese anche le società e le associazioni indicate nell’art. 5 del TUIR

  2. [2]

    Sono i riferimenti che, in ambito OCSE, vengono detti di business connection test, per valutare la connessione uffici-esercizio dell’impresa e carrying on of the business enterprise per valutare la connessione uffici-loro grado di importanza ai fini produttivi.

Avv. Savino Mauro

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