Responsabilità dell’ente e la posizione dell’ODV nella realtà aziendale

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Circa venti anni fa il D.Lgs. 231/01 ha introdotto – recependo la normativa europea – una forma di responsabilità penale degli enti e ha introdotto gli Organi di Vigilanza, con l’intento far applicare modello organizzativi idonei alla prevenzione dei reati.
La normativa ha introdotto per la prima volta una sorte di “soggettività penale” degli enti, superando l’idea cardine secondo cui la responsabilità penale è personale (intesa come “personale-umana”).
Sono quindi sorte una serie di criticità, soprattutto in sede di interpretazione e di applicazione delle norme, sulle quali è opportuno compiere alcune riflessioni, senza dimenticare che – in materia penale – è essenziale limitare quanto più è possibile lo spazio di manovra delle analogie e delle presunzioni, e che nel rispetto dell’esigenza di tassatività della norma penale, non può essere in alcun modo obliterata o delegata la funzione capitale del legislatore politico.

Indice

1. Il quadro di riferimento

Il brocardo “societas delinquere non potest” è stato un pilastro del diritto penale, ricollegato ad un altro principio, quello della natura personale della responsabilità penale: ad una persona giuridica non poteva essere attribuita una forma di responsabilità derivante da un reato.
Col tempo questo principio, non senza discussioni, è stato superato soprattutto per una rinnovata valutazione quantitativa sul numero dei reati commessi all’interno delle aziende e qualitativa, ovvero di quei reati commessi nell’interesse delle aziende.
Questa rinnovata interpretazione non assegna una personalità giuridica “simile” a quella umana: resta solo l’uomo soggetto capace di commettere un fatto costituente reato che abbia piena rispondenza con la teoria della struttura dell’illecito penale (l’elemento oggettivo del reato, detto tipicità, l’elemento soggettivo, detto colpevolezza, e antigiuridicità del reato).
L’elemento che sino a poco tempo fa escludeva la responsabilità penale era la considerazione che le aziende non hanno un proprio interesse indipendente (né una propria volontà).
Ma proprio questo è il rinnovato esame valutativo: interesse e volontà vanno visti come “indirettamente degli azionisti”, nuovamente umani.
Una società che smaltisce illegalmente rifiuti, taglia costi e aumenta i profitti. Lo fa nel proprio interesse (in prima battuta) ma in definitiva arricchendo “da atto illecito” gli azionisti, che hanno espresso la volontà della società (decisioni e delibere) attraverso amministratori che hanno loro indicato e delegato.
È invece evidente che la considerazione prende proprio spunto dall’elemento inizialmente
Nel 2000 il Parlamento ha approvato la legge di delegazione n. 300, da cui ha origine nazionale il D.lgs. 231/2001, senza spingersi fino ad attribuire una vera e propria responsabilità penale in capo all’ente simile a quella delle persone fisiche, bensì una responsabilità amministrativa conseguente al reato totalmente autonoma rispetto a quella del suo autore e vincolata alla sussistenza di una serie di condizioni tassativamente previste.

2. La responsabilità da reato dell’ente

Il D.lgs. 231/2001 si applica agli enti dotati di personalità giuridica, alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica.
Non si applica invece ad una “struttura organizzativa” che impedisca di scindere la responsabilità penale della persona fisica dalla responsabilità amministrativa dell’ente, come ad esempio nel caso delle imprese individuali o delle imprese familiari. E la motivazione di tale esclusione appare evidente nella ratio.
Sono esclusi lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici non economici, gli enti pubblici strumentali e quelli che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.
Verrebbe da aggiungere “tuttavia” ne sono esclusi, e ciò perché da un lato è evidente una ratio sottesa per cui sarebbe complesso e rischioso che un potere dello Stato ne metta sotto accusa un altro, e poi perché non si comprenderebbe a priori “nell’interesse di chi” l’ente territoriale commetterebbe l’illecito, nel senso della ricostruzione motivazionale espressa seppur sinteticamente precedentemente.
Se “tuttavia” non vi è un interesse diretto paragonabile al rapporto tra illecito penale dell’azienda e il beneficio per gli azionisti, non si può a priori escludere che possa sussistere un interesse “ad agire illecitamente” da parte dell’ente a beneficio del “gestore politico” pro tempore, in sede attiva (commissione del fatto) o in sede passava (omissione dal compiere un atto), nel qual caso potrebbe sussistere l’interesse nel dirigente amministrativo, anche allo scopo di celare una diretta responsabilità.
Non che ciò sia in sé dirimente, o superi la prima considerazione, ma è semplicemente per rappresentare un elemento che meriterebbe una maggiore riflessione in sede di definizione dell’ambito dell’esclusione che invece che totale a priori potrebbe – e sarebbe meglio – venisse più articolatamente declinata.

3. Cosa determina la responsabilità da reato dell’ente

Innanzi tutto, come condizione preliminare, è necessario che sia stato commesso uno dei c.d. reati presupposto individuati agli artt. 24 e seguenti del D.lgs 231/2001, ossia “condotte penalmente rilevanti” e “tassativamente previste” dalla normativa.
L’eventuale commissione di reati diversi, quindi, comporterebbe l’esclusiva responsabilità penale dell’autore.
Anche in questo caso, premesso che la tassatività è principio garantista assoluto nel diritto penale e va individuato come principio inderogabile di civiltà in uno stato di diritto, appare poco comprensibile – sempre per un ragionamento a priori ed ex ante – perché questa tassatività debba essere “limitata” e non riguardare tutte le fattispecie tassativamente previste dalle norme penali.
Non si comprende cioè perché “escludere” fattispecie, laddove altri sono gli elementi necessari alla imputabilità in concreto del fatto criminale che vanno altresì strettamente e inequivocabilmente provati almeno e non meno che con lo stesso rigore richiesto per la persona fisica (essendo materia penale anche una asimmetria sarebbe poco comprensibile in un senso o in un altro).
In seconda battuta interviene il criterio oggettivo di imputazione, il quale stabilisce che l’ente è responsabile per i reati previsti agli artt. 24 e seguenti soltanto se commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da persone appartenenti alla sua struttura organizzativa.
Infine, abbiamo il criterio soggettivo di imputazione, il quale riguarda i soggetti appartenenti alla struttura organizzativa menzionati in precedenza
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Ed anche qui merita un “tuttavia” la previsione della commissione” da persone appartenenti alla sua struttura organizzativa”, che lascia troppi ed ampi margini alla commissione nell’interesse dell’ente da parte di soggetti “non inseriti strutturalmente” (che in termini di diritto ha una precisa valenza in organigramma) che offre un onere di prova “dell’effettivo potere esercitato” talmente vasto da essere indefinito (e la non definizione è un’aberrazione in materia penale!).
Il consulente esterno nominato dall’azionista, che esercita un potere di fatto anche se fuori organigramma? Come proviamo questo “potere di fatto”? L’ingerenza diretta dell’azionista che non ricopre incarichi e che non amministra direttamente? Va ricordato che anche la presunzione in diritto penale espone a rischi notevoli in termini di garanzie.
Stabilisce infatti la norma che i reati presupposto devono essere stati commessi dai soggetti c.d. apicali, ossia quelli che si trovano in posizione di vertice, oppure dai soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi.
La responsabilità dell’ente, peraltro, sussiste anche laddove l’autore materiale non sia individuabile.
E questo apre le porte alle “presunzioni da dimostrare”, concetto che mal si presta alla necessaria “certezza del diritto” e “certezza dell’agente”.
Premesso che i criteri oggettivi e soggettivi di imputazione devono essere dimostrati dal pubblico ministero in sede procedurale e processuale, per l’ente esistono delle vie di uscita per ottenere un esonero dalla responsabilità.
In particolare, l’ente dovrà provare di aver adottato un adeguato modello organizzativo per la prevenzione dei reati al suo interno e di averlo efficacemente attuato, di aver attribuito la vigilanza sul medesimo ad un organo interno dotato di poteri autonomi di iniziativa e controllo chiamato Organismo di Vigilanza e che la persona abbia commesso il reato eludendo fraudolentemente il modello.
Naturalmente, resta viva anche l’ipotesi di dimostrare, se del caso, che l’autore ha commesso il reato nel suo esclusivo interesse personale o nell’interesse di un terzo diverso dall’ente.

4. Ruolo e responsabilità dell’ODV nell’organigramma aziendale

È evidente l’importanza cruciale dell’adozione ed efficace attuazione del modello di organizzazione, gestione e controllo funzionale sia alla prevenzione dei reati, sia alla eventuale esclusione della responsabilità dell’ente.
Un ruolo fondamentale è svolto dal c.d. Organismo di Vigilanza, che oltre al compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli, è tenuto a curarne l’aggiornamento in relazione dell’evoluzione della struttura dell’ente e delle attività svolte dallo stesso.
A tale riguardo sarebbe rilevante che questo aggiornamento, oltre che “in relazione all’evoluzione della struttura e delle attività svolte” (fatto che dovrebbe essere implicito) abbia anche un processo di adeguamento esplicito, in termini cronologici, di recepimento della normativa “di maggior tutela” – anche a scopo prudenziale rafforzato – e che vengano definiti poteri-doveri di impulso, ovvero chiarire se è un adeguamento discrezionale o se (ad esempio) l’organo amministrativo abbia capacità di impulso in tal senso, senza che ciò implichi ingerenza nella funzione.
Inoltre, attraverso vari interventi normativi, l’applicabilità della responsabilità degli enti è stata estesa a reati come quelli connessi a riciclaggio e ricettazione, alla salute e sicurezza sul lavoro, o alla violazione del diritto d’autore, con la conseguenza che i membri degli organismi di vigilanza dovranno possedere diverse competenze tecniche specifiche in base all’attività svolta, sia in concreto che in senso lato.

5. La responsabilità dell’ODV

Bisogna partire dal fatto che il D.lgs. 231 nulla prevede circa le modalità di nomina dell’Organismo, la sua composizione, i rapporti con l’organo di gestione e i soggetti che ruotano attorno all’ente, e tanto meno prevede qualcosa relativamente alla eventuale responsabilità personale dei suoi membri in caso di mancata o insufficiente vigilanza.
Per la precisione, si evince soltanto che con la nomina l’Organismo assume il compito di vigilare sulla corretta applicazione del modello organizzativo, analizzare i flussi informativi da parte dei soggetti destinatari dei protocolli di prevenzione previsti dal modello, verificare periodicamente la diffusione del modello tra i suoi destinatari, curare l’aggiornamento e l’implementazione dello stesso e comunicare eventuali falle o distorsioni nell’applicazione dei modelli organizzativi da parte dei destinatari.
Quindi abbiamo un Organismo (che in sé può essere anche unipersonale) i cui criteri di nomina (e quindi parametri di indipendenza) non sono chiariti dalla norma, che deve adeguare, far applicare e adeguare, un “modello organizzativo” deciso altrove (inteso come organo differente), ed i cui rapporti interni non sono normati dal legislatore.
Ciò significa che se l’Organismo dovesse rilevare anomalie o problematiche di funzionamento, potrebbe solo riferire all’organo amministrativo o dirigenziale, il quale avrà poi l’onere di intervenire di conseguenza.
Quindi l’organismo ha solo poteri propositivi, consultivi, istruttori e di impulso.
Non solo, ma la totale estraneità alle scelte gestionali è proprio la base dell’organismo, il quale può adempiere correttamente ai propri compiti solo nella misura in cui è separato rispetto alla gestione della società e verifica, in maniera autonoma e indipendente, l’adozione e l’attuazione dei modelli organizzativi.
Inoltre, proprio in virtù dell’assenza di un dettato normativo specifico in tal senso, non può configurarsi, in capo all’Organismo di Vigilanza, una posizione di garanzia idonea a fondare la responsabilità per omesso impedimento dell’evento lesivo ai sensi dell’art. 40. c.p.
Il comma 2 dell’art. 40, infatti, nel prevedere il reato omissivo improprio, stabilisce che questo si può configurare soltanto in presenza di una norma giuridica espressa che imponga a determinati soggetti l’obbligo di impedire uno specifico evento, attribuendo i rispettivi poteri.
In concreto quindi la responsabilità – ancora una volta dell’Organismo – è solo configurabile laddove si verifichi la fattispecie (da dimostrare in concreto) della omissione rispetto alle proprie prerogative “strette” ovvero attività propositive, consultive, istruttorie e di impulso.
Peggio ancora se l’OdV assume la consistenza collegiale, laddove anche questa responsabilità – essendo presuntivamente di tutti i membri – andrebbe dimostrata più correttamente (come prevede la responsabilità penale) in capo a ciascuna delle persone fisiche facenti parte dell’Organo, senza presunzioni collettive.

6. Conclusioni

Premesso che sembrerebbe quindi da escludersi una eventuale responsabilità dell’OdV per i reati commessi all’interno dell’ente nel quale opera, poiché manca una norma che gli attribuisca una vera e propria posizione di garanzia.
Di recente, però, la giurisprudenza ha iniziato a far vacillare questa ricostruzione.
Con la sentenza n. 10748/2020 il Tribunale di Milano ha ad esempio contestato all’Organismo di aver “sostanzialmente omesso i dovuti accertamenti funzionali alla prevenzione dei reati, indisturbatamente reiterati”, e ancora, di aver “assistito inerte agli accadimenti, limitandosi a insignificanti prese d’atto, nella vorticosa spirale degli eventi che un più accorto esercizio delle funzioni di controllo avrebbe certamente scongiurato”.
Dalla sentenza sembra quindi emergere un vero rimprovero nei confronti dell’OdV per non aver impedito gli eventi lesivi.
Questa ricostruzione ha però destato molte perplessità da parte della dottrina prevalente, che continua a rimanere ferma sul dettato normativo del D.lgs. 231/2001 e dell’art. 40 c.p. che, come visto, portano ad escludere una responsabilità penale dell’Organismo di Vigilanza per i reati commessi nell’ente.
Appare evidente che un chiarimento in tal senso, che va dalla attribuzione effettiva di poteri-doveri-responsabilità, passando attraverso una più precisa determinazione dei criteri di nomina e dei rapporti di dipendenza e indipendenza verso l’organo amministrativo, nonché verso la proprietà, sono aspetti interpretativi che non possono essere delegati (in senso restrittivo o di ampliamento) alla sede giudicante (e quindi ex post), sostituendo di fatto (e di diritto) la funzione tipica del legislatore (e la insindacabilità del merito della scelta politica sottostante).

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Michele Di Salvo

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