Lucia Nacciarone
Con la sentenza n. 13547 dell’11 aprile 2012 la Cassazione ha condannato i sanitari coinvolti in un triste episodio da malasanità: un giovane con un ascesso in corso si recava in ospedale per avere le cure necessarie, e veniva rimandato presso altre strutture, ad avviso dei medici in grado di risolvere l’emergenza, ed, in seguito ai numerosi ricoveri-lampo senza ricevere assistenza, decedeva per edema polmonare.
Ciascun medico che aveva preso in cura l’infermo si limitava ad indirizzarlo presso il presidio sanitario dotato di maggiori risorse specialistiche: ma tutti, come chiarisce la Corte suprema di legittimità, rivestono un ruolo di «posizione di garanzia» nei confronti dell’ammalato, che li obbliga in ogni caso a fare di tutto per salvaguardare la sua integrità, sebbene non siano in grado di erogare la prestazione professionale richiesta.
Tale obbligo sorge, continuano i giudici, in virtù del «contatto sociale» fra malato e medico che si perfeziona quando il primo si presenta dal secondo per chiedere l’erogazione della prestazione sanitaria.
E se il professionista non ha i mezzi o le conoscenze specifiche per intervenire deve comunque attivarsi per tutelare la salute del paziente. Nel caso di specie i medici interpellati avrebbero dovuto quantomeno redigere una diagnosi accurata che consentisse una adeguata assistenza a chi successivamente avrebbe preso in carico l’infermo.
Invece il poveretto, costretto a fare una dolorosa via crucis per gli ospedali senza che nessuno si decidesse ad incidere la formazione purulenta, era poi deceduto.
Quindi tutti i sanitari negligenti che hanno concorso nel ritardare l’erogazione dell’assistenza terapeutica e diagnostica che avrebbe evitato il decesso incorrono in responsabilità penale per omicidio colposo.
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