Biancamaria Consales
Così ha deciso la sezione tributaria della Corte Suprema di cassazione, che, con sentenza n. 16840 depositata il 5 luglio 2013, ha rigettato il ricorso proposto da una società di riscossione tributi. Questi i fatti. La Corte di Appello di Caltanissetta aveva rigettato l’appello proposto dalla predetta società avverso la sentenza di primo grado che, ammettendo al passivo solo parte dei crediti dei quali era stata chiesta l’insinuazione, aveva rigettato, per il resto, la domanda, rilevando che i compensi esattoriali erano stati oggetto di espressa rinuncia, mentre le altre somme dovevano intendersi rinunciate, non essendo stata la relativa domanda riproposta in sede di precisazione delle conclusioni.
I Giudici di secondo grado ritenevano, infatti, che, in sede di precisazione delle conclusioni, la ricorrente, nel fare espresso riferimento al credito portato in domanda con riserva, avesse abbandonato la domanda di ammissione al passivo degli ulteriori crediti per i quali pendeva ricorso dinanzi al Giudice tributario.
Presentando ricorso in cassazione, la società ricorrente deduceva, invece, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 100, 112, 189 e 190 c.p.c.; secondo la parte, infatti, la Corte di Appello aveva erroneamente applicato le suddette norme senza tener conto che dalle conclusioni non si evinceva la volontà della parte di abbandonare la domanda di insinuazione relativamente agli ulteriori crediti dedotti, nonché la contraddittorietà ed illogicità della motivazione tenuto conto che, in sede di precisazione delle conclusioni, era stata chiesta l’ammissione del credito portato dalla domanda e, quindi, dell’intero credito.
Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso sostenendo che, come ormai consolidata giurisprudenza afferma, “la mancata riproposizione della domanda (o eccezione) nella precisazione delle conclusioni comporta l’abbandono della stessa, assumendo rilievo solo la volontà espressa della parte, in ossequio al principio dispositivo che informa il processo civile, con conseguente irrilevanza della volontà rimasta inespressa”. A tale opzione si è giunti sulla base dell’interpretazione dell’art. 189 c.p.c. ed alla luce dei principi che esaltano il contraddittorio e tutelano il giusto processo come ragionevole durata, presenti nell’art. 111 della Costituzione riformato. “Nel vigente ordinamento processuale – hanno affermato i Giudici – il thema decidendum non è più modificabile nel senso dell’ampliamento, ma solo nel senso della limitazione delle conclusioni prese negli atti introduttivi e nell’udienza ex art. 183 c.p.c., con possibilità per le parti di rinunciare ai singoli capi, di procedere a riduzioni delle domande originarie, di rinunciare ad alcune delle domande originarie o intervenute nei termini di cui all’art. 183 c.p.c., mentre al giudice è affidato il ruolo di garante, con valenze pubblicistiche, a presidio del divieto di domande nuove e di domande non rispettose delle preclusioni di cui all’art. 183 c.p.c.”.
In conclusione, per effetto dell’importanza del ruolo dispositivo attribuito alla parte diventa irragionevole presumere una volontà diversa da quella espressa e affidare al giudice la ricerca di quella effettiva, ricavabile dagli atti processuali e dalla connessione delle domande valutate avendo presente l’interesse della parte, perché la parte, in un processo basato sul principio dispositivo, è l’unico dominus dei suoi interessi e se non adempie subisce le conseguenze dell’onere su di essa gravante.
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