L’istituto dell’ammissione alla prova di cui all’art. 168-bis cod. pen., non trova applicazione con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti di cui al d.lgs. n. 231 del 2001.
(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 168-bis; D.lgs., 8/06/2001, n. 231)
Indice
1. Il fatto
Il Tribunale di Trento aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti di una società per azioni ai sensi dell’art. 464- septies cod. proc. pen, per essere estinto l’illecito di cui all’art. 25-septies, comma 3, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ascritto alla società in relazione al delitto di lesioni colpose gravi contestato al legale rappresentante, per esito positivo della prova, ai sensi dell’art. 168-ter cod. pen..
Ciò posto, avverso la suddetta sentenza, era stato proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Trento ricorso per Cassazione affidato a quattro motivi, con i quali si chiedeva l’annullamento della sentenza impugnata e delle prodromiche ordinanze di messa alla prova. In particolare, il ricorrente aveva dedotto, con il primo e secondo motivo di ricorso, il vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., per violazione e falsa interpretazione dell’art. 168-bis cod. pen. e degli artt. 62 e ss. d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, rinvenibile nella sentenza impugnata e nelle ordinanze di messa alla prova, non essendo applicabile agli enti l’istituto della messa alla prova, mentre, con il terzo e quarto motivo di ricorso, il vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., traducendosi la motivazione delle ordinanze di messa alla prova, adottate nel caso di specie, in una motivazione (stimata) meramente apparente.
2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione
La sezione semplice assegnataria del ricorso, vale a dire la Quarta Sezione, disponeva la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, rilevando un contrasto nella giurisprudenza di legittimità circa la legittimazione del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello ad impugnare i provvedimenti riguardanti la messa alla prova e/o la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell’art. 464-septies cod. proc. pen. e dipendendo l’esame nel merito del ricorso, circa la legittimità delta messa alla prova della società summenzionata dalla decisione della questione oggetto di contrasto.
3. La soluzione adottata dalle Sezioni unite
Le Sezioni unite, prima di entrare nel merito delle questioni, procedevano a delimitarle nei seguenti termini: “«Se il procuratore generale sia legittimato ad impugnare, con ricorso per cassazione, l’ordinanza che ammette l’imputato alla prova (art. 464-bis cod. proc. pen.) e in caso affermativo per quali motivi. «Se il procuratore generale sia legittimato ad impugnare, con ricorso per cassazione, la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell’art. 464septies cod. proc. pen.»”.
In particolare, per quanto concerne la prima questione, le Sezioni unite osservavano come la giurisprudenza di legittimità avesse espresso due diversi orientamenti.
Difatti, secondo il primo indirizzo interpretativo, il procuratore generale presso la Corte di Appello è legittimato ad impugnare l’ordinanza di accoglimento dell’istanza di sospensione del procedimento con la messa alla prova e, nel caso in cui non sia stata effettuata nei suoi confronti la comunicazione dell’avviso di deposito dell’ordinanza di sospensione, ad impugnare la stessa unitamente alla sentenza con la quale il giudice dichiara l’estinzione del reato per esito positivo della prova (Sez. 1, n. 43293 del 27/10/2021; Sez. 2, n. 7477 del 08/01/2021; sez. 5, n. 7231 del 06/11/2020; sez. 1, n. 41629 del 15/04/2019), osservandosi al contempo che, a sostegno di tale opzione interpretativa, da un lato, si sostiene che l’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen„ non distinguendo e non selezionando per il profilo soggettivo uno specifico ufficio del pubblico ministero, quando indica il “pubblico ministero” quale titolare del potere di impugnazione, non può che indicare anche la legittimazione del “procuratore generale della Repubblica presso la corte di appello“, traducendosi il suddetto riferimento in una formula onnicomprensiva, adottata dal codice di rito ogni qual volta intende assegnare all’uno e all’altro organo un potere di impugnazione concorrente, dall’altro, che tale interpretazione si fonda sul principio espresso dalle Sez. U. n. 22531, del 31/05/2005, secondo cui l’art. 570 cod. proc. pen. detta una regola di carattere generale circa il potere del procuratore generale delta Repubblica presso la Corte di Appello di proporre impugnazione contro i provvedimenti emessi, nell’ambito dell’ordinario processo di cognizione, dai giudici del distretto, anche quando il pubblico ministero del circondario abbia già compiuto in merito la sua valutazione positiva o negativa, deducendosi contestualmente che tale regola è da ritenersi ancora valida, pur dopo gli interventi del d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, con l’introduzione dell’art. 593-bis cod. proc. pen. e la modifica dell’art. 570, comma 1, cod. proc. pen., disciplinando tali norme i rapporti tra procuratore generale e procuratore della Repubblica, ma solo con riferimento all’appello, lasciando, invece, inalterata la regola generale suddetta per gli altri mezzi di impugnazione e, quindi, anche per il ricorso per Cassazione, che viene specificamente in rilievo, nel caso dell’impugnazione dell’ordinanza di ammissione alla prova.
Invece, il secondo orientamento è sostenuto dalla sentenza Sez. 6, n. 18317 del 09/04/2021, che esclude la legittimazione del procuratore generale presso la Corte di Appello ad impugnare l’ordinanza di accoglimento dell’istanza di sospensione del procedimento, anche unitamente alla sentenza con la quale il giudice dichiara l’estinzione del reato per esito positivo della prova, non essendo espressamente individuato tra i soggetti (imputato, pubblico ministero e persona offesa) che possono proporre ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen.. Secondo tale indirizzo, invero, la natura autonoma del procedimento incidentale di ammissione alla prova, nonché il sistema di impugnazione del provvedimento di ammissione e/o della sentenza ex art. 464-septies cod. proc. pen. portano ad escludere il fondamento del potere di impugnazione del procuratore generale, deponendo in tal senso i principi affermati dalle sentenze delle Sez. U, n. 33216 del 31/03/2016, e n. 36272 del 31/03/2016, che consentono di ricostruire la fase dell’ammissione alla prova come un vero e proprio procedimento incidentale, ispirato alla finalità di ridurre sensibilmente le ipotesi di regressione del procedimento, se non addirittura di eliminarle del tutto e di garantire il massimo favore all’istituto della sospensione con messa alla prova.
Sempre secondo questo orientamento nomofilattico, l’impugnazione diretta, poi, dell’ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato in deroga al regime dell’impugnazione delle ordinanze emesse in dibattimento, disciplinato in via ordinaria dall’art. 586 cod. proc. pen. nonché i caratteri sostanziali dell’istituto della messa alla prova, al quale il legislatore guarda con favore, non solo per l’effetto deflattivo, ma anche per la sua finalità di sottrarre al sistema giurisdizionale quelle persone che non abbisognano del trattamento penale tradizionale, tracciano le linee del sistema entro il quale valutare la sussistenza o meno del potere di impugnazione del procuratore generale, fermo restando che a quest’ultimo l’ordinamento processuale non concede un ampio e indeterminato potere che gli consente di proporre impugnazione ln ogni e qualsiasi ipotesi, poiché anche nei suoi riguardi deve trovare applicazione la norma cardine dell’intero sistema, costituita dall’art. 568 cod. proc. pen., che sancisce il principio fondamentale di tassatività delle impugnazioni, nel quadro di quello tradizionale della competenza del pubblico ministero “derivata” da quello del giudice presso il quale è costituito.
Il procuratore generale, nella materia in esame, non è quindi istituito presso il giudice che ha emanato il provvedimento impugnato (e dal quale deriva la competenza in materia di impugnazione), né presso il giudice di merito avente giurisdizione di merito a livello superiore, dal momento che l’ordinanza di sospensione del procedimento per messa alla prova è impugnabile solo con il ricorso per cassazione. Il riferimento al “pubblico ministero” contenuto nell’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen., pertanto, non possiede valore dirimente stante la oggettiva ambiguità del dato letterale della norma, suscettibile di dare luogo ad applicazioni differenti, che deve indurre l’interprete, piuttosto che a letture astrattamente plausibili in base ad una interpretazione letterale, ad una interpretazione ragionevole rispetto al sistema procedimentale, funzionale alla finalità di ridurre sensibilmente le ipotesi di regressione del procedimento.
Orbene, una volta illustrati siffatti approdi ermeneutici, la Suprema Corte, nel suo massimo consesso, – dopo avere compiuto un preliminare richiamo ai principi affermati dalla sentenza delle Sez. U, n. 33216 del 31/03/2016, che si è già pronunciata sulla “scarna“, ma “non meno problematica” disciplina dei controlli e delle impugnazioni delle ordinanze pronunciate sulla richiesta di messa alla prova, racchiusa nell’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen. ed esaminato il tema della legittimazione del procuratore generale presso la corte di appello ad impugnare tale ordinanza, affermava che, nel sistema di riferimento per le impugnazioni del “pubblico ministero“, il procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello deve ritenersi legittimato a proporre impugnazione — e segnatamente ricorso per Cassazione — avverso l’ordinanza di ammissione alla prova, ai sensi dell’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen. atteso che non inducono ad una lettura diversa circa la piena legittimazione soggettiva del Procuratore generale all’impugnazione dei provvedimenti emessi dai giudici del distretto, l’introduzione ad opera dell’art. 3 d.lgs. 6 febbraio 2018 n. 11, dell’art. 593-bis cod. proc. pen., in tema di “appello del pubblico ministero“, che prevede la possibilità per il procuratore generale di appellare la sentenza di primo grado solo nei casi di avocazione o qualora vi sia stata acquiescenza del procuratore della Repubblica, nonchè il conseguente inserimento nel primo comma dell’art. 570 della clausola di salvezza, secondo cui «salvo quanto previsto dall’art. 593 bis, comma 2, il Procuratore generale può proporre impugnazione.
Il disposto normativo in questione, volto a coordinare le facoltà di appello da parte degli uffici di procura, al fine di evitare la proposizione di più impugnazioni avverso il medesimo provvedimento, in effetti, conferma pienamente la portata generale della legittimazione concorrente del procuratore generale, ponendosi, non solo in senso letterale come una eccezione alla regola generale con l’inciso « salvo quanto previsto», ma anche per il contenuto della previsione derogatoria alla regola, circoscritto all’appello.
Gli argomenti contrari alla facoltà del procuratore generale di impugnare l’ordinanza di ammissione alla prova, enunciati nella sentenza Sez. 6, n. 18317 del 09/04/2021, invece, per il Supremo Consesso, non colgono nel segno.
Innanzitutto, quanto alla impostazione preliminare sottesa all’orientamento in questione – secondo cui l’art. 570 cod. proc. pen., nella precisazione del primo comma «nei casi consentiti dalla legge» dovrebbe essere interpretata come una limitazione di tipo “soggettivo“, riferita solo ad uno dei soggetti cui la prima parte della disposizione in questione riconosce la legittimazione ad impugnare, ossia al procuratore generale presso la Corte di Appello – essa non trova agganci testuali di sorta, volti a diversificare le posizioni soggettive della parte pubblica, limitando la legittimazione del procuratore generale, a fronte di una indubbia valenza oggettiva dell’inciso suddetto, dal momento che l’inversione di prospettiva — secondo cui la facoltà di impugnare del procuratore generale costituirebbe un’eccezione, sicché di volta in volta in volta occorrerebbe verificare se il legislatore abbia inteso conferire al procuratore generale la legittimazione ad impugnare – opera una manipolazione “sintattica” di un dettato normativo chiaro nell’attribuire, con la prima parte del primo comma dell’art. 570 cod. proc. pen., il potere concorrente al procuratore della Repubblica presso il tribunale al procuratore generale presso la corte di appello di proporre impugnazione, intendendo in definitiva sotto la rubrica “Impugnazione del pubblico ministero” declinare la regola che i rappresentanti dell’ufficio della parte pubblica possono esercitare il potere di impugnazione in tutti i casi in cui le norme sull’impugnazione facciano generico richiamo al pubblico ministero.
Del resto, il principio di tassatività delle impugnazioni implica, come correttamente evidenziato dalla sentenza Sez. 1, n. 43293 del 27/10/2021, non solo che un soggetto processuale non possa impugnare se ciò non è previsto, ma anche che non possa essere escluso dall’area dei legittimati se la legge in tal senso non ha espressamente disposto, perché in entrambi i casi risulterebbe violato il principio di legalità processuale di cui è corollario quello di tassatività, anche per il profilo soggettivo.
Di conseguenza, pur non potendo escludersi la possibilità che il procuratore generale presso la Corte di Appello sia limitato nel potere di impugnazione, tale esclusione, di regola, avviene sulla base di un preciso addentellato normativo, o comunque, con riguardo a procedimenti incidentali, che, per le loro spiccate peculiarità, impongono deroghe alle regole generali con riflessi anche sul regime delle impugnazioni, rilevandosi al contempo che a tal ultimo proposito gli ulteriori argomenti posti a fondamento dell’orientamento negativo, che fanno leva sulla natura autonoma del procedimento incidentale, nel quale si verificano presupposti, ammissibilità ed esecuzione della messa alla prova e sul “regime disgiunto” di impugnazione dell’ordinanza e della sentenza, in deroga al principio generale dell’art. 586, comma 1, ultima parte cod. proc. pen., per la Corte di legittimità, del pari non appaiono decisivi al fine di escludere la legittimazione del procuratore generale ad impugnare l’ordinanza di ammissione alla prova poiché, per quanto concerne la natura “autonoma” del procedimento di messa alla prova in cui si svolge un vero e proprio esperimento trattamentale, autonomo rispetto all’ordinario processo di cognizione, sia con riferimento ai requisiti di ammissibilità, che alla fase di esperimento del trattamento, durante il quale si dà corso ad una fase procedimentale alternativa rispetto a quella principale sulla base di una prognosi di astensione dell’imputato dalla commissione di futuri reati, occorre osservare che tale procedimento è, comunque, pur sempre collegato a quello principale, ora per la declaratoria di estinzione del reato in caso di esito positivo della prova, ora per la ripresa dell’accertamento penale se la prova ha avuto esito negativo.
Pertanto, il procedimento, per le sue caratteristiche, non può inquadrarsi in un procedimento incidentale, che in sé, per le sue caratteristiche, impone deroghe al regime delle impugnazioni.
Del resto, se anche la finalità a cui risulta improntata la disciplina impugnatoria delle ordinanze di ammissione alla prova ex art. 464-quater cod. proc. pen consente di ridurre sensibilmente le ipotesi di regressione del procedimento, se non addirittura di eliminarle del tutto e di garantire il massimo favore all’istituto della messa alla prova, ciò non può, sempre ad avviso degli Ermellini, costituire il fondamento per escludere dal punto di vista soggettivo il procuratore generale dai legittimati all’impugnazione, non solo perché il comma 7 non consente letteralmente tale interpretazione selettiva, ma anche perchè l’esigenza di immediata definizione delle questioni riguardanti i requisiti di ammissibilità della messa alla prova risulta garantita dall’apposito rimedio previsto dei ricorso diretto e autonomo per cassazione del pubblico ministero, in deroga all’art. 586 cod. proc. pen..
In definitiva, per i giudici di piazza Cavour, il procuratore generale è legittimato ad impugnare ai sensi art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen., l’ordinanza di ammissione alla prova.
La norma in questione, in effetti, prevede per i soggetti legittimati il rimedio ad hoc del ricorso per Cassazione, senza precisazioni quanto ai vizi deducibili, sicché la facoltà di impugnazione da parte del procuratore generale presso la Corte di Appello (al pari del procuratore della Repubblica presso il tribunale), dell’ordinanza ammissiva alla prova, potrà avvenire per i motivi consentiti dall’art. 606 cod. proc. pen., relativi a violazioni di legge e a vizi di motivazione, trattandosi di un rimedio che non soffre limitazioni quanto ai motivi deducibili.
La possibilità di impugnazione diretta dell’ordinanza di ammissione alla prova, a sua volta, implica che essa debba essere portata a conoscenza, mediante lettura in udienza o mediante notifica o comunicazione dell’avviso di deposito, non solo alle parti del procedimento che hanno diritto all’avviso della data dell’udienza, ai sensi dell’art. 127 cod. proc. pen., ma anche, come espressamente indicato nell’art. 128 cod. proc. pen., «a tutti coloro cui la legge attribuisce il diritto di impugnazione» (Sez. 1, n. 41629 del 15/04/2019).
Pertanto, tra i soggetti in favore dei quali deve essere eseguita la comunicazione dell’avviso di deposito, vi è senz’altro il procuratore generate presso la Corte di Appello, titolare, al pari del procuratore della Repubblica presso il Tribunale, del diritto di ricorrere per cassazione, ai sensi dell’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen..
Ciò posto, la Corte di Cassazione evidenziava, a questo punto della disamina, come dovesse essere data risposta positiva al secondo quesito rimesso alla decisione delle Sezioni Unite, riguardante la possibilità per il procuratore generale di impugnare la sentenza di estinzione del reato, pronunciata ai sensi dell’art. 464septies cod. proc. pen. e, nel caso di mancata comunicazione dell’ordinanza di ammissione alla prova, di impugnare tale ordinanza, in uno alla sentenza di estinzione del reato.
Secondo le Sezioni unite, infatti, l’omessa comunicazione dell’ordinanza di ammissione alla prova non esclude il potere del procuratore generale di impugnazione di essa unitamente alla sentenza che dichiara estinto il reato ex art. 464-septies cod. proc. pen., secondo la regola generale fissata dall’art. 586 cod. proc. pen., atteso che, sebbene sia previsto un apposito rimedio impugnatorio dall’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen., nondimeno l’impossibilità di accedere ad esso da parte del legittimato all’impugnazione, stante l’esaurimento della fase di esperimento del rimedio, nonché della messa alla prova, comporta la riespansione del potere di impugnazione, secondo le regole generali dettate per le ordinanze in uno ai rimedi avverso di esse esperibili.
In proposito, una volta fatto presente che la sentenza di estinzione del reato per esito positivo della prova, pronunciata in pubblica udienza successivamente alla costituzione delle parti, ha natura di sentenza di proscioglimento ed è perciò impugnabile con l’appello del “pubblico ministero“, ai sensi dell’art. 593, comma 2, cod. proc. pen., richiamandosi all’uopo il principio affermato con l’ordinanza delle Sez. U, n. 3512 del 28/10/2021, secondo cui la sentenza di proscioglimento, pronunciata nella udienza pubblica dopo la costituzione delle parti, non è riconducibile al modello di cui all’art. 469 cod. proc. pen., ma deve considerarsi sempre pronunciata in applicazione della regola di giudizio di cui all’art. 129 cod. proc. pen. e la relativa sentenza risulta appellabile nei limiti in cui la legge lo consente, si osservava che la parte che ha diritto di appellare la sentenza di primo grado – e specificamente il procuratore generale ai sensi dell’art. 608, comma 4, cod. proc. pen, — può proporre direttamente ricorso per cassazione per violazione di legge, ai sensi del combinato disposto dei commi 1 e 3 del}’art. 569 cod. proc. pen., si notava che, da un lato, la mancanza di motivazione, cui va equiparata la mera apparenza della medesima, rientra nella nozione di violazione di legge, a sostegno del ricorso per saltum, previsto dall’art. 569 cod. proc. pen., dall’altro, l’erronea attribuzione del “nomen juris” non pregiudica l’ammissibilità del mezzo di impugnazione di cui l’interessato, ad onta dell’inesatta “etichetta“, abbia effettivamente inteso avvalersi; all’uopo il giudice ha il potere dovere di provvedere all’appropriata qualificazione dell’impugnazione proposta e dei vizi prospettati, privilegiando rispetto alla formale apparenza la volontà della parte di attivare il rimedio all’uopo predisposto dall’ordinamento giuridico (Sez. U, n. 16 del 26/11/1997).
Di conseguenza, alla stregua di quanto sin qui esposto, era affermato il seguente principio di diritto: “Il procuratore generale è legittimato ad impugnare con ricorso per Cassazione, per i motivi di cui all’art. 606 cod. proc. pen., l’ordinanza di ammissione alla prova di cui all’art. 464-bis, cod. proc. pen., ritualmente comunicatagli, mentre, in caso di omessa comunicazione della stessa, è legittimato ad impugnare quest’ultima insieme alla sentenza di estinzione del reato.
Una volta enunciato siffatto principio di diritto, stante il fatto che l’ammissibilità del ricorso immediato per Cassazione del Procuratore generale presso la Corte di Appello di Trento comportava, per la Suprema Corte, la necessità della soluzione della questione sulla quale era incentrato il ricorso in esame, relativa alla possibilità per l’ente di essere ammesso alla prova, ai sensi dell’art. 168-bis cod. pen., nell’ambito del processo instaurato a suo carico per l’accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato ex d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Ebbene, una volta preso atto che le norme relative alla messa alla prova non contengono alcun riferimento agli “enti” quali possibili soggetti destinatari di esse e neppure le norme del d. lgs. 231 del 20011 sebbene, seppur introdotte antecedentemente a quelle disciplinanti l’istituto della messa alla prova per gli imputati maggiorenni, contengano agganci o richiami deponenti per l’immediata applicabilità dell’istituto di più recente introduzione agli enti, si osservava altresì che gli artt. 34 e 35 del d.lgs. 231 del 2001, nel dettare e disposizioni generali sul procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative dipendenti da reato, oltre a prevedere l’osservanza delle norme specificamente dettate dal decreto, contengono un richiamo esclusivamente alle disposizioni del codice di procedura penale e alle disposizioni processuali relative all’imputato, in quanto compatibili.
Premesso ciò, le Sezioni unite evidenziavano come l’applicazione “estensiva” ovvero “analogica” dell’istituto della messa alla prova agli enti in mancanza di norme di richiamo o di collegamento abbia fatto registrare nella giurisprudenza di merito decisioni contrastanti, contrapponendosi ad un gruppo di ordinanze negative all’ammissione dell’ente alla prova (cfr. ad es. Trib. Milano, 27/3/2017; Trib. Bologna, 10/12/2020; Trib. Spoleto, 21/4/2021), altre pronunce, invece, favorevoli (Trib. Modena, 19/10/2020; Trib. Bari, 22/6/2022), tra cui quella oggetto di impugnazione.
Ebbene, dopo avere analizzato in cosa consistono siffatti orientamenti ermeneutici, le Sezioni unite ritenevano di privilegiare l’interpretazione secondo cui l’istituto della messa alla prova, di cui all’art. 168-bis cod. pen. non può essere applicato agli enti in relazione alla responsabilità amministrativa dipendente da reato, di cui al d.lgs. n. 231 del 2001.
In particolare, dopo avere esaminato i punti di approdo della giurisprudenza di legittimità e costituzionale riguardanti le due discipline da porre a confronto – quella di cui al d.lgs. n. 231 del 2001 e quella della messa alla prova ex art. 168-bis cod. pen. – al fine di saggiarne la compatibilità et dunque, la possibilità di applicare il procedimento di messa alla prova all’ente, le Sezioni unite giungevano alla conclusione secondo cui siffatti punti di approdo individuati in sede giurisprudenziale, sia di legittimità ordinaria, che quella costituzionale, sulle caratteristiche dell’istituto di cui all’art. 168-bis cod. pen., consentivano di affermare la indubbia natura “sanzionatoria” della messa alla prova dei maggiorenni sulla base degli inequivoci indici rivelatori valorizzati nella sentenza n, 91 del 2018 dalla Corte costituzionale, tra cui: 1) l’obbligo a carico del soggetto che vi è sottoposto – ai sensi dell’art. 168-bis, comma 3, cod. pen. – di prestare lavoro di pubblica utilità, consistente in una «prestazione non retribuita […] di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività» e la cui «durata giornaliera non può superare le otto ore»; 2) la «prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno»; 3) gli obblighi che derivano dalle prescrizioni concordate all’atto dell’ammissione al beneficio, che possono comprendere «attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali», prescrizioni, queste ultime, incidenti in maniera significativa sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto, sia pure in maniera meno gravosa rispetto a quanto accadrebbe nel caso di applicazione di una pena detentiva; 4) il rapporto di proporzionalità delle prescrizioni cui il soggetto è vincolato rispetto alla gravità del fatto commesso, nonchè la durata della messa alla prova variabile a seconda della gravità del reato contestato all’imputato; la valutazione dell’idoneità del programma di trattamento «in base ai parametri di cui all’articolo 133 del codice penale» e cioè in base ai criteri che sovraintendono ordinariamente alla commisurazione delta pena; 5) la previsione di cui all’art. 657-bis cod. proc. pen., in caso di condanna conseguente al fallimento della messa alla prova, di scomputare dalla pena ancora da eseguire un periodo corrispondente a quello in cui il soggetto ha effettivamente eseguito le prescrizioni che gli erano state imposte «e ciò sulla base di un coefficiente stabilito dalla legge, che si fonda a sua volta su una valutazione di minore afflittività – ma pur sempre di afflittività delle prescrizioni medesime rispetto a quella che deriva dalla pena detentiva».
Se, dunque, la responsabilità amministrativa da reato riguardante gli enti rientra in un genus diverso da quello penale (tertium genus) e la messa alla prova deve ricondursi ad un “trattamento sanzionatorio” penale, sulla base degli indici elencati, per la Corte di legittimità, deve ritenersi che l’istituto della messa alla prova non può essere applicata agli enti, a ciò ostando, innanzitutto, il principio della riserva di legge di cui all’art. 25, secondo comma, della Costituzione.
L’introduzione attraverso provvedimenti giurisdizionali di un “trattamento sanzionatorio” – quello della messa alla prova ad una categoria di soggetti – gli enti non espressamente contemplati dalla legge quali destinatari di esso, in relazione a categorie di illeciti non espressamente previsti dalla legge penale, si pone infatti in contrasto con il principio di legalità della pena, del quale la riserva di legge costituisce corollario, che si traduce nel principio, secondo cui «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso», non potendo soccorrere, al fine di ritenere applicabile agli enti l’istituto della messa alla prova, né l’analogia in bonam partem, né tantomeno l’interpretazione estensiva, come invece sostenuto nelle pronunce di merito favorevoli all’applicazione agli enti della messa alla prova, visto che le regole per l’applicazione analogica sono dettate dagli artt. 12 e 14 disp. prel. cod. civ., che definiscono il ragionamento per similitudine, ma, nel contempo, ne restringono l’ambito applicativo, disponendo il divieto di analogia in materia penale («le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e I tempi in esse considerati»), rilevandosi al contempo che, a tal proposito, le Sezioni Unite hanno evidenziato che la sanzione da applicare ad una fattispecie che ne sia priva non può essere rinvenuta attraverso l’interpretazione analogica dal momento che in caso contrario l’interprete della legge si trasformerebbe in legislatore con una marcata incidenza negativa sia sul principio di certezza sia sulla stessa efficacia determinante delle disposizioni penali coinvolte in siffatta operazione interpretativa, diretta a correlare, con l’intervento del giudice, il comportamento del soggetto attivo del reato ad una pena non costituente oggetto di specifica comminatoria legislativa (Sez. U, n. 5655 del 26/05/1984).
Il divieto di analogia per le norme penali in applicazione del principio di tassatività, ulteriore corollario del principio di legalità, si traduce di conseguenza per il giudice nell’impossibilità di applicare fattispecie e sanzioni, oltre i casi espressamente e specificamente contemplati dalla legge, fermo restando che tale divieto, a maggior ragione, deve trovare applicazione nella fattispecie in esame, in cui viene in questione la traslazione o meglio l’innesto del “trattamento sanzionatorio penale” della messa alla prova in un sistema – quello della responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato che non solo non è assimilabile ad un sistema penale – ma riguarda appunto gli enti, ossia soggetti giammai indicati quali destinatari di precetti penali, dichiaratamente esclusi dal novero di essi dalla già citata Relazione ministeriale di accompagnamento al d.lgs. n. 231 del 2001.
Del resto, lo stesso d.lgs. n. 231 all’art. 2, richiama espressamente il principio di legalità, quale principio ineludibile affinchè l’ente possa essere sanzionato, evidenziando che «l’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto».
Dunque, per gli Ermellini, non è consentito ricorrere all’analogia in bonam partem – che, anche ove ritenuta consentita, in certi ambiti, in materia penale non potrebbe comunque riguardare il caso in esame, tenuto conto del fatto che non vengono in questione sistemi omogenei.
Come in precedenza evidenziato, invero, la responsabilità amministrativa degli enti per un fatto integrante reato costituisce un tertium genus, che mutua dal sistema penale solo le garanzie che lo assistono (al contrario della messa alla prova vivente nell’ambito del sistema penale), che non può comportare un trattamento sanzionatorio non previsto dalla legge. e che, seppur invocato dall’ente, comporterebbe la scrittura ex novo da parte del giudice del suo ambito di applicazione, di tempi, contenuti e modalità compatibili, all’evidenza in violazione del principio di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. demandando al giudice la “descrizione” e modulazione della sanzione e, ancor prima, la determinazione delle ipotesi a cui essa consegue.
Risulta evidente, poi, sempre ad avviso della Cassazione, che alcuno spazio può trovare nella fattispecie in esame neppure “l’interpretazione estensiva” delle norme, poiché tale operazione attiene alle ipotesi in cui il risultato interpretativo si mantiene, comunque, all’interno dei possibili significati della disposizione normativa, situazione questa, neppure astrattamente, confacente alla fattispecie in esame.
Il Supremo Consesso, pertanto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, giungeva ad affermare anche il seguente principio di diritto: “L’istituto dell’ammissione alla prova di cui all’art. 168-bis cod. pen., non trova applicazione con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti di cui al d.lgs. n. 231 del 2001”.
3. Conclusioni
La decisione in esame desta un certo interesse, essendo ivi chiarito che la messa alla prova non trova applicazione in materia di responsabilità amministrativa degli enti.
Difatti, in tale pronuncia, oltre ad essere enunciato il principio di diritto secondo il quale il procuratore generale è legittimato ad impugnare con ricorso per Cassazione, per i motivi di cui all’art. 606 cod. proc. pen., l’ordinanza di ammissione alla prova di cui all’art. 464-bis, cod. proc. pen., ritualmente comunicatagli, mentre, in caso di omessa comunicazione della stessa, è legittimato ad impugnare quest’ultima insieme alla sentenza di estinzione del reato, viene anche postulato il criterio ermeneutico in base al quale l’istituto dell’ammissione alla prova di cui all’art. 168-bis cod. pen., non trova applicazione con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti di cui al d.lgs. n. 231 del 2001.
Di conseguenza, in virtù di questo arresto giurisprudenziale, non è possibile potere usufruire di questa causa estintiva del reato in materia di responsabilità amministrativa degli enti, così come essa è regolata dal d.lgs. n. 231 del 2001.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, dunque, proprio perché con essa si fa chiarezza su tale tematica giuridica sotto il profilo giurisprudenziale, non può che essere che positivo.
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