Quelle rare volte in cui l’assegno di mantenimento spetta al marito: nota a Cass. 8716/2015, depositata il 29.04.2015

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Il caso: Il Tribunale, pronunciata la separazione fra i coniugi, poneva a carico della donna l’obbligo di corrispondere al marito un assegno di mantenimento di Euro 500,00 mensili, annualmente rivalutabili.

La Corte d’appello, invece, ritenendo inadeguato l’importo disposto dal giudice di prime cure alla luce delle condizioni economiche e patrimoniali di entrambi i coniugi, disponeva un aumento dell’assegno di mantenimento dovuto al marito nell’importo di 800,00 Euro.

La donna ricorreva anche in Cassazione lamentando che, seppur vero che avesse in banca un deposito bancario di oltre tre milioni di Euro (derivanti dalla liquidazione della quota da lei posseduta nella società di famiglia), ella fosse una casalinga, priva di reddito da lavoro che doveva farsi interamente carico del mantenimento dei due figli. Altresì, evidenziava che la somma depositata fosse frutto di una liberalità del padre, destinata a diminuire, dovendo necessariamente servirle per il resto della vita. Si doleva, poi, della condotta del marito che, a dir suo, avrebbe sottaciuto a circostanze di fatto fondamentali ai fini della determinazione dell’assegno.

Riguardo l’assegno di mantenimento, il vecchio Codice del 1942 poneva, ex art. 145 c.c., a carico del marito l’obbligo pieno e totale di mantenere la moglie. Tale obbligo veniva conservato e continuava a sussistere durante la separazione, ex art. 156 c.c. Emanata la Costituzione, l’articolo 29, stabilisce espressamente l’uguaglianza morale e giuridica  dei coniugi. A tal proposito, la Corte costituzionale dichiarava illegittimo l’articolo 156 c.c. nella parte in cui era previsto l’obbligo di mantenimento del marito nei confronti della moglie indipendentemente dalle condizioni economiche della moglie.[1]                                                                                                                     Intervenuta la riforma del diritto di famiglia, l’articolo 156 c.c., ancora oggi, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. Si badi si parla di coniuge, pertanto il Codice non fa differenza tra marito o moglie.                                                                                                                            Il giudice, pertanto, nello stabilire l’ammontare del mantenimento deve tenere in considerazione di tutte le circostanze di fato dalle quali possa desumersi lo stile di vita- medio o agiato- dei coniugi al fine di determinare la situazione patrimoniale di entrambi. Se la separazione è pronunciata con addebito, non spetta il diritto al mantenimento ma, se sussistono condizioni di bisogno, può assegnarsi il diritto agli alimenti a favore della parte più debole. L’assegno di mantenimento previsto va adeguato nel tempo a causa della svalutazione della moneta e indicizzazione Istat.                 

Con la sentenza commentata in epigrafe, vuole mostrarsi l’assoluta rarità (rectius estraneità) dell’obbligo del coniuge donna di versare di mantenimento al marito. In una situazione in cui si assiste ad una consistente perdita di lavoro o di aumento delle procedure di mobilità, ecco che ritorna ad applicarsi il principio della assoluta parità fra marito e moglie. Infatti, così come dalla riforma del 1975, che, sul piano dei rapporti patrimoniali, affermava che entrambi i coniugi contribuiscono entrambi alle esigenze della famiglia, sembrerebbe discendere una parificazione tra coniuge anche dopo la fase di separazione, di conseguenza, il coniuge economicamente più forte deve farsi carico di mantenere il coniuge debole da cui si separa in ossequio ai vincoli di legge e in virtù del principio di solidarietà. Non c’è alcuna differenza tra uomo e donna, nel momento del bisogno è corretto che l’uno mantenga l’altro secondo le risorse e il tenore di vita tenuto durante la convivenza.

La Corte rigettava i motivi ricorso proposti dalla donna e dichiarava inammissibile il predetto con la condanna alle spese della ricorrente.

 


[1]  Sentenza 23 maggio 1966 n. 46

Dott. La Corte Giuseppe

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