Prescrizione e recidiva: la decisione delle Sezioni Unite

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Quando, ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l’aumento di pena per la recidiva che integri una circostanza aggravante ad effetto speciale non rileva.

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Corte di Cassazione-sez. un.pen.-sent. n. 49935 del 28-09-2023

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Indice

1. Il fatto


La Corte di Appello di Palermo confermava integralmente una pronuncia con la quale il Tribunale di Trapani, ad esito del giudizio ordinario, aveva condannato l’imputato alla pena di anni uno, mesi quattro di reclusione ed Euro seicento di multa per i reati di minaccia aggravata (capi A e D), violazione di domicilio aggravata (capo B) e tentato furto con strappo (capo C), oltre al risarcimento dei danni arrecati alle parti civili.
Ciò posto, avverso la predetta sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore, chiedendo l’annullamento della sentenza per violazione della legge penale e vizio della motivazione.
In particolare, tra i motivi ivi addotti, per quello che rileva in questa sede, la difesa deduceva come, a suo avviso, erroneamente il Tribunale, con statuizione confermata dal giudice di appello, avesse omesso di dichiarare tutti i reati estinti per prescrizione in ragione della contestazione della recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale, formulata dal Pubblico ministero all’udienza del 17 settembre 2020, quando per tutti i delitti, commessi in un individuato arco temporale, la prescrizione, considerate anche le cause di sospensione, era maturata precedentemente.
Orbene, richiamando un orientamento della giurisprudenza di legittimità e dando comunque atto di pronunce di questa Corte di segno opposto, il ricorrente sosteneva come la contestazione suppletiva non potesse far rivivere reati ormai estinti, cosicché il primo giudice, a fronte dello spirare del termine prescrizionale, avrebbe dovuto immediatamente dichiararne l’estinzione, senza consentire detta contestazione e pronunciare una sentenza di condanna con le conseguenti statuizioni civili.

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2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione


Investita del ricorso, la Quinta Sezione penale della Cassazione rimetteva gli atti alle Sezioni unite, avendo rilevato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, riguardante la possibilità di contestare, ai sensi dell’art. 517 c.p.p., una circostanza aggravante a effetto speciale (nel caso di specie la recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale) anche successivamente al decorso del termine di prescrizione, calcolato alla luce dell’originaria imputazione.
Nel dettaglio, l’ordinanza di rimessione in questione richiamava un primo orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale il decorso del termine prescrizionale precluderebbe ogni successiva contestazione, che non può far rivivere un reato già estinto, cosicché sul giudice grava l’obbligo di immediata declaratoria della relativa causa, deducendo al contempo che, avuto specifico riguardo alla recidiva, le decisioni riconducibili a detto indirizzo sono fondate sul presupposto della natura costitutiva della contestazione dell’aggravante, che non rappresenta un mero status desumibile dal certificato penale ovvero dal contenuto dei provvedimenti di condanna.
L’ordinanza aveva poi ricordato che a tale indirizzo se ne contrappone un altro, secondo il quale la contestazione di un’aggravante a effetto speciale sarebbe valutabile ai fini del calcolo del termine di prescrizione anche se avvenuta per la prima volta dopo il decorso del termine previsto per l’imputazione non aggravata, purché la contestazione preceda la pronuncia della sentenza. 
Ebbene, come rilevato, sempre in questa ordinanza, questa seconda opzione ermeneutica diverge dalla prima per la differente ricostruzione della natura della contestazione, che avrebbe natura meramente ricognitiva e non costitutiva, considerato che ogni circostanza è preesistente rispetto alla contestazione e ontologicamente indipendente da essa.
Nel dettaglio, quanto alla recidiva, secondo una decisione richiamata nell’ordinanza, il profilo inerente alla modalità con cui la recidiva assume rilevanza in riferimento al fatto-reato, ossia la contestazione, “non può essere confuso con le conseguenze che da detta contestazione derivano, una volta che la stessa sia legittimamente intervenuta, proprio perché essa si riferisce ad un fenomeno preesistente, inerente a una condizione personale del soggetto, con la conseguenza che il fenomeno dell’incidenza sui termini di prescrizione non può che essere ricollegato alla preesistenza della condizione soggettiva medesima”.
Oltre a ciò, era altresì osservato che il principale aspetto, sul quale i due orientamenti divergono, attiene alla differente funzione assunta dalla contestazione all’interno dell’economia processuale e al conseguente rapporto tra la contestazione stessa e il decorso del termine prescrizionale.
Detto aspetto, per come emerge dalle pronunce citate, si combinerebbe da un canto con il parallelo obbligo di immediata declaratoria delle cause estintive del reato e, dall’altro, su un piano generale, alla luce anche della giurisprudenza convenzionale, con le connesse esigenze informative riconosciute in favore dell’imputato.
Sotto un primo profilo andrebbero determinati i rapporti tra il decorso solo “apparente” del termine prescrizionale postulato dal secondo orientamento e la regola che prevede l’obbligo di immediata declaratoria, d’ufficio, della causa estintiva e, quindi, tra la predetta “apparenza” e l’evidenza connessa all’operatività di tale obbligo, nei termini delineati dalle Sezioni Unite nelle sentenze n. 12283 del 25/01/2005 e n. 35490 del 28/05/2009.
Sotto un altro profilo, sempre ad avviso di questa Sezione rimettente, rileverebbero i rapporti tra la contestazione tardiva e la necessità di una informazione precisa e completa su ciò che viene ascritto all’accusato, avuto anche riguardo alla esatta qualificazione giuridica del fatto, quale condizione essenziale della equità del procedimento, in ragione della puntuale prescrizione contenuta nell’art. 6 § 3 lett. a) della CEDU.

3. La soluzione adottata dalle Sezioni unite


Le Sezioni unite, in via preliminare, delimitavano i termini della questione sottoposta al suo vaglio giudiziale nei seguenti termini: “Se, ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l’aumento di pena per la recidiva che integri una circostanza aggravante ad effetto speciale rilevi anche se la stessa sia stata oggetto di contestazione suppletiva dopo la decorrenza del termine di prescrizione previsto per il reato come originariamente contestato”.
Premesso ciò, dopo avere analizzato gli orientamenti nomofilattici formatisi in subiecta materia, la Cassazione, nella pronuncia qui in esame, giungeva ad affermare, in prima analisi, che, quando esercita l’azione penale, il pubblico ministero, nel caso in cui sussistano precedenti condanne per delitti dolosi, passate in giudicato prima della commissione del fatto per cui si procede, è tenuto a compiere una valutazione discrezionale sulla loro rilevanza, verificando in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo della più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità dell’imputato, e a decidere conseguentemente se contestare o meno nel capo d’accusa la recidiva, disponendo già in quel momento degli indicatori significativi ai fini di tale scelta, secondo il percorso tracciato dalla giurisprudenza delle Sezioni unite, essendo in tal modo garantito il diritto dell’imputato a essere informato della natura dell’accusa elevata a suo carico, in essa ricomprese le circostanze aggravanti, ed è altresì tutelata la sua esigenza di scegliere una strategia difensiva in relazione all’accusa così come formulata.
Precisato questo aspetto giuridico, gli Ermellini evidenziavano oltre tutto, avuto riguardo, in particolare, alla recidiva qualificata, come fosse inoltre opportuno ricordare che la sua applicazione rileva non solo per il calcolo del tempo necessario a prescrivere e, ovviamente, per la determinazione della pena (art. 99 c.p.), ma anche ai fini del tempo che determina l’estinzione della pena (art. 172 c.p., comma 7) e di quello necessario per ottenere la riabilitazione (art. 179 c.p., comma 2), nonché ai fini delle preclusioni in tema di amnistia (art. 151 c.p., comma 5) e di indulto (art. 174 c.p., comma 3), fermo restando che la (sola) recidiva reiterata, poi, rileva ai seguenti fini: impossibilità di considerare determinati criteri nella valutazione inerente al riconoscimento delle attenuanti generiche, per alcuni gravi reati (art. 62 bis c.p., comma 2, dichiarato parzialmente illegittimo con la sentenza n. 183 del 2011 della Corte costituzionale); divieto di prevalenza delle attenuanti nel giudizio di comparazione fra circostanze (art. 69 c.p., comma 4, dichiarato parzialmente illegittimo con le sentenze nn. 251/2012, 105/2014, 106/2014, 74/2016, 205/2017, 73/2020, 55/2021, 143/2021, 141/2023, 188/2023 della Corte costituzionale); aumento minimo ex art. 81 c.p., comma 4; accesso al patteggiamento allargato (art. 444 c.p.p., comma 1-bis); esecuzione della pena, ai fini dell’entità del periodo di espiazione che permette di fruire dei permessi premio previsti dall’art. 30-ter Ord. Pen. e della impossibilità di concedere più di una volta l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e la semilibertà (art. 58-quater Ord. Pen., comma 7-bis).
Va altresì considerato che, sempre secondo la Corte di legittimità, in caso di contestazione suppletiva della recidiva in dibattimento, l’imputato presente non ha diritto a un termine a difesa, diversamente da quanto previsto qualora sia contestata una qualsiasi altra circostanza aggravante (art. 519 c.p.p., comma 1).
Terminata questa prima disamina di ordine prevalentemente normativo, i giudici di piazza Cavour, rilevavano per di più che quanto sinora evidenziato, però, non consente di escludere, de iure condito, che il pubblico ministero possa procedere alla contestazione suppletiva della recidiva solo in dibattimento, ai sensi delle citate disposizioni, non solo nei casi in cui la sussistenza della circostanza aggravante sia emersa dopo l’esercizio dell’azione penale (invero assai difficilmente ipotizzabili: si pensi all’accertamento di precedenti penali risultanti a carico dell’imputato con un alias la cui conoscenza sia emersa solo nel corso del dibattimento), ma anche qualora il pubblico ministero supplisca a una inerzia, rimedi a un errore ovvero compia una diversa valutazione discrezionale rispetto a quella fatta al momento dell’esercizio dell’azione penale, atteso che, per la Suprema Corte, tale conclusione risulta allo stato coerente rispetto alla risalente pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 4 del 28/10/1998) secondo la quale “le contestazioni ai sensi degli artt. 516 e 517 possono essere effettuate dopo l’avvenuta apertura del dibattimento e prima dell’espletamento dell’istruzione dibattimentale, cioè sulla base degli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari” (in senso conforme v. Sez. 2, n. 45298 del 14/10/2015; Sez. 5, n. 8631 del 21/09/2015; Sez. 5, n. 16989 del 02/04/2014).
Non è in discussione, dunque, per il Supremo Consesso, la facoltà da parte del pubblico ministero di procedere alla contestazione suppletiva della recidiva, che peraltro non richiede l’autorizzazione del giudice (nei casi di cui all’art. 517 c.p.p. “il pubblico ministero contesta all’imputato” una circostanza aggravante), a differenza di quanto previsto per la contestazione del fatto nuovo, in presenza dei presupposti previsti dall’art. 518, comma 2, del codice di rito.
Per la Cassazione, tuttavia, la questione rilevante, precisata nei corretti termini nel quesito finale (“Se, ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l’aumento di pena per la recidiva che integri una circostanza aggravante ad effetto speciale rilevi anche se la stessa sia stata oggetto di contestazione suppletiva dopo la decorrenza del termine di prescrizione previsto per il reato come originariamente contestato”), attiene alla determinazione dei rapporti tra “l’apparente” decorso del termine prescrizionale postulato dal secondo orientamento e la regola che prevede l’obbligo di immediata declaratoria, d’ufficio, della causa estintiva e, quindi, tra la predetta “apparenza” e l’evidenza connessa all’operatività di tale obbligo, tema correttamente indicato nella ordinanza di rimessione come snodo cruciale al fine di dirimere il contrasto di giurisprudenza.
L’aspetto decisivo, non sufficientemente considerato nelle pronunce adesive al secondo degli orientamenti contrapposti, riguarda, dunque, per la Corte, la portata del fondamentale principio previsto dall’art. 129 c.p.p. e i suoi effetti.
Precisato ciò, una volta fatto presente che la situazione processuale, da doversi esaminare, era quella del giudice di primo grado che, in sede di decisione, prende atto che al momento della contestazione suppletiva della recidiva qualificata da parte del pubblico ministero, formulata ai sensi dell’art. 517 c.p.p., era già maturato il termine massimo di prescrizione per il reato come originariamente contestato, senza la recidiva, e che quindi egli avrebbe dovuto in precedenza pronunciare una sentenza ai sensi dell’art. 129 del codice di rito, per gli Ermellini, era necessario chiedersi se “la contestazione della recidiva, con il conseguente prolungamento dei termini prescrizionali, può determinare la reviviscenza di un reato ormai estinto” (Sez. 6, n. 47499 del 22/09/2015).
Orbene, le Sezioni unite ritenevano di dovere condividere la risposta negativa a tale quesito data dalla pronuncia ora citata e da altre in precedenza richiamate, riconducibili al primo dei due orientamenti contrapposti.
In particolare, per addivenire a siffatta conclusione, gli Ermellini evidenziavano prima di tutto come sempre le Sezioni Unite abbiano affrontato il tema dell’obbligo di immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, previsto dall’art. 129 c.p.p., in numerose pronunce, fra le quali può essere ricordata, in primo luogo, la sentenza n. 17179 del 27/02/2002, ove si statuì che il principio sancito dall’art. 129 del codice di rito impone che nel giudizio di cassazione, qualora ricorrano contestualmente una causa estintiva del reato e una nullità processuale assoluta e insanabile, sia data prevalenza alla prima, salvo che la operatività della causa estintiva non presupponga specifici accertamenti e valutazioni riservati al giudice di merito, nel qual caso assume rilievo pregiudiziale la nullità, in quanto funzionale alla necessaria rinnovazione del relativo giudizio.
Nel dettaglio, la sentenza ha evidenziato le funzioni fondamentali che assolve tale norma: favorire l’imputato innocente (o comunque da prosciogliere), prevedendo l’obbligo dell’immediata declaratoria di cause di non punibilità “in ogni stato e grado del processo“, e agevolare in ogni caso l’esito del processo, quando non appaia concretamente realizzabile la pretesa punitiva dello Stato, cosicché “l’art. 129 si muove nella prospettiva di troncare, allorché emerga una causa di non punibilità, qualsiasi ulteriore attività processuale e di addivenire immediatamente al giudizio, anche se fondato su elementi incompleti ai fini di un compiuto accertamento della verità da un punto di vista storico”.
Con specifico riferimento alla declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, si è tra l’altro osservato che essa, “anche se in apparenza può confliggere con l’interesse dell’imputato ad una più ampia possibilità di vedere proseguire l’attività processuale in vista di un auspicato proscioglimento con formula liberatoria di merito, in realtà non mortifica tale interesse (che può trovare sempre la sua massima espansione, attraverso la rinuncia alla prescrizione secondo la sentenza costituzionale n. 275/90) e lo contempera, alla luce della normativa vigente, con l’aspetto, non meno rilevante, dell’exitus del processo quale obiettivo da perseguire, la cui importanza non può certamente sottovalutarsi, posto che la disciplina d’impulso alla sollecita definizione del processo tutela un fondamentale interesse di carattere costituzionale (art. 111 Cost., comma 2: ragionevole durata del processo) che non può essere considerato aprioristicamente di rango inferiore ad altri interessi pur apprezzabili e, in ogni caso, sempre tutelabili”.
Nell’esaminare dunque la questione relativa alla possibilità per il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di rinvio a giudizio, di emettere sentenza di non luogo a procedere ex art. 129 c.p.p., la sentenza n. 12283 del 25/01/2005, in continuità con Sez. U n. 17179 del 27/02/2002, ricostruì ancora più compiutamente le ragioni giustificative della norma, attuativa della prima direttiva programmatica della L. delega 16 febbraio 1987, n. 81, art. 2, che prevedeva “massima semplificazione nello svolgimento del processo con eliminazione di ogni atto o attività non essenziale”.
L’art. 129 c.p.p., invero, enuncia una regola di condotta rivolta al giudice, data la sua collocazione sistematica nell’ambito del capo relativo ad “atti e provvedimenti” giudiziali, e prevede l’obbligo (recte dovere) dell’immediata declaratoria, d’ufficio, di determinate cause di non punibilità che il giudice “riconosce” come già acquisite agli atti. 
Per la Corte di legittimità, si è pertanto di fronte ad una prescrizione generale di tenuta del sistema, nel senso che, nella prospettiva di privilegiare l’exitus processus ed il favor rei, s’impone al giudice il proscioglimento immediato dell’imputato, ove ricorrano determinate e tassative condizioni, che svuotano di contenuto – per ragioni di merito – l’imputazione o ne fanno venire meno – per la presenza di ostacoli processuali (difetto di condizioni di procedibilità) o per l’avverarsi di una causa estintiva – la effettiva ragion d’essere.
Ciò posto, la sentenza n. 12283 del 25/01/2005, a sua volta, ha poi osservato che l’espressione “”immediata declaratoria”, presente soltanto nella rubrica dell’art. 129 c.p.p., assume una valenza diversa da quella percepibile prima facie: non denuncia una connotazione di “tempestività temporale” assoluta, fino a legittimare, pur nel silenzio della norma, il rito c.d. de plano (…); ma evidenzia la precedenza che tale declaratoria deve avere, ove ne ricorrano le condizioni, su altri eventuali provvedimenti decisionali adottabili dal giudice”.
Con la sentenza n. 35490 del 28/05/2009, le Sezioni Unite hanno inoltre affermato che, in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di “constatazione“, ossia di percezione ictu oculi che a quello di “apprezzamento” e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento. 
Inoltre, a conferma della prevalenza della pronuncia di proscioglimento su ogni ulteriore approfondimento, la sentenza ha ribadito che i vizi della motivazione del provvedimento impugnato non sono rilevabili in sede di legittimità in presenza di una causa estintiva, in quanto il giudice, cui andrebbero rimessi gli atti per il giudizio rescissorio al fine di riparare il tessuto motivazionale della decisione, avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva, principio applicabile anche in presenza di una nullità di ordine generale, come già affermato nella sentenza n. 1021 del 28/11/2001 e precisato nella citata sentenza n. 17179 del 27/02/2002.
Nel solco della ricordata elaborazione giurisprudenziale si colloca altresì la sentenza n. 13539 del 30/01/2020 che ha, fra gli altri, statuito il seguente principio di diritto: “La confisca di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva determinata dalla prescrizione del reato purché sia stata accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che abbia assicurato il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, fermo restando che, una volta intervenuta detta causa, il giudizio non può, in applicazione dell’art. 129 c.p.p., comma 1, proseguire al solo fine di compiere il predetto accertamento”.
Oltre a ciò, la recente pronuncia ha ricordato che l’art. 129 c.p.p. è norma che la Corte di legittimità ha sempre interpretato “come espressiva di un obbligo per il giudice di pronunciare con immediatezza, nel momento di sua formazione ed indipendentemente da quello che sia “lo stato e il grado del processo” (clausola, questa, significativamente menzionata dalla norma), sentenza di proscioglimento”, e ha osservato che, ove il principio dell’immediatezza del proscioglimento “fosse ritenuto generalmente derogabile in ragione della necessità di accertare il fatto in vista della confisca urbanistica, ovvero in senso chiaramente sfavorevole all’imputato, non ci si potrebbe sottrarre all’evidente sperequazione che verrebbe in generale in tal modo a crearsi nel caso, invece, di accertamenti da operare in melius, essendosi sempre esclusa da questa Corte la possibilità di prosecuzione a tal fine del processo proprio per il contrasto della stessa con quanto disposto dall’art. 129 c.p.p.”.
Le norme che, nell’interpretazione della Corte, consentono eccezionalmente al giudice, nonostante la declaratoria di proscioglimento, di proseguire nel giudizio per determinate specifiche finalità (tra esse annoverandosi l’art. 537 c.p.p., in tema di pronuncia sulla falsità di documenti e il D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 301 in tema di contrabbando), “proprio perché derogatorie rispetto all’art. 129 c.p.p., non possono essere certo considerate esemplificative di un “sistema””.
A conclusione di questo excursus giurisprudenziale, le Sezioni unite ricordavano, da ultimo, la sentenza n. 19415 del 27/10/2022, con la quale queste Sezioni Unite hanno infine affermato il seguente principio di diritto: “nei confronti della sentenza resa all’esito di concordato in appello è proponibile il ricorso per cassazione con cui si deduca l’omessa dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione maturata anteriormente alla pronuncia di tale sentenza”, in quanto “la proposizione dell’accordo non implica di per sé rinuncia alla prescrizione, causa estintiva alla quale consegue l’obbligo di immediata declaratoria previsto dall’art. 129 c.p.p., comma 1”.
Si è così ribadito che – come rimarcato nella sentenza n. 12283 del 25/01/2005 – detta norma costituisce una “prescrizione generale di tenuta del sistema”.
Orbene, terminata questa disamina di ordine giurisprudenziale, la Suprema Corte riteneva di dovere condividere i principi affermati in numerose pronunce delle Sezioni Unite che impongono di escludere la rilevanza di una contestazione suppletiva della recidiva qualificata, astrattamente idonea a spostare in avanti il tempo necessario a prescrivere, qualora la causa di estinzione del reato (non aggravato dalla recidiva) fosse già maturata prima di detta contestazione dato che, in tale situazione, si era già in presenza di una causa di non punibilità che il giudice del dibattimento avrebbe dovuto riconoscere e dichiarare, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 1, essendogli preclusa ogni ulteriore attività.
Del resto, ad avviso della Suprema Corte, in situazioni non agevolmente risolvibili il giudice potrà anche sollecitare un preventivo contraddittorio specifico sul punto, e ciò in quanto la prescrizione è un evento giuridico e non un mero fatto naturale, il cui accertamento non è frutto soltanto del computo aritmetico del relativo termine sul calendario, ma può implicare la risoluzione di plurime questioni, di diritto e di fatto, che costituiscono l’oggetto del giudizio sul punto della prescrizione, relative, ad esempio, all’epoca di commissione del reato, al regime applicabile, alla individuazione degli atti interruttivi e delle cause di sospensione (in proposito v. Sez. 5, n. 12093 del 20/01/2021; Sez. 2, n. 35791 del 29/5/2019; Sez. 1, n. 12595 del 13/03/2015).
D’altronde, la omessa pronuncia della doverosa sentenza liberatoria da parte del giudice non può creare un pregiudizio all’imputato che di detta decisione avrebbe dovuto beneficiare, facendo “rivivere“, a seguito della contestazione suppletiva della recidiva qualificata, un reato per il quale era già spirato il termine massimo di prescrizione, causa di estinzione che il giudicante avrebbe dovuto riconoscere e che, “ora per allora“, va riconosciuta e dichiarata atteso che, diversamente opinando, si rimetterebbe illogicamente alla diligenza del giudice di primo grado la sorte del processo, in presenza di identiche situazioni: un imputato beneficerebbe o meno della sentenza favorevole in base al tempestivo rilievo (o meno) della causa di estinzione del reato da parte del giudice stesso, avvenuto prima o dopo la contestazione suppletiva ex art. 517 c.p.p., della recidiva qualificata, circostanza aggravante, peraltro, che presenta le peculiarità in precedenza ricordate.
L’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva del reato, previsto dall’art. 129 c.p.p., se correttamente e tempestivamente adempiuto dal giudice, preclude pertanto al pubblico ministero la possibilità stessa di procedere alla contestazione suppletiva, mancando lo stesso segmento processuale nel quale esercitare la facoltà, fermo restando che detto obbligo, dunque, rappresenta l’elemento dirimente della questione devoluta alle Sezioni Unite, risultando irrilevante il contrasto giurisprudenziale, richiamato nell’ordinanza di rimessione, sulla natura (dichiarativa o costitutiva) della contestazione della recidiva, come già in precedenza osservato.
Le Sezioni unite, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, enunciavano il seguente principio di diritto: “Ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l’aumento di pena per la recidiva che integri una circostanza aggravante ad effetto speciale non rileva se la stessa sia stata oggetto di contestazione suppletiva dopo la decorrenza del termine di prescrizione previsto per il reato come originariamente contestato”.

4. Conclusioni


La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito quando, ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l’aumento di pena per la recidiva che integri una circostanza aggravante ad effetto speciale non rileva.
Si afferma difatti in tale pronuncia, componendosi un pregresso contrasto giurisprudenziale, che, ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l’aumento di pena per la recidiva che integri una circostanza aggravante ad effetto speciale non rileva se la stessa sia stata oggetto di contestazione suppletiva dopo la decorrenza del termine di prescrizione previsto per il reato come originariamente contestato.
Quindi, per effetto di questo arresto giurisprudenziale, ove la recidiva sia stata oggetto di contestazione suppletiva, essa non rileva come aggravante ad effetto speciale da prendere in considerazione per la determinazione del tempo necessario a prescrivere, sempreché però tale contestazione sia avvenuta dopo la decorrenza del termine di prescrizione previsto per il reato come originariamente contestato.
Ove invece tale contestazione venga considerata per la determinazione di questo lasso temporale, anche ove il termine di prescrizione sia decorso, ben si potrà contestare una decisione in questo genere richiamando la pronuncia qui in commento.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché fa chiarezza su siffatta tematica giuridica sotto il versante giurisprudenziale, non può che essere che positivo.
 

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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