Abuso di diritto, il Consiglio di Stato ribadisce l’applicabilità del divieto anche in chiave processuale

Redazione 22/05/12
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Lilla Laperuta

Le scelte e le domande proposte in giudizio devono essere vagliate anche alla stregua del concreto risultato perseguito dalle parte e della sua conformità agli scopi voluti dall’ordinamento. In tali termini, nella sentenza n. 2874 del 17 maggio, il Consiglio di Stato torna a ribadire l’applicabilità del principio generale del divieto di abuso del diritto anche in chiave processuale (si veda anche Cons. Stato, sez. IV, 2 marzo 2012, n. 1209).

In punto di diritto, i giudici di palazzo Spada tracciano una compiuta elaborazione giurisprudenziale del divieto di abuso del diritto richiamando innanzitutto la sentenza 20106 del 18 settembre 2009 pronunciata dalla sezione civile della Corte di Cassazione. In quell’occasione il Supremo Consesso aveva individuato quali elementi costitutivi dell’abuso del diritto i seguenti:

1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto;

2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate;

3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico;

4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.

L’abuso del diritto, quindi, ad avviso degli ermellini, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, configura l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore. Alterazione alla quale l’ordinamento giuridico risponde con un diniego di tutela rispetto alle posizioni giuridiche soggettive oggetto dell’abuso stesso, in quanto rivendicate con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede..

Di seguito, quello che preme precisare al Consiglio di Stato, è la portata generale del principio la cui applicazione spazia dal settore giuridico civile a quello tributario, dal societario agli schemi propri del diritto processuale.

Si richiamano quindi le Sezioni Unite laddove hanno generalizzato il divieto di elusione dei tributi affermando che «non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale»; tale regola è stata collegata all’esistenza di un principio generale non scritto volto a contrastare le pratiche consistenti in un abuso del diritto (Cass. civile, sez. un., 23 dicembre 2008 n. 30055).

Ancora, a riprova della natura generale del divieto di abuso del diritto, vengono debitamente riportate le autorevoli prese di posizione dell’Adunanza Plenaria debitamente espresse nella sentenza 23 marzo 2011 n. 3. In tale sede, si ricorda, sono state «considerate sindacabili, ai fini dell’esclusione o della riduzione dal danno ex art. 1227, comma 2, c.c., le condotte processuali opportunistiche che, in violazione del duty to mitigate che grava sul creditore, abbiano prodotto o dilatato un danno che sarebbe stato evitato in caso di tempestiva impugnazione del provvedimento dannoso o di esperimento degli altri strumenti di tutela previsti» (Cons. Stato, V, 7 febbraio 2012 n. 656).

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