La responsabilità amministrativa degli enti

Redazione 25/11/19
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Sin dalla sua nascita, il decreto 231, dal punto di vista delle imprese, è stato accompagnato da un pregiudizio: concepire la responsabilità amministrativa degli enti come un complesso di regole e adempimenti burocratici che il più delle volte appaiono poco utili ed ingessanti per le aziende. Un sistema, che, contrariamente ai buoni propositi del legislatore, non avrebbe raggiunto in questi diciotto anni l’obiettivo di fungere da deterrente al diffondersi di eventi criminali con ricadute negative sul tessuto economico. Tale pregiudizio, in realtà, come del resto si vedrà nel prosieguo, discende da un’interpretazione distorta della logica sottostante il d.lgs. 231/2001, ossia che gli strumenti da esso previsti, pur svolgendo la funzione di prevenzione degli illeciti-presupposto insita nel decreto 231, hanno natura formale più che sostanziale. Il decreto, oltre ad introdurre nell’ordinamento italiano la responsabilità degli enti per la commissione dei reati specificamente indicati dal legislatore, permette di colpire direttamente l’ente e, quindi, l’interesse economico dei soci che hanno tratto un vantaggio dalla commissione di determinati reati. La responsabilità de qua, impropriamente chiamata “amministrativa”, prende le mosse dalla mancata implementazione dei modelli di organizzazione, al fine di prevenire efficacemente la commissione di determinati reati previsti dal decreto.

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La natura della responsabilità

Trattasi di responsabilità diretta, autonoma ed eventualmente “concorrente con quella dell’autore (o degli autori) dell’Anknüpfungstat (fatto di connessione)”, nonché personale e intrasmissibile, in virtù di quanto disposto dall’art. 27 d.lgs. 231 (l’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria spetta soltanto all’ente con il suo patrimonio o con il fondo comune). Appare condivisibile come la norma, evidentemente, sia stata introdotta al fine di evitare che di tale obbligazione “possano essere chiamati a rispondere anche i singoli soci o associati, secondo la disciplina valevole in rapporto alle altre obbligazioni dell’ente (si pensi, tipicamente, ai soci illimitatamente responsabili di società personali”.

La responsabilità è diretta (13), quando non è subordinata ad alcuna condizione sospensiva, e non è sussidiaria e alternativa rispetto a quella della persona fisica (14). Essa è anche autonoma, in quanto non presuppone l’accertamento della responsabilità (e dunque la condanna) della persona fisica che ha commesso il reato presupposto , secondo quanto affermato dall’art. 8 d.lgs. 231: “la responsabilità dell’ente sussiste anche quando: a) l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; b) il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia”. Si mostra evidente, come nella relazione ministeriale al d.lgs., appare difficile pensare che un soggetto commetta un “reato” non imputabile all’interesse o a vantaggio della societas. Tale eventualità, in realtà, “ha un sapore più teorico che pratico”, ed “ai confini del surreale”. Nella relazione si legge: un “fenomeno tipico nell’ambito della criminalità d’impresa: anzi, esso rientra proprio nel novero delle ipotesi in relazione alle quali più forte si avvertiva l’esigenza di sancire la responsabilità degli enti”. L’introduzione della disposizione nasce dalla constatazione di come la complessità e la non trasparenza delle strutture organizzative delle imprese di grandi (o medio-grandi) dimensioni possano rendere difficoltoso, se non impossibile, l’accertamento delle responsabilità individuali di tutti gli elementi che costituiscono il reato (fenomeno della c.d. irresponsabilità organizzata).

Il dettato normativo diviene di grande rilevanza, e in alcuni casi essenziale, poiché garantisce un sistema accettabile ed effettivo, che eviti una responsabilità di riflesso, dando piuttosto pienezza all’attuazione del medesimo. In merito ai criteri oggettivi di attribuzione della responsabilità, l’art. 5 del decreto stabilisce che l’ente è responsabile “per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio” , introducendo tre requisiti fondamentali; il primo riguarda i reati commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente, anche solo parzialmente, nonché riconoscibilmente ed obiettivamente connessi alla condotta dell’autore; il secondo decreta che la responsabilità dell’ente viene meno qualora gli autori del reato abbiano agito “nell’interesse esclusivo proprio o di terzi”; l’ultimo stabilisce che gli autori devono essere persone fisiche qualificate dalla posizione apicale che ricoprono all’interno dell’organizzazione, ossia “persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso”, ovvero “persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza” (e quindi in posizione subordinata) dei primi. In riferimento al primo requisito, appare illuminante la decisione della Corte di Cassazione che, attraverso la sentenza 295 del 9 gennaio 2018, riguardante la responsabilità amministrativa di una società, ha stabilito che la medesima risponde oggettivamente per tutte le condotte che trovano una spiegazione ed una causa nella vita societaria, rimanendo esente da responsabilità solo per fatti illeciti posti in essere nell’interesse esclusivo dell’agente, per un fine personalissimo proprio o di terzi.

La fattispecie esaminata dalla Corte ha esaminato come l’amministratore unico e legale di una S.p.a., sia riuscito ad ottenere finanziamenti dalla Comunità europea, per un ammontare di circa un milione di euro, raggirando un istituto di credito in merito all’esecuzione di opere finanziate. Inizialmente, la Corte di Appello ha riconosciuto positivamente la responsabilità penale all’ente presso cui lavorava l’amministratore, condannando sia l’amministratore che la società. L’avvocato difensore ha messo in dubbio il coinvolgimento dell’ente, accusando la Corte di aver prestato maggior attenzione all’attività illecita perseguita unicamente dal soggetto coinvolto, non fornendo sufficienti prove circa l’interesse e i benefici ottenuti dall’ente. In seguito alla condanna dell’amministratore, la difesa ha quindi presentato ricorso.

Vedasi:”Criteri oggettivi di imputazione della responsabilità all’ente”

L’autore del reato negli enti

La Corte Suprema, ponendo l’accento sugli artt. 5 e 6 del decreto, ha verificato se realmente l’ingente somma di denaro fosse stata utilizzata per un esclusivo interesse, patrimoniale o meno, dell’autore del reato. Dalle indagini, è emerso l’esatto contrario. Infatti, l’amministratore unico e legale, usufruendo della liquidità ottenuta attraverso i finanziamenti pubblici, era riuscito a stabilizzare la posizione di mercato della società. I benefici ricavati dall’ente sono stati innumerevoli, tra cui: la possibilità di pianificare e realizzare investimenti cercando così di distruggere la concorrenza in maniera illecita. Ne consegue che questo reato non consente di attribuire la colpa unicamente al singolo individuo.

Infatti, è possibile considerare l’ente innocente qualora questo risulti libero dai risultati positivi o negativi ottenuti attraverso lo svolgimento del reato stesso. Nel momento in cui la condotta del singolo individuo ha rappresentato la politica di impresa della collettività, quest’ultima è divenuta condannabile. Da un’attenta lettura dell’art. 5, emergono altri due aspetti critici di particolare interesse, quali il tema della definizione dell’interesse e vantaggio nei reati di natura colposa ed il cd. interesse di gruppo. Quanto alla prima criticità, la questione appare riguardare la recente (2011 con modifiche nel 2015) introduzione legislativa, nel catalogo dei cd. reati presupposto di reati colposi, degli eco-reati: il riferimento è all’art. 25-septies in materia di salute e sicurezza sul lavoro ed all’art. 25-undecies per quanto attiene ai reati ambientali.

Posta la necessità di un nuovo intervento del legislatore, parte della dottrina ha evidenziato un’incompatibilità di fondo tra il verificarsi di tali reati colposi e la nozione stessa di interesse e vantaggio dell’ente, in quanto comporterebbero una lesione del divieto di analogia in malam partem. La giurisprudenza, d’altra parte, ha tentato di affermare la sussistenza del nesso causale tra condotta e vantaggio ottenuto dalla persona giuridica, spesso riconosciuto nel cd. risparmio di spesa (o dei costi di gestione), riconducendo oggettivamente l’evento del reato all’omessa adozione delle misure di prevenzione richieste dalla normativa. Riguardo al secondo aspetto, l’applicabilità del decreto sconta il silenzio del legislatore sulla non trattata questione della configurabilità dell’“interesse di gruppo” . A tal riguardo spesso si è fatto ricorso al cd. interesse misto (sulla persona giuridica considerata nel suo complesso di società controllate e controllanti che partecipano agli utili, nonché su quella fisica), legato all’interesse dell’ente ed a quello eventualmente esclusivo delle persone fisiche. Tuttavia, qualora venisse riscontrato un interesse di gruppo in presenza di aggregazioni societarie (circostanza che non consentirebbe il ricorso alla clausola di esonero prevista dall’art. 5, comma 2 del decreto), apparirebbe più consono valutare l’attribuzione della responsabilità in capo ad ognuna delle singole imprese, evitando di considerare la singola unità alla stregua di un singolo, che ponga in essere condotte illecite, riconducibili unicamente al medesimo.

L’art. 8

Con sentenza 9072 del 2018- da ultimo richiamata con sent. n. 11518 del 2019- la III sezione della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su una questione relativa alla responsabilità delle persone giuridiche ex 231/2001. Nello specifico si è affrontato il problema circa la compatibilità e incidenza dell’art 131 bis c.p., istituto di diritto sostanziale penale. La pronuncia va ad integrare quella giurisprudenza che, in particolar modo nel 2018, chiamata a esprimersi su specifici temi, ha provveduto a delineare le caratteristiche di quest’ultima, la sue corretta qualificazione giuridica ei conseguenti limiti di applicabilità delle norme penali, sostanziali e processuali, con la normativa dettata dalla legge del 2001.

La Corte limita la sua ermeneusi all’art 8 d.lgs 231/2001, fondandola su ragioni di ordine logico-sistematico e al fine di assicurare la coerenza dell’ordinamento. Per vero, non può sottacersi come la stessa, estendendo la responsabilità anche quando l’autore del reato presupposto non è punibile per ragioni diverse dalla mancanza di imputabilità, rischi di sovvertire uno dei principi cardine dell’interpretazione, Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, a ciò si aggiunga il pericolo di determinare un’applicazione analogica in malam parte. Sebbene il principio di tassatività e di divieto di analogia, operi solo in riferimento alla responsabilità penale, è pur vero che la questione attorno la natura della responsabilità giudica dell’ente non è del tutto sopita -sulla stessa la Corte non si sofferma, limitandosi a sancire la perfetta autonomia dell’illecito con il reato-. Nondimeno alla luce soprattutto delle sentenze CEDU, ma anche della Consulta che, di recente, ha sancito la retroattività mitior anche per gli illeciti amministrativi, appare opportuno tornare a riflettere sulle caratteristiche sostanziali della responsabilità ex 231/2001, a prescindere dal suo grado di autonomia rispetto al reato presupposto. Attesa natura afflittiva delle sanzioni e la ratio della novella – prevenire, punire e stigmatizzare l’ente non virtuoso- bisognerebbe ripensare a un intervento normativo volto a colmare le lacune che la prassi giurisprudenziale ha evidenziato, onde evitare soluzioni esegetiche opinabili, ancorchè elaborate con l’apprezzabile obiettivo di assicurare la coerenza del sistema, ma soprattutto al fine di rendere compatibile con i principi costituzionale.

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