L’accettazione del TFR non comporta la tacita rinunzia ai diritti derivanti dell’illegittima apposizione del termine

Redazione 04/04/12
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Biancamaria Consales

Così ha deciso la sezione lavoro della Corte di cassazione, con sentenza n. 5240 del 2 aprile 2012, pronunciandosi sul ricorso presentato da un lavoratore cui la società s.p.a. Poste italiane aveva risolto il contratto di lavoro per mutuo consenso.

La Corte di appello territorialmente competente non aveva accolto il gravame avanzato dal lavoratore verso la sentenza di primo grado, che aveva rigettato la sua domanda nei confronti della predetta società per ottenere la dichiarazione di nullità del termine apposto al contratto stipulato inter partes, per esigenze eccezionali, sul presupposto della risoluzione del rapporto per mutuo consenso.

Questi i fatti. Il lavoratore era stato assunto con contratto a termine, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 che prevedeva, quale ipotesi legittimante la stipulazione dei contratti a termine, la presenza di esigenze eccezionali conseguenti alla fase della ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovo processi introduttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane.

La Corte territoriale, pertanto, premessa la validità della clausola apposta all’unico contratto di lavoro a tempo determinato stipulato tra le parti, riteneva risolto il rapporto di lavoro per mutuo consenso, per intervenuta acquiescenza del lavoratore alla cessazione del rapporto, in considerazione sia del notevole lasso di tempo trascorso (circa sei anni) tra la fine del rapporto e la proposizione della domanda, sia della condotta del lavoratore, il quale non aveva messo le energie lavorative a disposizione della società e aveva accettato il TFR senza formulare riserve, nonostante la promozione del tentativo di conciliazione non seguita subito dal deposito del ricorso.

Il lavoratore si era, pertanto, rivolto alla Suprema Corte sostenendo che la società non aveva provato le circostanze dalle quali evincere la volontà delle parti di porre fine ad ogni rapporto e si era limitata a dedurre la mera circostanza del decorso del tempo e dell’accettazione del TFR senza riserva.

Gli ermellini, accogliendo quanto sostenuto dal ricorrente, hanno ritenuto che nel ricorso per il riconoscimento di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato è configurabile la risoluzione del rapporto per mutuo consenso ove sia accertata una chiara e certa comune volontà di porre fine ad ogni rapporto lavorativo. La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto non può ritenersi sufficiente a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per mutuo consenso. Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di rilevare che non appaiono indicative di un’intenzione risolutoria l’accettazione del TFR e la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dell’illegittima apposizione del termine, ovvero la condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque a cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni.

Dunque grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro.

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