Consigliare di eseguire il suicidio assistito in Svizzera non è istigazione al suicidio

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La Corte di Cassazione, con sentenza n. 17965 del 7 maggio 2024, ha chiarito che consigliare di eseguire il suicidio assistito in Svizzera non configura istigazione al suicidio.

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Corte di Cassazione – Sez. V Pen. – Sent. n. 17965 del 07/05/2024

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Indice

1. I fatti

La Corte d’Assise d’appello di Catania, in riforma della pronunzia di assoluzione perché il fatto non sussiste emessa dal Gup del Tribunale di Catania a seguito di giudizio abbreviato ed accogliendo l’appello del pubblico ministero, ha condannato, anche agli effetti civili, l’imputato per il reato di istigazione al suicidio.
La vicenda riguarda il suicidio assistito avvenuto in una clinica svizzera: la paziente si era determinata a tale soluzione in ragione delle condizioni in cui era costretta a vivere per i costanti dolori di cui soffriva a causa della sua malattia.
La paziente, dunque, contattava l’imputato quale presidente di un’associazione impegnata nella promozione di una “cultura di dignità della morte“, per assumere informazioni sulla possibilità di accedere alla pratica in Svizzera.
Sulla base del compendio probatorio acquisito, la Corte territoriale ha concluso, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, che l’imputato abbia rafforzato il proposito suicidario manifestato dalla persona offesa, realizzando una delle condotte tipizzate dall’art. 580 c.p.
Avverso la sentenza, è stato proposto ricorso per Cassazione.
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2. Consigliare di eseguire eutanasia in Svizzera: istigazione al suicidio?

La Corte di Cassazione, nell’analizzare il ricorso, rammenta un consolidato principio di diritto delle Sezioni Unite secondo il quale “il giudice di appello che riformi la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato“.
Qualora ad essere sovvertita sia una pronunzia assolutoria (come nel caso di specie) “il giudice dell’impugnazione non è più chiamato ad argomentare il dubbio processualmente plausibile dell’innocenza dell’imputato, bensì la certezza della sua colpevolezza, che gli impone di giustificare per quale motivo il diverso apprezzamento delle risultanze processuali deve ritenersi come l’unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio“.
Entrando ancor più nello specifico, la Suprema Corte osserva che la fattispecie configurata dall’art. 580 c.p. è nella sua sostanza plurisoggettiva necessaria impropria, atteso che alla produzione di uno degli eventi tipizzati dalla norma incriminatrice devono necessariamente concorrere l’azione autolesiva del soggetto passivo e la condotta del soggetto attivo del reato, che deve risolversi in una forma di istigazione, ossia nella determinazione o rafforzamento dell’altrui volontà suicida, ovvero di agevolazione dell’esecuzione del suicidio.
In tal senso, la condotta dell’agente, per essere tipica, “deve assumere una oggettiva efficienza nella causazione dell’evento del reato, la cui produzione deve comunque materialmente rimanere affidata all’azione del soggetto passivo, configurandosi altrimenti diverse ipotesi di reato“.
La Corte osserva che il profilo della condotta tipica si riflette sull’oggetto del dolo necessario per la sussistenza del reato, il quale non solo per questo risulta intenzionale.
Viene ribadito, infatti, che “quello richiesto dall’art. 580 c.p. è il mero dolo generico, per la cui integrazione è però indispensabile sia la prefigurazione dell’evento come dipendente dalla propria condotta, sia la consapevolezza della obiettiva serietà dell’altrui proposito suicida al cui rafforzamento la propria condotta deve per l’appunto concorrere“.
Se le frasi pronunziate dall’imputato nel corso dell’interlocuzione con il soggetto passivo del reato devono poter integrare la condotta tipica, la Corte di merito avrebbe dovuto innanzitutto spiegare in che termini le stesse debbano ritenersi specificamente orientate a rafforzate la volontà di accedere al suicidio e non rappresentino, piuttosto, la generica manifestazione delle astratte opinioni dell’imputato sul fine vita.

3. La decisione della Cassazione

Alla luce di quanto finora esposto, la Corte di Cassazione ha affermato che la Corte territoriale è stata”non poco assertiva” operando un “ambiguo e contraddittorio accenno ai successivi plurimi contatti telefonici e di messaggistica intervenuti tra i due protagonisti della vicenda“.
In secondo luogo, ha desunto la tipicità della condotta dal fatto che l’imputato non si sia limitato a fornire le informazioni richieste per mettersi in contatto con la clinica svizzera abilitata a somministrare il suicidio assistito, ma avrebbe divagato, intrattenendo la sua interlocutrice sulla supposta bontà della scelta suicidaria.
La Suprema Corte osserva che, premesso che la circostanza non è ancora idonea a dimostrare la tipicità della condotta, “è evidente come i giudici del merito abbiano cercato surrettiziamente di configurare in capo all’imputato una sorta di posizione di garanzia nei confronti di coloro che si rivolgono all’associazione da lui presieduta, in ragione della quale non gli sarebbe lecito manifestare le proprie opinioni generali sul fine vita, dovendosi invece fare carico della plausibile situazione di fragilità psicologica dei propri interlocutori, se non addirittura di dissuaderli dal loro proposito“.
Ad avviso del Collegio, la prova del nesso condizionalistico, poi, è stata sostanzialmente affidata ad un sillogismo fondato sui pareri dei consulenti tecnici e la cui struttura è sintetizzabile in questo modo: la paziente “in ragione delle sofferenze derivanti dalla malattia da cui era afflitta e dello stato depressivo che ne era conseguito, era un soggetto fragile, dunque, vulnerabile e per questo influenzabile e, di fatto, influenzata dai discorsi articolati dall’imputato nel corso dell’originario contatto telefonico“.
Anche questa tesi è stata smontata dalla Cassazione, definita “un mero paralogismo“.
In conclusione, la Suprema Corte ha ritenuto che la motivazione della sentenza non abbia dimostrato con la dovuta certezza l’effettiva influenza della conversazione avvenuta tra i due protagonisti della vicenda sulla decisione assunta dal soggetto passivo del reato.
Per ciò che concerne la configurabilità del dolo nel reato, la Corte sostiene che i giudici di merito avrebbero dovuto evidenziare le ragioni per cui l’imputato non possa aver agito eventualmente in maniera solo imprudente e, qualora avesse ritenuto atteggiarsi il dolo nella sua forma eventuale, se e per quale motivo possa ritenersi che l’imputato si fosse chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto .
Per questi motivi, la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Catania.

Riccardo Polito

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