La relazione degli agenti di polizia supporta adeguatamente l’interdittiva antimafia

Redazione 10/11/11
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Con la sentenza n. 5166 depositata lo scorso 7 novembre il Tar Campania ha respinto il ricorso per l’annullamento dell’interdittiva antimafia disposta dall’autorità prefettizia. Nella specie le doglianze erano tendenti a contestare l’insufficienza dell’istruttoria alla base del provvedimento interdittivo, e in particolare la veridicità delle circostanze e informazioni rese note dalle forze dell’ordine.

Nell’occasione il Collegio ha preliminarmente ricordato come nella valutazione della legislazione “antimafia” la Corte costituzionale ha, più volte, sottolineato la necessità di salvaguardare beni di primaria e fondamentale importanza per lo Stato, quali l’ordine e la sicurezza pubblica, la libera determinazione degli organi elettivi, nonché il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, contro i pericoli di inquinamento derivanti dalla criminalità organizzata.

A fronte della situazione di emergenza determinata da tale minaccia, è stata riconosciuta la costituzionalità di strumenti anche eccezionali di reazione, in difesa degli interessi dell’intera collettività nazionale, in quanto commisurati alla gravità del pericolo, al rango dei valori tutelati, alle necessità da fronteggiare (cfr. in particolare Corte cost., 11-2-2002, n. 25).

Fra tali strumenti si colloca l’inibitoria antimafia quale misura di tutela preventiva, nell’esercizio delle funzioni di polizia e di sicurezza, contro le ingerenze del crimine organizzato nelle attività economiche e nei rapporti con le pubbliche amministrazioni.

In tale quadro, viene anzi riconosciuto all’autorità prefettizia un ampio margine di accertamento e di apprezzamento discrezionale, insindacabile nel merito, nella ricerca e nella valutazione degli elementi da cui poter desumere eventuali connivenze o collegamenti di tipo mafioso.

Inoltre, ai fini dell’adozione di una interdittiva antimafia non si ritiene necessario pervenire al medesimo grado di certezza dei presupposti che può essere assicurato da una decisione assunta in sede giurisdizionale penale e nemmeno dall’applicazione di una misura di prevenzione, essendo invece sufficiente la dimostrazione del mero pericolo del pregiudizio, attraverso la presenza di fatti sintomatici che rendano concretamente plausibile la sussistenza di un collegamento tra l’impresa e la criminalità organizzata.

In generale, quindi, l’applicazione di misure straordinarie va motivata, con riferimento alla sussistenza di fatti idonei a dimostrare, anche se in via indiziaria e sintomatica, una pericolosità dell’inquinamento mafioso, attraverso collegamenti o ingerenze che, pur non raggiungendo la soglia dell’illecito penale, comunque si riverberano sull’operatività della pubblica amministrazione o sulla sicurezza pubblica. Tali apprezzamenti, spettanti alla competente autorità amministrativa, sono soggetti al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo, nei limiti ovviamente ammessi dalla cognizione sui vizi di legittimità degli atti amministrativi nei soli casi di manifesta illogicità o travisamento dei fatti.

Pertanto il punto nodale della controversia si è focalizzato proprio sulla congruità degli elementi contenuti nella informativa prefettizia, alla stregua degli atti istruttori che la sorreggono. Al riguardo il Collegio ha rilevato che la relazione di servizio di un agente di polizia è un atto pubblico, che fa fede fino a querela di falso, con il quale il pubblico ufficiale attesta l’attività compiuta, precisando le circostanze avvenute sotto la sua diretta percezione (cfr. Cass. pen., sez. V, 25- 6-2009, n. 38537).

In conclusione inutili sono state le doglianze sollevate dal ricorrente tendenti a contestare la veridicità in punto di fatto delle circostanze dichiarate dagli agenti di polizia conclusione. La determinazione prefettizia è stata infatti dai giudici ritenuta adeguatamente sorretta dalle informazioni rese dalle forze dell’ordine. (Lilla Laperuta)

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