Corte Ue: dichiarazioni omofobe del «patron» di una squadra di calcio professionistica fanno gravare su di essa l’onere di dimostrare che non segue una politica discriminatoria in materia di assunzioni

Redazione 29/04/13
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Anna Costagliola

È sempre onere del datore di lavoro dimostrare di non attuare politiche discriminatorie in materia di parità di trattamento di occupazione che siano in aperto contrasto con la direttiva Ue direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro (Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000). È quanto affermato dalla Corte di Giustizia Ue, con la sentenza depositata il 25 aprile 2013 e relativa ad una pronuncia pregiudiziale resa nella causa C-81/12, inerente ad una controversia insorta a seguito di dichiarazioni pubbliche, rilasciate da una persona che si presenta ed è percepita dall’opinione pubblica come il dirigente di una squadra di calcio professionistica, che escludevano l’ingaggio da parte di tale squadra di un calciatore presentato come omosessuale. Dette dichiarazioni sono state ritenute fondanti una chiara discriminazione sulla base delle tendenze sessuali, violando il principio di uguaglianza in materia di assunzioni e ledendo la dignità delle persone omosessuali.

Investita della questione pregiudiziale, la Corte Ue ha premesso che la direttiva Ue in oggetto stabilisce un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro. A norma della direttiva, quando davanti all’autorità giudiziaria o ad altra autorità competente sono dimostrati fatti dai quali si può presumere che vi è stata una discriminazione, l’onere della prova incombe ai convenuti, che devono dimostrare che, nonostante tale apparenza di discriminazione, non si è verificata alcuna violazione del principio della parità di trattamento.

Nella sua odierna sentenza, la Corte rileva che la direttiva è applicabile in situazioni come quelle da cui è scaturita la controversia nel procedimento principale dinanzi alla Curtea de Apel Bucureşti, che riguardano dichiarazioni relative alle condizioni di accesso all’occupazione, comprese le condizioni di assunzione. La Corte sottolinea che, sotto questo profilo, le specificità dell’assunzione dei calciatori professionisti sono irrilevanti, in quanto l’esercizio dell’attività sportiva come attività economica rientra appieno nel diritto dell’Unione.

Secondo la Corte, un datore di lavoro convenuto non può confutare l’esistenza di fatti che lasciano presumere che egli conduca una politica di assunzione discriminatoria limitandosi ad affermare che le dichiarazioni che suggeriscono l’esistenza di una politica di assunzioni omofoba provengono da una persona che, pur affermando di ricoprire un ruolo importante nella gestione di tale datore di lavoro, e pur sembrando rivestire tale ruolo, non è giuridicamente legittimata ad assumere decisioni che lo vincolino in materia di assunzioni. Pertanto, fatti come quelli che hanno dato origine alla controversia principale possono essere qualificati alla stregua di fatti sulla base dei quali si può argomentare che sussista una discriminazione. Ciò è vero nel caso di una squadra di calcio professionistica, nel caso in cui le dichiarazioni controverse provengano da una persona che si presenta ed è percepita, nei mezzi di informazione e nella società, come il principale dirigente di tale squadra professionistica, senza che sia per questo necessario che essa disponga della capacità di rappresentare giuridicamente tale società in materia di assunzioni. La circostanza, infatti, che il datore di lavoro non abbia chiaramente preso le distanze da queste dichiarazioni può essere presa in considerazione in sede di valutazione della sua politica di assunzioni.

Aggiunge ancora la Corte che l’onere della prova, così come specificamente previsto dalla Direttiva, non implica che la prova richiesta risulti impossibile da produrre senza ledere il diritto al rispetto della vita privata. L’apparenza di discriminazione fondata sulle tendenze sessuali, infatti, potrebbe essere confutata mediante una serie di indizi concordanti, tra i quali, ad esempio, una netta dissociazione rispetto alle dichiarazioni pubbliche discriminatorie, nonché l’esistenza di disposizioni espresse nella politica delle assunzioni dirette a garantire l’osservanza del principio della parità di trattamento.

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