Stress sul lavoro: il datore risponde dei danni

Scarica PDF Stampa Allegati

Il datore di lavoro risponde dei danni alla salute che si producano sul dipendente da un ambiente lavorativo caratterizzato da eccesso di stress, nonostante gli atti che hanno causato la lesione non sono qualificabili come mobbing.
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza 19/03/2024 n. 2084, ha ribadito che la tutela della salute psichica e fisica dei dipendenti non si limita alla prevenzione del mobbing e si estende a qualunque situazione di stress da lavoro.
Per approfondimenti su qualsiasi tema lavorativo consigliamo il volume Il lavoro subordinato -Rapporto contrattuale e tutela dei diritti

Corte di Cassazione -sez. L- sentenza n.2084 del 19-03-2024

sentenza-Cassasione-2084-2024-del-19-marzo-2024.pdf 57 KB

Iscriviti alla newsletter per poter scaricare gli allegati

Grazie per esserti iscritto alla newsletter. Ora puoi scaricare il tuo contenuto.

Indice

1. Che cos’è il mobbing sul lavoro?


Il mobbing in psicologia è una forma di abuso esercitato da una persona o da un gruppo di persone nei confronti di uno o più soggetti.
Nonostante il termine venga utilizzato principalmente in relazione a situazioni lavorative, il termine indica comportamenti violenti anche di altri gruppi (sociali, familiari o animali).
Nell’ambito lavorativo queste attività possono anche essere messe in atto da persone che abbiano una determinata autorità sulle altre, in questo caso si parla di bossing.
In etologia, il termine identifica i comportamenti aggressivi assunti da alcune prede nei confronti di un predatore per intimorirlo e dissuaderlo dall’aggressione. Per approfondimenti su qualsiasi tema lavorativo consigliamo il volume Il lavoro subordinato -Rapporto contrattuale e tutela dei diritti

FORMATO CARTACEO

Il lavoro subordinato

Il volume analizza compiutamente l’intera disciplina del rapporto di lavoro subordinato, così come contenuta nel codice civile (con la sola eccezione delle regole relative al licenziamento e alle dimissioni). L’opera è stata realizzata pensando al direttore del personale, al consulente del lavoro, all’avvocato e al giudice che si trovano all’inizio della loro vita professionale o che si avvicinano alla materia per ragioni professionali provenendo da altri ambiti, ma ha l’ambizione di essere utile anche all’esperto, offrendo una sistematica esposizione dello stato dell’arte in merito alle tante questioni che si incontrano nelle aule del Tribunale del lavoro e nella vita professionale di ogni giorno. L’opera si colloca nell’ambito di una collana nella quale, oltre all’opera dedicata alla cessazione del rapporto di lavoro (a cura di C. Colosimo), sono già apparsi i volumi che seguono: Il processo del lavoro (a cura di D. Paliaga); Lavoro e crisi d’impresa (di M. Belviso); Il Lavoro pubblico (a cura di A. Boscati); Diritto sindacale (a cura di G. Perone e M.C. Cataudella). Vincenzo FerranteUniversità Cattolica di Milano, direttore del Master in Consulenza del lavoro e direzione del personale (MUCL);Mirko AltimariUniversità Cattolica di Milano;Silvia BertoccoUniversità di Padova;Laura CalafàUniversità di Verona;Matteo CortiUniversità Cattolica di Milano;Ombretta DessìUniversità di Cagliari;Maria Giovanna GrecoUniversità di Parma;Francesca MalzaniUniversità di Brescia;Marco NovellaUniversità di Genova;Fabio PantanoUniversità di Parma;Roberto PettinelliUniversità del Piemonte orientale;Flavio Vincenzo PonteUniversità della Calabria;Fabio RavelliUniversità di Brescia;Nicolò RossiAvvocato in Novara;Alessandra SartoriUniversità degli studi di Milano;Claudio SerraAvvocato in Torino.

A cura di Vincenzo Ferrante | Maggioli Editore 2023

2. I fatti in causa


La questione oggetto di contestazione ha come protagonista un lavoratore che ha deciso di portare in giudizio il suo datore di lavoro con la finalità di ottenere un risarcimento in relazione alle sofferenze di carattere psichico e fisico subite sul luogo dell’esercizio della sua attività.
La Suprema Corte di Cassazione, considerando la questione, ha messo in evidenza l’obbligo del datore di lavoro stesso, di doversi astenere dal dovere adottare scelte o comportamenti che possano essere causa di lesione della personalità morale del lavoratore, come l’applicazione di condizioni di lavoro che generino stress, a parte la tenuta di comportamenti più gravi come mobbing, straining, burn out, molestie, stalking.
La richiesta di risarcimento era stata accolta in primo grado e successivamente respinta dalla Corte d’Appello, la quale ha ritenuto di non dovere riscontrare negli atti e nei comportamenti del datore di lavoro il “comune intento persecutorio” che costituisce un elemento del mobbing.
In osservanza delle regole sugli obblighi di risarcimento che conseguono alla responsabilità contrattuale, si può configurare la responsabilità del datore di lavoro anche quando un semplice inadempimento rientri come causa di un danno alla salute psichica e fisica del dipendente.

Potrebbero interessarti anche:

3. La decisione della Suprema Corte di Cassazione


La Suprema Corte di Cassazione ha ribaltato la decisione, considerando in primo luogo, il fatto che la violazione da parte del datore di lavoro del dovere di sicurezza, in relazione al dettato dell’articolo 2087 del codice civile, ha natura contrattuale e, di conseguenza, il rimedio che può essere attuato dal dipendente, come accennato nel paragrafo precedente, è quello della responsabilità contrattuale.
Secondo la Suprema Corte, la tutela dell’integrità di carattere psichico e fisico del lavoratore, non può ammettere possibilità di sconto.
I fattori come l’ineluttabilità, la fatalità, la fattibilità economica e produttiva non sono una giustificazione al cedimento delle misure di tutela e prevenzione.
In considerazione di questo, i Supremi Giudici hanno ritenuto che per rintracciare una responsabilità del datore di lavoro, come si richiede nel caso del mobbing, non è necessario un  “unificante comportamento vessatorio”, è sufficiente l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano essere in grado di ledere la personalità morale del lavoratore, come la tolleranza di condizioni di lavoro che generano stress.
Alcuni comportamenti, nonostante non siano vessatori, possono essere esorbitanti o ingiusti rispetto alla gestione ordinaria del rapporto, principalmente se sono continui e se si ripetono nel tempo.
La Corte ha concluso che, i comportamenti in questione, violerebbero l’articolo 2087 del codice civile se dovessero contribuire a realizzare un ambiente logorante e che produca ansia, generando un pregiudizio per la salute psichica e fisica della persona che deve essere risarcita.
Una interpretazione del genere, conferma la tendenza della Suprema Corte al rifiuto di situazioni che riducono le responsabilità del datore di lavoro in relazione alla sicurezza.
Si tratta di un approccio che lascia intendere una sorta di severità sullo stress da lavoro, un fenomeno questo considerato centrale nelle politiche di prevenzione dei danni alla salute psichica e fisica, valutando in modo necessariamente obbligatorio il relativo e cosiddetto stress da lavoro.

Vuoi ricevere aggiornamenti costanti?


Salva questa pagina nella tua Area riservata di Diritto.it e riceverai le notifiche per tutte le pubblicazioni in materia.
Inoltre, con le nostre Newsletter riceverai settimanalmente tutte le novità normative e giurisprudenziali!
Iscriviti!

Iscriviti alla newsletter
Iscrizione completata

Grazie per esserti iscritto alla newsletter.

Seguici sui social


Dott.ssa Concas Alessandra

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento