Responsabilità degli enti e modelli di organizzazione idonei a prevenire reati

 In materia di responsabilità degli enti, cosa deve intendersi per “modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”

(Riferimento normativo: D.lgs., 8/06/2001, n. 231, art. 6, co. 1)

     Indice

  1. Il fatto
  2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
  3. La posizione assunta dalla Procura generale
  4. Le argomentazioni sostenute dalla difesa in sede di legittimità
  5. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
  6. Conclusioni

1. Il fatto

Ad una società era contestato l’illecito amministrativo di cui all’art. 25-ter, lett. r), d.lgs. n. 231 del 2001, dipendente dal delitto di aggiotaggio, compiuto nel suo interesse ed a suo vantaggio dal presidente del consiglio di amministrazione e dall’amministratore delegato della medesima società, mediante la comunicazione ai mercati di notizie false sulle previsioni di bilancio e sulla solvibilità di una società controllata posta in liquidazione.

A fronte di tale prospettazione accusatoria, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano assolveva la società, ai sensi dell’art. 6, d.lgs. n. 231 del 2001, ritenendo idoneo il modello organizzativo predisposto per ridurre il rischio di commissione dei reati.

Avverso questo provvedimento interponeva appello il Pubblico Ministero lamentando: a) che la sentenza aveva omesso di valutare l’effettività dell’attuazione del modello e della vigilanza esercitata dall’organismo di controllo; b) che il comportamento tenuto dai vertici della società non aveva connotazione elusiva, essendo consistito nella mera inosservanza del modello.

Ciò posto, a loro volta la Corte di Appello di Milano respingeva il gravame, ritenendo adeguato il modello ed elusivo il comportamento dei vertici, insuscettibile, in quanto tale, di essere impedito da qualsiasi modello organizzativo.

Il Procuratore generale distrettuale impugnava, dunque, tale decisione in sede di legittimità e la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, annullando con rinvio la sentenza e sollecitando la Corte di Appello di Milano ad un nuovo accertamento di fatto.

In particolare, la Corte di legittimità riteneva non idoneo ad esimere la società da responsabilità amministrativa da reato il modello organizzativo che preveda l’istituzione di un organismo di vigilanza sul funzionamento e sulla osservanza delle prescrizioni adottate, in quanto non provvisto di autonomi ed effettivi poteri di controllo, bensì sottoposto alle dirette dipendenze del soggetto controllato; inoltre sosteneva che la condotta del presidente e dell’amministratore delegato, consistita semplicemente nel sostituire i dati elaborati dai competenti organi interni e nel diffondere un comunicato contenente notizie false ed idonee a provocare un’alterazione del valore delle azioni della società, non poteva configurare l’elusione fraudolenta del modello ed esonerare l’ente dalla responsabilità, così come prevede l’art. 6, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 231 del 2001.

Veniva, dunque, devoluto al giudice di rinvio di accertare i poteri in concreto attribuiti all’organismo di vigilanza, soprattutto in relazione ai comunicati predisposti dai vertici della società e destinati al mercato.

Prim’ancora, veniva affidato al nuovo giudizio di merito l’accertamento della sussistenza – contestata dalla difesa interessata – del reato presupposto di aggiotaggio, rilevando la Corte di Cassazione l’impossibilità di pronunziarsi sul punto, poiché la questione non era stata affrontata nella sentenza oggetto del ricorso.

A fronte di tale provvedimento, dal canto suo, la Corte di Appello di Milano, all’esito del giudizio di rinvio, confermava la decisione assolutoria del primo giudice, tuttavia mutandone la formula, avendo concluso per la mancanza di prova della sussistenza del fatto.

Nel dettaglio, si riteneva che: a) il modello di organizzazione e di gestione adottato dalla società era idoneo in quanto conforme alle autorevoli indicazioni di “Consob” e “Confindustria”; b) permanendo incertezza sull’effettivo comportamento tenuto da presidente ed amministratore delegato della società, l’ipotesi dell’accordo collusivo tra costoro, al fine della veicolazione delle false informazioni, rimaneva l’unica sostenibile; c) tale condotta realizzava una fraudolenta elusione del modello, resa possibile per effetto di una decisione dell’organo apicale, di fatto imposta in ragione dell’autorità del medesimo e capace di eludere qualsiasi strumento organizzativo; d) era ultroneo, di conseguenza, soffermarsi sulla questione – introdotta dalla difesa interessata con memoria scritta depositata in tale grado del giudizio – della già intervenuta archiviazione del procedimento nei confronti della società, sebbene la richiesta in tal senso, erroneamente avanzata dal Pubblico ministero al Giudice per le indagini preliminari, dovesse intendersi come espressione di una chiara volontà di archiviazione.

2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento da ultimo citato ricorreva per cassazione la Procura generale distrettuale, ritenendo, anzitutto, che il giudice del rinvio non si fosse uniformato ai princìpi di diritto affermati con la sentenza rescindente sui seguenti profili: I) adeguatezza del modello adottato, che non poteva essere desunta dalla mera conformità del medesimo alle indicazioni rassegnate da enti autorevoli ma, comunque, sprovvisti di potestà normativa; II) non coincidenza della condotta fraudolenta, richiesta dalla legge, con la mera violazione della prescrizione contenuta nel modello, in cui invece si sarebbe sostanziato il contegno tenuto dagli organi apicali dell’ente, consistito nella semplice alterazione o sostituzione dei contenuti della comunicazione diffusa al mercato azionario, senza l’impiego di ulteriori comportamenti ingannevoli, che tali devono essere, peraltro, verso gli altri organi dell’ente, non con riferimento ai terzi destinatari delle informazioni.

Quanto, poi, alla sussistenza del reato presupposto, la parte ricorrente rilevava come, specialmente nella sentenza di primo grado, fosse contenuta una valutazione delle risultanze probatorie ben più approfondita rispetto a quella «incidentale», comunemente ritenuta sufficiente a tal fine.

Infine, in merito alla precedente richiesta di archiviazione, si evidenziava come detta istanza, quantunque non rituale, avesse rappresentato la necessaria conseguenza della ritenuta insussistenza del reato presupposto: essa, pertanto, era stata superata dal contrario divisamento del Giudice per le indagini preliminari e dall’ordine d’imputazione coatta da questi formulato.

Né, ad avviso del ricorrente, avrebbe potuto tale richiesta equipararsi al decreto di archiviazione del pubblico ministero, previsto dall’art. 58, d.lgs. n. 231 del 2001, poiché, se così fosse stato, sarebbe rimasto precluso il controllo del procuratore generale su tale atto, previsto dal successivo periodo della medesima disposizione normativa.

3. La posizione assunta dalla Procura generale

La Procura generale presso la Corte di Cassazione depositava una requisitoria scritta con cui erano condivise le argomentazioni esposte nel ricorso e si chiedeva quindi l’annullamento con rinvio della sentenza.

4. Le argomentazioni sostenute dalla difesa in sede di legittimità

La difesa dell’imputato, dal canto suo, depositava una memoria, rassegnando le seguenti conclusioni scritte.

Con riferimento alla già avvenuta archiviazione, essa deduceva che: a) l’ordine di formulare l’imputazione era stato correttamente emesso dal Giudice per le indagini preliminari soltanto nei confronti delle persone fisiche per il delitto di aggiotaggio, non anche nei riguardi della società per il connesso illecito amministrativo, talché esso non poteva spiegare alcuna rilevanza sull’azione nei confronti dell’ente; b) vi era assoluta incompatibilità tra la richiesta di archiviazione ed il successivo esercizio dell’azione penale sulla base degli stessi elementi; tale posteriore iniziativa, nell’assenza di disciplina sulla riapertura delle indagini in materia di responsabilità degli enti da reato, si rivela del tutto irrituale, se non addirittura abnorme.

Sarebbe mancato, inoltre, l’accertamento del reato presupposto: l’aggiotaggio, cioè, in ipotesi compiuto da presidente ed amministratore delegato della società posto che il relativo processo si era concluso per costoro con una sentenza d’improcedibilità per intervenuta prescrizione del reato, e nessuna delle sentenze di merito emesse in quel giudizio ne aveva accertato, seppur incidentalmente, la sussistenza.

Anche quella di primo grado, particolarmente evocata dal ricorso del Procuratore generale distrettuale, per il difensore, non sarebbe stato concludente poiché, per una parte della condotta, si era limitata a ritenere non convincenti le tesi difensive, mentre, per il resto, aveva addirittura espressamente evocato la necessità di un vaglio dibattimentale dell’accusa.

Peraltro – concludeva la difesa – nemmeno il ricorso in rassegna devolveva espressamente il tema alla Cassazione.

Ciò posto, relativamente, invece, alla tematica dell’efficacia del modello organizzativo, per il difensore, il ricorso sarebbe stato generico, limitandosi a richiamare l’affermazione della sentenza di legittimità rescindente in merito all’insufficienza della conformità di tali documenti agli schemi predisposti da organizzazioni di categoria: né il ricorso né la sentenza, però, avrebbero spiegato le ragioni per le quali il modello dovesse ritenersi inadeguato.

Peraltro, evidenziava la difesa come, nell’atto d’appello, la stessa Procura della Repubblica non avesse censurato l’idoneità del modello, bensì la sua attuazione, tenuto conto altresì del fatto che, a suo avviso, la sentenza impugnata avrebbe adeguatamente assolto al compito devoluto dalla precedente sentenza di annullamento con rinvio della Cassazione, di accertare la condotta fraudolenta ed elusiva del modello, necessariamente ulteriore rispetto alla mera violazione delle relative prescrizioni atteso che tale condotta, nel rispetto delle relative connotazioni delineate dal giudice di legittimità, era stata correttamente individuata nell’accordo fra amministratore delegato e presidente della società, organo, quest’ultimo, deputato ex lege al controllo della legalità dell’azione dell’ente e del rispetto delle procedure; accordo – secondo quanto osservato dalla Corte di Appello – dotato di efficacia decettiva, perché praticamente impossibile da accertare, tanto più se, come nello specifico, intervenuto in tempi assai ristretti.

Peraltro – concludeva la difesa sul punto – lo stesso Giudice dell’udienza preliminare aveva ritenuto impensabile che il compito di comunicare all’esterno le notizie relative allo stato della società potesse essere affidato ad organi sociali diversi da quelli di vertice.

Da ultimo, si deduceva l’intervenuta prescrizione dell’illecito dell’ente, prim’ancora della formulazione della contestazione, a norma dell’art. 59, d.lgs. n. 231, cit. poiché quest’ultima, secondo quanto aveva confermato la stessa Procura generale ricorrente, sarebbe avvenuta a seguito dell’ordine in tal senso impartito dal Giudice per le indagini preliminari il 13 febbraio 2009 ma a tale data, tuttavia, era già decorso il termine di prescrizione previsto dall’art. 22 d.lgs. cit., pari a cinque anni dalla data di consumazione del reato presupposto, avvenuta, al più tardi, il 10 marzo 2003.

 


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5. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

La Suprema Corte osservava prima di tutto come fosse pregiudiziale, ai fini della decisione, l’accertamento sulle ragioni d’improcedibilità prospettate dalla difesa della società, che, se fondate, avrebbero impedito di prendere conoscenza dei motivi di ricorso.

Ci si riferiva, in particolare, all’effetto preclusivo della precedente archiviazione della notizia dell’illecito ed alla prescrizione del medesimo.

Orbene, per la Cassazione, entrambe le deduzioni non avevano fondamento giuridico.

Nel dettaglio, riguardo alla prima, in tema di preesistente archiviazione e conseguente effetto preclusivo rispetto all’esercizio dell’azione penale, i presupposti di fatto dai quali essa muoveva, per gli Ermellini, erano indiscussi: la contestazione dell’illecito all’ente era avvenuta soltanto a seguito di ordine d’imputazione coatta emesso dal Giudice per le indagini preliminari, limitato soltanto ai reati-presupposto ascrivibili alle persone fisiche; nessun elemento di novità ulteriore è stato acquisito successivamente alla richiesta di archiviazione avanzata dall’autorità inquirente a quel giudice.

Ond’è che – secondo la difesa – l’irrituale richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero avrebbe tenuto luogo, di fatto, del provvedimento ex art. 58, d.lgs. n. 231 del 2001, con conseguente impossibilità per tale autorità di determinarsi diversamente sulla base del medesimo quadro probatorio.

La tesi, tuttavia, non era stimata fondata.

Derogando rispetto al sistema previsto dal codice di rito per i reati delle persone fisiche, il citato art. 58 attribuisce allo stesso pubblico ministero il potere di emettere decreto motivato di archiviazione, là dove ritenga che non vi siano gli estremi per esercitare l’azione punitiva’ nei confronti dell’ente, senza la necessità di inoltrare una richiesta in tal senso al giudice per le indagini preliminari.

Ciò non di meno, quando tale richiesta venga erroneamente presentata, ed il giudice, correttamente, sulla stessa non provveda, non è possibile assegnare a quell’atto del pubblico ministero, in via di mero fatto, un significato ed una funzione del tutto differenti da quelli attribuitigli dall’autorità che lo ha emesso e ciò, non soltanto perché, in via generale, gli atti officiosi del rito penale non prevedano comportamenti concludenti con effetto surrogatorio, ma soprattutto perché la specifica disciplina dell’inazione del pubblico ministero in questa materia non si esaurisce con l’emanazione del relativo decreto motivato, ma prevede comunque un meccanismo di controllo di tale provvedimento, ancorché non affidato al giudice per le indagini preliminari dato che lo stesso art. 58 dispone che quel decreto venga comunicato al procuratore generale presso la corte d’appello, il quale, ove lo ritenga, potrà integrare l’attività istruttoria e procedere direttamente alla contestazione dell’illecito entro i sei mesi successivi alla ricezione della comunicazione.

Tal che se ne faceva conseguire che, quand’anche si volesse equiparare a tale decreto la richiesta del procuratore della Repubblica erroneamente inviata al giudice per le indagini preliminari, nessuna valenza di “archiviazione di fatto” sarebbe comunque possibile attribuire alla stessa, in assenza della relativa comunicazione al procuratore generale e della conseguente verifica a quest’ultimo demandata, tenuto conto altresì del fatto che, ove mai si volesse ritenere che l’erronea richiesta di archiviazione del pubblico ministero comunque equivalga al decreto di cui al citato art. 58, né la lettera, né la ratto del complessivo sottosistema predisposto dal d.lgs. n. 231 del 2001, inibiscono un “ripensamento” e, quindi, la possibilità di una riapertura delle indagini e di un successivo esercizio dell’azione motu proprio da parte del medesimo organo.

In conclusione, dunque, per la Corte di legittimità, nessun ostacolo alla formulazione della contestazione nei confronti dell’ente sarebbe potuto derivare dalla precedente richiesta di archiviazione avanzata dalla medesima autorità inquirente, anche a voler attribuire a tale atto una natura diversa da quella sua propria.

Ciò posto, era altresì esclusa, poi, la prescrizione dell’illecito alla luce delle seguenti considerazioni: “L’art. 22, d.lgs. n. 231 del 2001, fissa il termine di prescrizione delle sanzioni per gli enti in cinque anni dalla data di consumazione del reato presupposto (comma 1) e prevede che la prescrizione sia interrotta, oltre che dalla richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive, dalla contestazione dell’illecito all’ente, a norma del successivo art. 59 (comma 2), disponendo, in quest’ultimo caso, che il decorso del termine di prescrizione si arresti fino al passaggio in giudicato della sentenza definitiva del giudizio (comma 4). Nello specifico, dunque, sebbene nella sentenza impugnata si dica che la contestazione dell’illecito all’ente sia stata elevata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano il 6 marzo 2009, e quindi oltre il termine di cinque anni dalla data del reato presupposto (10 marzo 2003), va tuttavia rilevato che in realtà la contestazione risultava essere stata già formulata dal Pubblico ministero presso il Tribunale di Monza, e ciò certamente entro il termine quinquennale di prescrizione, come si rileva dalla data – 24 aprile 2006, anche questa indicata dalla sentenza impugnata – della sentenza con la quale il Giudice per le indagini preliminari di quel Tribunale si è dichiarato territorialmente incompetente. Ovviamente, tale passaggio procedimentale, con i relativi effetti sulla disciplina della prescrizione che la legge vi ricollega, non può considerarsi tamquam non esset, in ragione dell’avvenuta regressione del procedimento ad una fase precedente, tanto più perché detta regressione non è derivata da alcuna invalidità di atti del medesimo (in questi termini, con specifico riferimento alla prescrizione del reato, Sez. 2, n. 30627 del 03/03/2017, omissis, Rv. 270904, con argomenti estensibili tal quali a quella dell’illecito amministrativo da reato, operando l’istituto in modo del tutto identico in entrambi i casi)”.

Chiarito ciò, altro tema che, per la Corte di legittimità, doveva necessariamente essere trattato in via pregiudiziale, poiché potenzialmente suscettibile di escludere a monte la possibilità di ascrivere un illecito all’ente, era quello riguardante l’accertamento del reato presupposto delle persone fisiche.

In particolare, la difesa, muovendo dal dato di fatto per cui il relativo processo si era concluso con una sentenza dichiarativa della prescrizione di tale reato, deduceva come un accertamento dell’effettiva sussistenza dello stesso non fosse mai intervenuto, neppure in via incidentale, con la conseguente impossibilità di configurare l’ipotizzato illecito della società.

Orbene, per la Cassazione, tale rilievo non aveva fondamento.

Difatti, in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità dell’ente, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 231 del 2001 (Sez. 4, n. 22468 del 18/04/2018; Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013; analogamente, sebbene nella diversa ipotesi di una pronuncia assolutoria della persona fisica per particolare tenuità del fatto, Sez. 3, n. 9072 del 17/11/2017), e la giurisprudenza esclude la necessità di un definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, confermando la sufficienza di un accertamento incidentale (così, Sez. 3, n. 9072 del 2017).

Nello specifico, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, un accertamento di tal specie era stato senza dubbio compiuto e se ne era dato ampio riscontro nella sentenza di primo grado, espressamente richiamata dal Procuratore generale ricorrente.

L’affermazione della difesa, secondo cui detta sentenza si sarebbe limitata a ritenere non convincenti le relative allegazioni a discarico, per la Cassazione, non corrispondeva al vero poiché, quanto meno con riferimento alle false comunicazioni contestate agli imputati ai punti 1 e 2 del capo c) della rubrica d’accusa, tale decisione conteneva, non soltanto una dettagliata ricostruzione dei fatti, con indicazione delle relative fonti di prova, ma anche una motivata critica delle tesi difensive (con specifico riguardo all’indicazione di alcuni crediti e di incerti ricavi della società ed alla situazione patrimoniale della medesima, oggetto di quelle false notizie ai mercati: v. pag. 9-13, sent. G.i.p. Trib. Milano del 17/11/2009).

Né, sempre per la Cassazione, la difesa poteva dolersi del fatto che il tema non fosse stato affrontato specificamente, nel merito, dal Procuratore generale con il ricorso in scrutinio atteso che,  in assenza, nella sentenza impugnata, di una puntuale affermazione nel senso della esclusione del reato presupposto, sempre per il Supremo Consesso, non potevo ritenersi formato alcun giudicato negativo interno, tale da precludere in questa sede la disamina del punto.

Ciò posto, per quanto invece concerne la questione centrale del ricorso, ossia quella della configurabilità dell’illecito dell’ente, i giudici di legittimità ordinaria rilevano come fossero essenzialmente tre i profili sui quali le parti, con i loro atti, sollecitavano una pronuncia della Corte di Cassazione, cioè: a) l’idoneità del modello di organizzazione e di gestione approntato ai fini della prevenzione dei reati – per così dire – “di comunicazione“, qual è l’aggiotaggio; b) l’autonomia dell’organismo di vigilanza ed i poteri del medesimo in relazione all’attività ed agli atti dei vertici dell’ente, ovvero il presidente del consiglio di amministrazione e l’amministratore delegato; c) l’elusione fraudolenta del modello organizzativo, che avrebbe caratterizzato la condotta di questi organi apicali.

Ebbene, relativamente alla prima di tali questioni, appariva opportuna, per la Cassazione, fare una preliminare considerazione in rito.

Si evidenziava a tal proposito che se, nella sua memoria, la difesa deduceva, sebbene incidentalmente, che la questione dell’idoneità del modello non fosse stata sollevata dal Pubblico ministero con l’atto d’appello, in cui era stata lamentata, piuttosto, la non efficace attuazione dello stesso, si evidenziava però che il tema dell’idoneità del modello non soltanto costituiva l’oggetto esclusivo dell’incolpazione (contestandosi alla società di aver «predisposto ed attivato un modello organizzativo inidoneo a prevenire i reati sopra specificati»), ma era stato altresì espressamente individuato come decisivo dalla sentenza della Corte di Cassazione che aveva annullato con rinvio la prima decisione d’appello, invitando il giudice di merito a pronunciarsi sul punto, ragione per cui le relative doglianze rassegnate dalla Procura generale con il ricorso in scrutinio, per la Corte di legittimità, non potevano ritenersi “motivo nuovo“, che, se effettivamente tale, sarebbe stato perciò precluso: ciò che, in verità, neppure la difesa prospettava.

Premesso ciò, entrando, dunque, nel merito della questione, e muovendo inevitabilmente dal dato normativo, era prima di tutto rilevato come la responsabilità degli enti per i reati commessi dai “soggetti in posizione apicale” sia stata costruita dal legislatore secondo un meccanismo peculiare dal momento che l’art. 6 del d.lgs. n. 231/2001 stabilisce che «l’ente non risponde se prova che… l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi».

Ed allora, nel caso in esame, indiscussa la preventiva adozione del modello organizzativo da parte della società, il tema atteneva all’idoneità di esso a ridurre il rischio di commissione dei reati connessi alle attività informative della medesima rispetto al mercato ed agli enti regolatori dello stesso.

Sul punto, era anzitutto precisato che l’anzidetta previsione normativa non prevede alcuna inversione dell’onere probatorio, essendo essa espressiva, piuttosto, del principio per cui il fondamento della responsabilità dell’ente è costituito dalla “colpa di organizzazione“, essendo tale deficit organizzativo quello che consente la piana ed agevole imputazione all’ente dell’illecito penale.

Come già precisato dalla Sezioni unite (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014), grava, dunque, sull’accusa l’onere di dimostrare l’esistenza dell’illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa della societas e che abbia agito nell’interesse di questa e tale accertata responsabilità si estende, poi, dall’individuo all’ente collettivo, nel senso che vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente, che rendono autonoma la responsabilità di quest’ultimo.

Chiarito ciò, gli Ermellini rilevavano oltre tutto che, nel giudicare dell’idoneità del modello organizzativo, è indiscutibile che non possa assegnarsi rilievo al fatto che un reato sia stato effettivamente consumato posto che, ad opinare diversamente, qualora un reato venisse realizzato, essendosi il modello rivelatosi, nei fatti, incapace di prevenirne la commissione, la clausola di esonero della responsabilità dell’ente non potrebbe mai trovare applicazione e la citata disposizione normativa sarebbe, di fatto, inutiliter data.

La commissione del reato, in altri termini, non equivale a dimostrare che il modello non sia idoneo.

Il rischio reato viene invero ritenuto accettabile quando il sistema di prevenzione non possa essere aggirato se non fraudolentemente, a conferma del fatto che il legislatore ha voluto evitare di punire l’ente secondo un criterio di responsabilità oggettiva.

Il modello costituisce uno degli elementi che concorre alla configurabilità o meno della colpa dell’ente, nel senso che la rimproverabilità di quest’ultimo e, di conseguenza, l’imputazione ad esso dell’illecito sono collegati all’inidoneità od all’inefficace attuazione del modello stesso, secondo una concezione normativa della colpa: in estrema sintesi, l’ente risponde in quanto non si è dato un’organizzazione adeguata, omettendo di osservare le regole cautelari che devono caratterizzarla, secondo le linee dettate dal citato art. 6.

Da tanto discende la necessità che il giudice, nel suo giudizio valutativo sul modello, prenda in considerazione anche l’imputazione del risultato colposo visto che, perché possa affermarsi una responsabilità colposa, si ritiene insufficiente la realizzazione del risultato offensivo tipico in conseguenza della condotta inosservante di una data regola cautelare, ma occorre che il risultato offensivo corrisponda proprio a quel pericolo che la regola cautelare violata era diretta a fronteggiare.

Occorre, cioè, una corrispondenza causale tra la violazione della regola cautelare e la produzione del risultato offensivo.

Una tale impostazione porta a prendere quindi in considerazione, per la Corte di legittimità, anche il c.d. “comportamento alternativo lecito“: l’ipotesi, ovvero, in cui l’osservanza della regola cautelare, al posto del comportamento inosservante, non avrebbe comunque consentito di eliminare o ridurre il pericolo derivante da una data attività.

Se, cioè, l’evento realizzato a causa dell’inosservanza della regola cautelare risulta non evitabile, non vi è spazio per l’affermazione di colpa.

Ne deriva che, nel caso in cui non sia possibile escludere con certezza il ruolo causale dei fattori di rischio considerati dalla norma cautelare, la responsabilità colposa non potrà essere affermata.

Oltre a ciò, una volta fatto presente che, dal momento in cui si costruisce una responsabilità dell’ente per colpa, questo tipo di valutazione dev’essere condotta anche nel giudizio sull’idoneità dei modelli adottati, da ciò se ne faceva conseguire che il giudice, nella sua valutazione, dovrà collocarsi idealmente nel momento in cui il reato è stato commesso e verificarne la prevedibilità ed evitabilità qualora fosse stato adottato il modello “virtuoso“, secondo il meccanismo epistemico-valutativo della c.d. “prognosi postuma, già sperimentato in altri ambiti del diritto penale fermo restando che tale valutazione dovrà necessariamente spingersi a verificare anche l’attuazione del modello in termini di efficacia (artt. 6 e 7, d. Igs n. 231, cit.), basandosi su elementi di fatto concreti, raccolti in istruttoria (testimonianze, perizie, prove scientifiche).

Il giudice, dunque, è chiamato ad una valutazione del modello in concreto, non solo in astratto, ma tale controllo è sempre limitato alla verifica dell’idoneità del modello a prevenire reati della specie di quello verificatosi, sicché dev’escludersi che il controllo giudiziario del compliance abbia una portata “totalizzante“, dovendo essere rivolto, invece, ad escludere la reiterazione degli illeciti già commessi; il modello organizzativo, cioè, non viene testato dal giudice nella sua globalità, bensì in relazione alle regole cautelari che risultano violate e che comportano il rischio di reiterazione di reati della stessa specie, essendo, all’interno di questo giudizio, che occorre accertare la sussistenza della relazione causale tra reato ovvero illecito amministrativo e violazione dei protocolli di gestione del rischio.

Oltre a ciò, la Cassazione riteneva altresì necessario stabilire, poi, quale debba essere il parametro sul quale va calibrato il giudizio di adeguatezza del modello organizzativo giacché l’art. 6, comma 4, d.lgs. n. 231/2001, nel prevedere che i modelli possano essere adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti e comunicati al Ministero della Giustizia, per eventuali osservazioni di concerto con i Ministeri competenti, esprime l’esigenza d’introdurre un meccanismo che fissi parametri orientativi per le imprese e le società, al fine di ridurre il rischio di una disomogeneità interpretativa ed attuativa nella valutazione giudiziale dei modelli.

L’approvazione dei codici di comportamento da parte del Ministero della Giustizia dovrebbe, dunque, assicurare una certa omogeneità nell’àmbito del territorio nazionale circa le caratteristiche fondamentali dei modelli per le diverse categorie d’imprese, rappresentando, per la stessa autorità giudiziaria, un importante parametro di riferimento, sebbene non vincolante.

Diversamente, pertanto, da quel che hanno sostenuto entrambi i giudici di merito in accoglimento di quanto prospettato dalla difesa, per i giudici di legittimità ordinaria, le linee-guida elaborate dagli enti rappresentativi di categoria non possono rappresentare la regola organizzativa esclusiva ed esaustiva.

Infatti, se è vero che l’art. 6, comma 4, d.lgs. cit., prevede un procedimento funzionale, almeno nelle intenzioni del legislatore, da un lato, a fissare, attraverso le c.d. linee guida, parametri orientativi per le imprese nella costruzione del “modello organizzativo“, dall’altro, a temperare la discrezionalità del giudice nella valutazione dell’idoneità del modello stesso, tuttavia, occorre prendere atto che il percorso in ordine ai criteri di progettazione e implementazione del modello da parte dell’impresa è frutto di un processo di auto-normazione, in cui è l’impresa, anche tenendo presenti le indicazioni delle associazioni di categoria, che individua le cautele da porre in essere per ridurre il rischio di commissione dei reati.

Vi è, quindi, la necessità che il modello sia quanto più singolare possibile, perché, solamente se calibrato sulle specifiche caratteristiche dell’ente (dimensioni, tipo di attività, evoluzione diacronica), esso può ritenersi effettivamente idoneo allo scopo preventivo affidatogli dalla legge fermo restando che, in presenza di un modello organizzativo conforme a quei codici di comportamento, il giudice sarà tenuto specificamente a motivare le ragioni per le quali possa ciò nonostante ravvisarsi la “colpa di organizzazione” dell’ente, individuando la specifica disciplina di settore, anche di rango secondario, che ritenga violata o, in mancanza, le prescrizioni della migliore scienza ed esperienza dello specifico ambito produttivo interessato, dalle quali i codici di comportamento ed il modello con essi congruente si siano discostati, in tal modo rendendo possibile la commissione del reato.

Tanto premesso, secondo quanto si leggeva nella sentenza impugnata, che peraltro richiamava espressamente quella di primo grado, il modello predisposto, con riferimento ai reati di aggiotaggio, prevedeva la partecipazione di due o più soggetti al compimento delle attività a rischio, nonché specifiche procedure autorizzative per comunicati stampa e divulgazioni di analisi e studi aventi ad oggetto strumenti finanziari.

Inoltre, in base al regolamento interno della società, la procedura autorizzativa dei comunicati stampa si articolava secondo le seguenti cadenze: 1) descrizione dell’operazione a cura delle funzioni aziendali direttamente a conoscenza dei fatti oggetto di comunicazione; 2) bozza di comunicato redatta dall’ufficio relazioni esterne; 3) revisione ed approvazione della versione definitiva a cura del presidente del consiglio di amministrazione e dell’amministratore delegato; 4) inoltro del comunicato in via informatica a “B. I.”, “Consob” ed almeno due agenzie di stampa.

In particolare, quelle regole interne affidavano in via esclusiva ai due anzidetti organi di vertice il compito di comunicare all’esterno le informazioni riservate (cc.dd. “price sensitive”) concernenti la società e le sue controllate e relative alla gestione di assets significativi, con l’espressa previsione per cui la relativa divulgazione dovesse avvenire in modo completo, tempestivo, adeguato e non selettivo.

Ciò posto, la Corte di legittimità riteneva come le anzidette prescrizioni contenute nel modello predisposto si presentassero, nel loro complesso, adeguate alla prevenzione di reati “di comunicazione“: un’adeguatezza che andava valutata collocandosi idealmente nel momento in cui il reato era stato commesso, considerando, quindi, l’epoca in cui tali prescrizioni furono elaborate, all’indomani dell’introduzione del d.lgs. n. 231.

L’apprestamento di procedure complesse, con la partecipazione necessaria di differenti articolazioni dell’organizzazione dell’ente, ciascuna secondo le specifiche competenze, può ritenersi invero, per gli Ermellini, un congruo presidio preventivo.

Così come (stimata) appropriata, e perciò non censurabile, era stata la scelta di affidare ai vertici assoluti dell’ente, d’intesa tra loro, l’approvazione del testo definitivo della comunicazione all’esterno ed a ciascuno di essi la legittimazione alla divulgazione delle notizie rilevanti: corretta, in tal senso, la valutazione compiuta dai giudici di merito, per cui nessuno, più degli organi per legge titolari del potere di rappresentanza della società, avrebbe potuto avervi maggior titolo.

Fin qui, dunque, per la Suprema Corte, non era rilevabile nessun problema.

Invece, il punto di criticità di un tal modello, in realtà, per la Suprema Corte, era quello individuato dalla sentenza di annullamento con rinvio della Corte di Cassazione e sul quale, in effetti, la sentenza impugnata rimaneva, a suo avviso sostanzialmente in silenzio: quello, cioè dei poteri assegnati all’organismo di vigilanza e della sua autonomia rispetto ai vertici della società.

Tra le condizioni che l’art. 6, d.lgs. n. 231, cit., pone per mandare esente l’ente dalla responsabilità per il delitto commesso dai suoi vertici, v’è anche quella di aver affidato «il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli [e] di curare il loro aggiornamento.., a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo».

Da questo testo normativo si ricava che tale organo, pur non dovendo necessariamente essere esterno alla struttura organizzativa dell’ente (la legge parla, anzi, di “organismo dell’ente”), sia comunque munito di poteri autonomi rispetto agli amministratori, risolvendosi altrimenti in un «mero simulacro» il controllo ad esso affidato.

In “I.” – stando a quanto si leggeva nella sentenza di primo grado, che quella impugnata si limitava a richiamare – detto organismo, denominato “compliance officier”, aveva composizione monocratica ed era stato individuato nel responsabile dell’internal auditing, sganciato dalla sottoposizione alla Direzione amministrazione, finanza e controllo, ma posto «alle dirette dipendenze» del Presidente del consiglio di amministrazione (così, testualmente, pag. 7).

S’imponeva, dunque, per la Corte, una prima osservazione, con precipuo riferimento alla condizione di autonomia di un siffatto organismo rispetto al vertice aziendale, essendo, a suo avviso, ragionevole dubitare che un organo monocratico, il quale, nell’organigramma aziendale, sia posto «alle dirette dipendenze» del presidente, offra sufficienti garanzie di autonomia da quest’ultimo e, attraverso di esso, dagli amministratori della società: il che – per quel che qui interessa – ridonda negativamente sull’adeguatezza delle relative prescrizioni del modello (in questo senso, in effetti, la Corte di Cassazione ha avuto modo di esprimersi anche successivamente alla sentenza rescindente emessa nel presente procedimento: vds. Sez. 2, n. 52316 del 27/09/2016).

Ebbene, a fronte di tale questione, gli Ermellini consideravano che la lacuna od il punto di debolezza di un modello possano condurre a ravvisare una responsabilità dell’ente soltanto se abbiano avuto un’efficienza causale nella commissione del reato presupposto da parte del soggetto apicale, nel senso che la condotta di questi sia stata resa possibile, anche in via concorrente, proprio dall’assenza o dall’insufficienza delle prescrizioni contenute nel modello, essendo questa, l’unica lettura normativa possibile, per evitare tensioni con il principio costituzionale del divieto di responsabilità per fatto altrui (art. 27, primo comma, Cost.), peraltro applicabile anche al sistema sanzionatorio amministrativo (art. 1  legge. n. 689 del 1981) e, a maggior ragione, alla disciplina della responsabilità da reato degli enti.

Da ciò se ne faceva discendere che, per rimanere all’ipotesi di causa, una responsabilità si sarebbe potuta ravvisare nel caso di specie solo se la mancanza, in conseguenza del modello adottato, di un’adeguata garanzia di autonomia del compliance officier aziendale avesse permesso a presidente ed amministratore delegato di divulgare le false informazioni al mercato.

Ebbene, sulla scorta della ricostruzione dei fatti compiuta dai giudici di merito, per la Cassazione, la risposta non poteva che essere negativa dato che le comunicazioni integranti i delitti di aggiotaggio commessi da presidente ed amministratore delegato sarebbero state il frutto di un’iniziativa estemporanea di costoro, tra loro concordata in tempi ristrettissimi, rispetto alla quale rimane del tutto indifferente il grado di autonomia più o meno ampio riconosciuto all’organismo di vigilanza, come pure la sua composizione monocratica.

In altri termini, non appariva essere stato dimostrato che fossero state diffuse le false informazioni sulle condizioni patrimoniali a causa della mancanza di autonomia dell’organismo di vigilanza.

Il tema, a questo punto, per la Suprema Corte, atteneva ai poteri dell’organismo di vigilanza sugli atti dell’organo rappresentativo e degli amministratori dell’ente, deputati per legge ad impersonarlo ed a manifestarne la volontà all’esterno.

La questione in particolare, per la Corte di legittimità, era quella di individuare il punto fino al quale sia legittimo esigere che anche gli atti dei massimi rappresentanti di una società siano sottoposti ad un controllo, tanto più se di tipo preventivo, da parte di altro organo aziendale, come l’organismo di vigilanza.

Nella relazione illustrativa della legge delega, ad esempio, si legge che, in questi casi, «l’elevato livello di poteri e di responsabilità dell’autore del reato, per il ruolo dirigente ricoperto nell’organizzazione, consente di identificare nella sua colpa la colpevolezza dell’organizzazione stessa».

E’ fin troppo agevole intravedere, in queste parole, un’espressione del tradizionale principio di immedesimazione organica dell’ente, che trova generale applicazione, ad esempio, nel diritto civile (v. artt. 2266, 2384, cod. civ.).

Il legislatore delegato, però, si è fatto carico dei timori di compatibilità di una siffatta previsione con il principio costituzionale di colpevolezza, ritenuto applicabile in sublecta materia in ragione della natura “sostanzialmente penale” della responsabilità dell’ente (un “tertium genus” di responsabilità, compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza, secondo Sez. U, n. 38343 del 2014) e, dunque, ha ritenuto necessario recuperare un coefficiente di riferibilità soggettiva del fatto alla societas, individuandolo – come già s’è detto – nella “colpa di organizzazione“.

In verità, i timori del legislatore delegato si presentano, per la Corte di legittimità, fondati con particolare riferimento all’ipotesi del c.d. “amministratore infedele“: del soggetto apicale, cioè, che, nel momento in cui commette il reato, pur agendo nell’interesse od a vantaggio della società, non si conformi alla politica d’impresa, secondo le linee tracciate, a seconda delle competenze, dal consiglio d’amministrazione o dall’assemblea dei soci (si pensi al caso, per esemplificare, dell’amministratore delegato che, di propria iniziativa esclusiva ed all’oscuro degli altri organi sociali, per far aggiudicare un appalto pubblico alla società, decida di corrompere il pubblico funzionario competente).

Orbene, per il Supremo Consesso, la scelta di fondo del legislatore è stata quella di tenere distinta la responsabilità dell’ente da quella dei suoi vertici, riconducendo alla prima solo quelle condotte causalmente ricollegabili ad una “colpa di organizzazione“, costituisca, ad un tempo, anche il metro dell’ingerenza consentita all’organismo di vigilanza sugli atti degli apicali, e quindi il contenuto necessario del modello, perché lo stesso possa reputarsi idoneo.

Un modello organizzativo che rendesse obbligatorio un preventivo controllo di qualsiasi atto del presidente o dell’amministratore delegato di una società, senza distinzione di contenuti e/o di rilevanza, difatti, per la Cassazione, sarebbe difficilmente conciliabile con il potere di rappresentanza, d’indirizzo e di gestione dell’ente, che la legge civile riconosce a quegli organi.

Diversamente, invero, per i giudici di piazza Cavour, l’organismo di vigilanza finirebbe per trasformarsi in una specie di supervisore dell’attività degli organi direttivi e d’indirizzo della società, inserendosi, di fatto, nella gestione di quest’ultima ma, in tal modo, esorbitando dal compito affidatogli dall’art. 6, lett. b), d.lgs. 231, cit., che è solamente quello di individuare e segnalare le criticità del modello e della sua attuazione, senza alcuna responsabilità di gestione.

Peraltro, un potere così pervasivo risulterebbe attribuito a tale organo con esclusivo riferimento al profilo della responsabilità da reato, dando così luogo ad un groviglio di competenze e ad un’evidente disarmonia di sistema dal momento che, in ordine agli effetti civili di quegli stessi atti, quell’organismo non avrebbe poteri interdittivi o d’interlocuzione. Invero, l’organismo di vigilanza non può avere connotazioni di tipo gestorio, che ne minerebbero inevitabilmente la stessa autonomia: ad esso spettano, piuttosto, compiti di controllo sistemico continuativo sulle regole cautelari predisposte e sul rispetto di esse nell’ambito del modello organizzativo di cui l’ente si è dotato.

Certamente la previsione di un preventivo controllo non si presenta ragionevolmente esigibile con riferimento agli atti meramente comunicativi, adottati dai vertici societari nell’esercizio di uno specifico potere loro legittimamente conferito (oltre che del potere di manifestazione della volontà dell’ente all’esterno, loro riconosciuto in via generale), nei quali vanno annoverati quelli attraverso i quali, nello specifico, il presidente e l’amministratore delegato hanno realizzato il delitto presupposto di aggiotaggio, trattandosi, infatti, di atti che non incidevano negativamente sulla consistenza economica della società, che non la impegnavano verso terzi, che non costituivano atti di amministrazione straordinaria.

D’altronde, sempre ad avviso dei giudici di piazza Cavour, riesce finanche difficile ipotizzare, nello specifico, i contenuti e gli effetti di un ipotetico controllo preventivo in quanto sicuramente esso non potrebbe consistere in un sindacato sul merito della comunicazione diffusa al mercato, né potrebbe impedirne la divulgazione, realizzandosi, altrimenti, un esautoramento di fatto del presidente e dell’amministratore delegato ed il sostanziale svuotamento dei poteri che per legge ne qualificano le funzioni.

La precedente sentenza di annullamento della Cassazione, del resto, aveva chiesto di verificare se all’organo di controllo fosse almeno consentito di esprimere una sorta di «dissenting opinion» sul testo della comunicazione approvato dai vertici societari, prima della sua divulgazione, risultando, però, di difficile individuazione l’utilità e la concreta attuazione di un siffatto potere perchè l’eventuale opinione dissenziente non potrebbe investire il merito della comunicazione, perché l’amministrazione e le scelte operative della società non possono certo essere appannaggio dell’organismo di vigilanza e la verifica dell’operato degli amministratori spetta all’assemblea ed agli altri organi societari, entro limiti e procedure stabiliti dalla legge e dallo statuto.

In conclusione, il Supremo Consesso, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, giungeva alla conclusione secondo cui cui, al momento in cui il reato era stato realizzato, il modello adottato, con riferimento alla prevenzione dei cc.dd. “reati di comunicazione“, fosse idoneo, pur non prevedendo una forma di controllo preventivo del testo finale dei comunicati e delle informazioni divulgate da presidente ed amministratore delegato della società, essendo ineliminabile un margine di autonomia di questi organi nell’esercizio di tale attività, poiché coessenziale al fascio di poteri e responsabilità loro riconosciuti dalla legge civile.

Precisato ciò, restava per la Corte di Cassazione da esaminare, a questo punto, un ultimo profilo: quello dell’eventuale elusione fraudolenta del modello ad opera del presidente e dell’amministratore delegato.

Orbene, si evidenziava a tal riguardo, una volta fatto presente che, perché l’ente possa sottrarsi alla responsabilità da reato per fatto dei soggetti in posizione apicale, l’art. 6, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 231, cit., richiede altresì che costoro abbiano commesso il reato «eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione», che, sotto questo profilo, in punto di princìpi, doveva convenirsi con quanto affermato dalla sentenza di annullamento della prima decisione d’appello.

Non vi era dubbio, cioè, come il concetto di “elusione” implichi necessariamente una condotta munita di connotazione decettiva, consistendo nel sottrarsi con malizia ad un obbligo ovvero nell’aggiramento di un vincolo, nello specifico rappresentato dalle prescrizioni del modello; rafforzato poi dal predicato di “fraudolenza”, contenuto nella norma, che, lungi dall’essere una mera ridondanza, vuole evidenziare l’insufficienza, a tal fine, della semplice e frontale violazione delle regole del modello, pretendendo una condotta ingannatoria fermo restando come sia però necessario che si tratti di una «condotta ingannevole, falsificatrice, obliqua, subdola», tale da frustrare con l’inganno il diligente rispetto delle regole da parte dell’ente.

L’esonero dell’ente dalla responsabilità da reato, infatti, può trovare una ragione giustificativa solamente in quanto la condotta dell’organo apicale rappresenti una dissociazione dello stesso dalla politica d’impresa; in tale evenienza, dunque, il reato costituisce il prodotto di una scelta personale ed autonoma della persona fisica, realizzata non già per effetto di inefficienze organizzative, ma, piuttosto, nonostante un’organizzazione adeguata, poiché aggirabile, appunto, soltanto attraverso una condotta ingannevole.

Ovviamente, da quanto appena detto, per la Cassazione, deriva che tale efficacia decettiva debba dispiegarsi all’interno della struttura organizzativa dell’ente, verso, cioè, gli organi e l’apparato di controllo dello stesso, e non nei confronti dei terzi estranei: l’elusione fraudolenta va valutata, infatti, in riferimento non al precetto penale, bensì alle prescrizioni del modello organizzativo, dovendo rappresentare una modalità esecutiva della condotta del soggetto apicale, non anche un elemento costitutivo del reato da questi commesso.

Tanto premesso, ad avviso del Supremo Consesso, così come già ritenuto dal giudice di rinvio, la condotta tenuta nella specifica vicenda dal presidente e dall’amministratore delegato potessero ritenersi fraudolentemente elusiva delle prescrizioni del modello organizzativo adottato dalla società.

Quest’ultimo, per la predisposizione delle comunicazioni prices sensitive ai mercati, prevedeva invero una procedura a più fasi successive e con la partecipazione di distinte strutture aziendali, secondo le rispettive competenze tecniche, affidando ai vertici societari, coerentemente con il loro potere di rappresentanza dell’ente all’esterno, il compito di approvarne il testo definitivo e di divulgarle, con l’ulteriore cautela che tanto dovesse avvenire d’intesa tra tali due organi, nonché prescrivendo loro che l’informazione resa dovesse essere completa, tempestiva, adeguata e non selettiva: in breve, un dovere di verità.

L’avere, dunque, costoro approfittato dello spazio di autonomia tollerabilmente lasciato loro dal modello organizzativo in ragione del loro ruolo e, sì d’intesa tra loro ma in completo spregio dei dati elaborati e loro offerti dalle competenti strutture tecniche della società, l’aver alterato questi ultimi e

divulgato ai mercati informazioni inveritiere non rappresenta – ad avviso degli Ermellini – una mera violazione delle prescrizioni del modello posto che una siffatta condotta risultava essere munita di efficacia decettiva nei confronti degli altri organi dell’ente, non soltanto perché tenuta senza il rispetto del procedimento di comunicazione previsto dal modello, ma altresì in quanto frutto di un accordo estemporaneo e tale, perciò, da rendere impossibile ogni interlocuzione da parte di qualsiasi altro organo sociale (non soltanto, cioè, dell’organismo di vigilanza, ma anche, ad esempio, del consiglio di amministrazione), trattandosi, cioè, proprio di una condotta del tipo più sopra descritto: falsificatrice, rispetto ai dati dell’istruttoria compiuta dagli uffici competenti; nonché ingannevole e subdola, perché prodotta da un’intesa occulta e repentina tra i suoi autori, in violazione del patto di fiducia che lega i rappresentanti dell’ente agli organi societari che avevano conferito loro tale ruolo.

Per le ragioni sin qui esposte, il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Milano non poteva ritenersi fondato e, di conseguenza, era respinto.

6. Conclusioni 

La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito, in materia di responsabilità degli enti, cosa deve intendersi per “modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”.

Difatti, fermo restando che l’art. 6, co. 1, lettera a), d.lgs. n. 231/2001, dispone che, se il reato è stato commesso dalle persone indicate nell’articolo 5, comma 1, lettera a), d.lgs. n. 231/2001 (vale a dire: “persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unita’ organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso”), “l’ente non risponde se prova che: (…) l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”, in tale pronuncia, si chiarisce quando un modello di questo genere si appalesi idoneo per tale scopo.

In effetti, in tale sentenza, nel valutare quando ricorra siffatta idoneità, si esclude anzitutto che la commissione del reato non equivale a dimostrare che il modello non sia idoneo in quanto il rischio reato viene ritenuto accettabile quando il sistema di prevenzione non possa essere aggirato se non fraudolentemente, a conferma del fatto che il legislatore ha voluto evitare di punire l’ente secondo un criterio di responsabilità oggettiva.

Oltre a ciò, si evidenzia altresì, una volta fatto presente che l’ente risponde in quanto non si è dato un’organizzazione adeguata, omettendo di osservare le regole cautelari che devono caratterizzarla, secondo le linee dettate dall’art. 6 del d.lgs. n. 231/2001, che il giudice, nel suo giudizio valutativo sul modello, deve prendere in considerazione anche l’imputazione del risultato colposo visto che, perché possa affermarsi una responsabilità colposa, si ritiene insufficiente la realizzazione del risultato offensivo tipico in conseguenza della condotta inosservante di una data regola cautelare, occorrendo per contro che il risultato offensivo corrisponda proprio a quel pericolo che la regola cautelare violata era diretta a fronteggiare.

Orbene, essendo necessaria, quindi, una corrispondenza causale tra la violazione della regola cautelare e la produzione del risultato offensivo, viene in considerazione, ai fini del giudizio de quo, anche il c.d. “comportamento alternativo lecito” ovvero il caso in cui l’osservanza della regola cautelare, al posto del comportamento inosservante, non avrebbe comunque consentito di eliminare o ridurre il pericolo derivante da una data attività.

Dunque, se l’evento realizzato a causa dell’inosservanza della regola cautelare risulta non evitabile, non vi è spazio per l’affermazione di colpa, da ciò discende che, nel caso in cui non sia possibile escludere con certezza il ruolo causale dei fattori di rischio considerati dalla norma cautelare, la responsabilità colposa non potrà essere affermata.

Ciò posto, sempre per quanto concerne il giudizio di idoneità di siffatti modelli, nei termini richiesti dall’art. 6 del d.lgs. n. 231/2001, in tale provvedimento, è altresì precisato che il giudice, nella sua valutazione su tale idoneità, deve collocarsi idealmente nel momento in cui il reato è stato commesso e verificarne la prevedibilità ed evitabilità qualora fosse stato adottato il modello “virtuoso“, secondo il meccanismo epistemico-valutativo della c.d. “prognosi postuma“, già sperimentato in altri ambiti del diritto penale, fermo restando che tale valutazione dovrà necessariamente spingersi a verificare anche l’attuazione del modello in termini di efficacia (artt. 6 e 7, d. Igs n. 231, cit.), basandosi su elementi di fatto concreti, raccolti in istruttoria (testimonianze, perizie, prove scientifiche).

Il giudice, dunque, è chiamato ad una valutazione del modello in concreto, non solo in astratto, ma tale controllo è sempre limitato alla verifica dell’idoneità del modello a prevenire reati della specie di quello verificatosi sicché dev’escludersi che il controllo giudiziario del compliance abbia una portata “totalizzante“, dovendo essere rivolto, invece, ad escludere la reiterazione degli illeciti già commessi; il modello organizzativo, cioè, non viene testato dal giudice nella sua globalità, bensì in relazione alle regole cautelari che risultano violate e che comportano il rischio di reiterazione di reati della stessa specie, essendo, all’interno di questo giudizio, che occorre accertare la sussistenza della relazione causale tra reato ovvero illecito amministrativo e violazione dei protocolli di gestione del rischio.

Inoltre, affinchè un modello di organizzazione dell’ente possa reputarsi “idoneo”, esso deve essere il più singolare possibile, perché, solamente se calibrato sulle specifiche caratteristiche dell’ente (dimensioni, tipo di attività, evoluzione diacronica), questo può ritenersi effettivamente idoneo allo scopo preventivo affidatogli dalla legge fermo restando che, in presenza di un modello organizzativo conforme a quei codici di comportamento, il giudice sarà tenuto specificamente a motivare le ragioni per le quali possa ciò nonostante ravvisarsi la “colpa di organizzazione” dell’ente, individuando la specifica disciplina di settore, anche di rango secondario che ritenga violata o, in mancanza, le prescrizioni della migliore scienza ed esperienza dello specifico ambito produttivo interessato, dalle quali i codici di comportamento ed il modello con essi congruente si siano discostati, in tal modo rendendo possibile la commissione del reato.

Infine, fermo restando che la lacuna od il punto di debolezza di un modello può condurre a ravvisare una responsabilità dell’ente soltanto se abbiano avuto un’efficienza causale nella commissione del reato presupposto da parte del soggetto apicale, nel senso che la condotta di questi sia stata resa possibile, anche in via concorrente, proprio dall’assenza o dall’insufficienza delle prescrizioni contenute nel modello, va comunque tenuta distinta la responsabilità dell’ente da quella dei suoi vertici, riconducendo alla prima solo quelle condotte causalmente ricollegabili ad una “colpa di organizzazione“, costituisca, ad un tempo, anche il metro dell’ingerenza consentita all’organismo di vigilanza sugli atti degli apicali, e quindi il contenuto necessario del modello, perché lo stesso possa reputarsi idoneo atteso che un modello organizzativo che rendesse obbligatorio un preventivo controllo di qualsiasi atto del presidente o dell’amministratore delegato di una società, senza distinzione di contenuti e/o di rilevanza, sarebbe difficilmente conciliabile con il potere di rappresentanza, d’indirizzo e di gestione dell’ente, che la legge civile riconosce a quegli organi.

Tale decisione, quindi, avendo ricostruito in maniera precisa e dettagliata come deve essere accertata siffatta idoneità, deve essere presa nella dovuta considerazione ogni volta il modello di organizzazione dell’ente sia messo in discussione proprio in relazione ad una tra le condizioni che, ove sussistenti, rendono esente da responsabilità l’ente per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unita’ organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché provano a fare chiarezza su tale tematica giuridica sotto il profilo giurisprudenziale, dunque, non può che essere positivo.

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