Sindrome ansioso-depressiva per il detenuto, obbligato ad assumere dosi notevoli di ansiolitici e antidepressivi. A completare il quadro, poi, anche una patologia che ha provocato malformazioni alle dita delle mani e dei piedi.
Condizioni psico-fisiche precarie, ma, nonostante tutto, l’uomo è obbligato a rimanere in carcere. Per i giudici non vi è alcuna lesione alla sua dignità.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, sez. I Penale, con la sentenza n. 19795 depositata il 12 maggio 2016.
Gli Ermellini hanno rigettato l’ipotesi del «differimento della pena» che a quella della «detenzione domiciliare».
Le «condizioni di salute» del detenuto sono sì precarie, ma non tali da essere incompatibili con il «regime carcerario».
L’uomo era affetto da una sindrome «ansioso-depressiva in trattamento con ansiolitici ed antidepressivi». Tuttavia, lo stato fisico del detenuto è stato ritenuto sostanzialmente «buono», e anche «le malformazioni alle mani e ai piedi» non gli impediscono comunque di «svolgere in modo autonomo gli atti essenziali della vita quotidiana e di relazione».
Secondo il legale, invece, il «quadro patologico» del detenuto era da ritenersi «gravissimo» e non compatibile col carcere atteso che lo stesso soffre di «epatite» e assume «dosi massicce di ansiolitici» e «quattro farmaci per la pressione».
Gli Ermellini, però, hanno affermato che «la carcerazione» del suddetto detenuto non può considerarsi «contraria al senso di umanità» perché non vi è nessun «scadimento fisico» che gli neghi, all’interno del carcere, un minimo di «dignità umana».
Di conseguenza, è negata definitivamente la possibilità di un «differimento della pena» o dell’applicazione della «detenzione domiciliare».
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