E ciò, anche se la missiva non era stata percepita da terzi.
Secondo le conclusioni di Cass., sez. V, sent. 19265 del 21 maggio 2012 il comportamento dell’imputato, come già avevano ritenuto i giudici di merito, integra i reati di procurato allarme presso l’Autorità e minacce aggravate da motivi di odio etnico in danno di un Istituto di storia, cultura e documentazione, ente destinatario della lettera.
L’uomo aveva dunque inviato frasi deliranti contro il personale dipendente dell’ente, e anche se la lettera non era stata divulgata le espressioni ivi contenute sono state ritenute sufficientemente offensive ed espressive di un concetto di discriminazione razziale: da qui la condanna con l’aggravante di cui all’art. 3 del D.L. 122/1993 conv. in L. 205/1993, per i reati di minaccia e di procurato allarme.
Per configurare l’aggravante della finalità di discriminazione e di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, continuano i giudici di legittimità, non è necessario che la condotta incriminata sia destinata o, quanto meno, potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno ed a suscitare il riprovevole sentimento o, comunque, il pericolo di comportamenti discriminatori o di atti emulatori, giacché ciò varrebbe ad escludere l’aggravante in questione in tutti i casi in cui l’azione lesiva si svolga in assenza di terze persone.
La circostanza aggravante è configurabile, inoltre, «quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente».