Quando l’amore finisce e il compagno pubblica foto osè dell’ex convivente su facebook: Commento a Cassazione, sez. V penale, n. 12203 del 2015

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Chi di noi non ha un proprio profilo su facebook? La diffusione dei social networks ha permesso di mettere in contatto persone di diverse parti del mondo o scambiarsi inviti, eventi o notizie, anche di lavoro, con un evidente risparmio di costo e di tempo. Tuttavia, questi, appena decritti, sono gli aspetti positivi del principale social network, lo stesso libro delle facce (questa è la traduzione in italiano di facebook) può diventare un’arma a doppio taglio, strumento adeguato per  il perpetrarsi di fatti illeciti, reati e di abuso in mano a soggetti, la cui unica intenzione è quella di offendere il decoro o l’onore della vittima, di molestarla c.d. cyberstalking o denigrarla c.d. cyberbullismo.

Il fatto: Il ricorrente aveva intrattenuto una relazione sentimentale con una donna, la quale, dopo tre anni, aveva deciso di interrompere tale relazione ed era tornata a vivere presso l’abitazione della famiglia d’origine.

Dall’ordinanza impugnata e da quella del giudice di primo grado emerge che la condotta dell’indagato è consistita in una serie di minacce gravi, perpetrate attraverso strumenti informatici (quali un falso profilo facebook, creato con il nome della persona offesa ed altro profilo creato con il nome di suo padre), ed in tempi diversi, di pubblicazione di foto intime, che ritraevano la donna nuda o nell’atto di compiere atti sessuali, con l’esplicitazione della volontà di diffonderle e di farle vedere ai figli.

II ricorrente contestava la configurabilità nel caso di specie, sotto il profilo oggettivo, del reato di atti persecutori poiché non erano sufficienti, ai fini della configurabilità del delitto,                  i reiterati atti di minaccia o di molestia nei confronti di un soggetto, ma era, altresì, necessaria anche la determinazione di uno stato d’ansia o di paura o la sussistenza di un fondato timore per la propria incolumità.

Lo stalking, punito dall’art. 612bis c.p., è un reato abituale, comune, che contiene una clausola di salvaguardia al co. 1 cpv in quanto la fattispecie de qua non si applica allorché il fatto costituisca più grave reato, la relativa formulazione legislativa prevede eventi alternativi la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo (rectius un perdurante e grave stato d’ansia ovvero un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto ovvero costringere ad alterare le proprie abitudini di vita), è punibile a querela o d’ufficio, quando il fatto è connesso ad altra fattispecie penale per la quale deve procedersi d’ufficio ed è di competenza del Tribunale monocratico.

La Cassazione, respingendo il ricorso per genericità e richiamando la ricostruzione fatta dal Tribunale, chiarisce che il susseguirsi per mesi di tali eventi ha determinato nella vittima un grave e stato d’ansia che ha causato l’alterazione delle proprie abitudini di vita e costretta a farsi seguire da una struttura specializzata “come d’altronde è naturale immaginare”.

La Suprema Corte sottolinea che il ricorso doveva contenere dei motivi che contestano il provvedimento impugnato o ne rilevavano delle criticità in maniera analitica e precisa senza cadere nel vizio di aspecificità.

Circa la prova del grave stato d’ansia, cosi come è immaginabile che la p. o. possa averne sofferto considerata la condotta permanente del soggetto imputato, un orientamento consolidato in giurisprudenza, afferma che “ai fini dell’integrazione del delitto di atti persecutori non si richiede l’accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che i suddetti atti abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima (ex plurimis Cass.16864/2011, Cass. 8832/11)

Gli Ermellini, pertanto, dichiaravano inammissibile il ricorso e condannavano il ricorrente ad una somma pari a 1000,00 in favore della cassa delle ammende in quanto la superiore inammissibilità era riconducibile alla di lui colpa.

Dott. La Corte Giuseppe

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