Incompatibilità del dipendente pubblico part-time con l’esercizio della professione forense

Redazione 20/05/13
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Anna Costagliola

Con sentenza n. 11833 del 16 maggio 2013, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione hanno confermato il divieto, per il dipendente pubblico in part-time, di esercitare anche la professione di avvocato.

Dunque le Sezioni Unite sono state chiamate a risolvere un’annosa questione che prende le mosse dal 2003, quando la legge n. 339 ha reintrodotto l’incompatibilità tra impiego pubblico part-time ed esercizio della professione forense, prevedendo che gli avvocati dipendenti pubblici a tempo parziale iscritti all’ordine dovessero optare, nel termine di 3 anni dall’entrata in vigore della legge, tra il mantenimento del rapporto di pubblico impiego ovvero il mantenimento dell’iscrizione all’albo degli avvocati con contestuale cessazione del rapporto di pubblico impiego. In ipotesi di mancato esercizio dell’opzione è dato ai Consigli dell’ordine il potere di provvedere alla cancellazione d’ufficio dell’iscritto dal proprio albo.

Alle Sezioni Unite è spettato valutare l’impatto su tale disciplina della normativa sopravvenuta recata dal D.L. 138/2011 (cd. decreto liberalizzazioni), conv. in L. 148/2011, per verificare se per effetto di tale normativa sia intervenuta un’abrogazione tacita della L. 339/2003 quanto all’incompatibilità descritta. Sul punto, il Collegio ha ritenuto di dover escludere un’abrogazione tacita per il rilievo decisivo ed assorbente rispetto ad ogni altra considerazione che l’incompatibilità tra impiego pubblico part-time ed esercizio della professione forense risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate proprio alla peculiare natura di tale attività privata ed ai possibili inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente. La legge 339/2003 è finalizzata, infatti, a tutelare interessi di rango costituzionale quali l’imparzialità ed il buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.) e l’indipendenza della professione forense onde garantire l’effettività del diritto di difesa (art. 24 Cost.). Le Sezioni Unite della Suprema Corte osservano, in particolare, come la suddetta disciplina miri ad evitare il sorgere di possibili contrasti tra interesse privato del pubblico dipendente ed interesse della P.A., ed è volta a garantire l’indipendenza del difensore rispetto ad interessi contrastanti con quelli del cliente; inoltre il principio di cui all’art. 98 della Costituzione (obbligo di fedeltà del pubblico dipendente alla Nazione) non è poi facilmente conciliabile con la professione forense, che ha il compito di difendere gli interessi dell’assistito, con possibile conflitto tra le due posizioni.

Si legge ancora nella pronuncia in oggetto come la stessa Corte costituzionale, con la sentenza 390/2006, avesse rilevato che «il divieto ripristinato dalla legge n. 339/2003 è coerente con la caratteristica peculiare della professione forense dell’incompatibilità con qualsiasi impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario».

Peraltro, anche alla luce della più recente L. 247/2012, recante la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, benché non suscettibile di efficacia immediata in quanto mancano i relativi regolamenti attuativi, persiste l’incompatibilità tra pubblico impiego e professione forense. L’art. 18, lett. d), di detta legge prevede, infatti, espressamente l’incompatibilità della professione di avvocato anche «con qualsiasi attività di lavoro subordinata anche se con orario di lavoro limitato», mentre il successivo art. 65 (Disposizioni transitorie) dispone che, fino alla data di entrata in vigore dei regolamenti attuativi, si applicano le disposizioni vigenti non abrogate, anche se non richiamate.

Con riferimento, poi, al prospettato contrasto della normativa in oggetto con i principi comunitari in tema di tutela della concorrenza, libertà di stabilimento, legittimo affidamento, osservano le Sezioni Unite che, invero, la legge in esame ha inciso sulle modalità di svolgimento del servizio presso enti pubblici, non invece sul modo di organizzazione della professione forense. In ogni caso gli eventuali effetti anticoncorrenziali della normativa in oggetto trovano la loro giustificazione alla luce del rilievo che essi costituiscono l’inevitabile conseguenza della prioritaria esigenza di soddisfare l’interesse pubblico a difendere i valori fondamentali della professione di avvocato, quali i principi di indipendenza e di integrità. D’altra parte la stessa Corte di Giustizia UE aveva rilevato, nel 2010, che la normativa comunitaria non osta ad una normativa nazionale che neghi ai dipendenti pubblici impiegati in una relazione di lavoro a tempo parziale l’esercizio della professione di avvocato, anche qualora siano in possesso dell’apposita abilitazione, disponendo la loro cancellazione dall’albo degli avvocati.

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