Nota a Cass. Civ., sez. lav., 18 aprile 2000, n. 5049 – “molestie sessuali ed art. 2087 c.c.”

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Le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo sulla salute e la serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c..
 
Svolgimento del processo. – D., dipendente della spa S. con la qualifica di quadro, licenziato in tronco il 16 ottobre 1995 con l’accusa di aver ripetutamente sottoposto la dipendente R. ad attenzioni sentimentali e sessuali, sottoponendola anche a trasferimenti di ufficio e di mansioni al fine di ottenere da lei l’accettazione del corteggiamento, adiva il Pretore del lavoro di Milano contestando la veridicità dell’accusa, nonché la genericità e la tardività delle contestazioni.
Costituitasi la S. che si opponeva alla domanda, questa veniva respinta dal Pretore, con sentenza del 15 maggio 1996.
L’appello proposto dal lavoratore veniva rigettato dal Tribunale di Milano con sentenza depositata il 30 maggio 1997.
Il Tribunale rilevava in fatto che, come emergeva dalla deposizione della parte lesa R., il D. aveva cercato di riallacciare con la stessa una relazione da tempo terminata, facendo su di lei una serrata pressione, avvalendosi della propria posizione gerarchica e quindi facendole capire che il non essere gentile con lui avrebbe comportato conseguenze sul lavoro, provocando altresì nella R. reazioni emotivo – erotiche attraverso allusioni di carattere sessuale, così ponendo in essere, secondo il Tribunale, una vera e propria prevaricazione.
Il Tribunale conferiva quindi piena credibilità alla deposizione della R. non solo in quanto unica persona a conoscenza della vicenda, ma anche in quanto pienamente credibile e non ispirata da un atteggiamento di malanimo, considerato altresì che le sue dichiarazioni erano confermate dai biglietti a firma del D. e da questi non contestati.
Poiché questi fatti, tempestivamente contestati, integravano giusta causa di recesso, stante l’obbligo del datore di tutela della salute fisica e dell’integrità morale dei dipendenti, non vi era necessità, secondo il Tribunale, della loro previsione nel codice disciplinare.
Avverso detta sentenza propone ricorso il D. affidato a quattro motivi. Resiste la società datrice di lavoro con controricorso illustrato da memoria.
 
Motivi della decisione. ­– Con il primo motivo si denunzia omesso esame da parte del giudice di secondo grado delle indicazioni temporali ammesse dalla stessa datrice di lavoro nei propri scritti in ordine alla mansioni svolte da esso ricorrente e dalla dipendente R. nel periodo 1992-1995.
Assume il D. che fino al maggio 1995 egli aveva svolto mansioni di impiegato e solo successivamente era stato promosso quadro, per cui non avrebbe potuto far valere alcun potere direttivo sulla R.; inoltre costei, dopo la cessazione della relazione sentimentale avvenuta nell’aprile 1994, aveva lavorato sotto il controllo gerarchico del dr. A. ed in seguito (febbraio – aprile 1995) era stata dislocata in un diverso ufficio.
Il motivo non è meritevole di accoglimento.
In primo luogo il riferimento puro e semplice all’inquadramento non appare elemento decisivo, non potendosi logicamente escludere che, pur non rivestendo la qualifica di quadro, il ricorrente, quale impiegato amministrativo, potesse far valere dei poteri gerarchici, o comunque una posizione sovraordinata all’interno dell’ufficio e quindi anche nel confronti della R., con conseguente possibilità di prevaricazione nei suoi confronti, come il Tribunale ritiene comprovato anche attraverso la deposizione della dipendente B., che aveva riferito sugli spostamenti di mansione.
Quanto alla dislocazione in uffici diversi, ci si limita in ricorso a dedurre la circostanza, senza indicarne le prove a sostegno e senza riportarne il contenuto, così impedendo alla Corte il controllo sulla sussistenza e sulla decisività dei fatti che si assumono non valutati dal Tribunale.
2) Con il secondo motivo si denunzia insufficienza di motivazione nella parte in cui si riconoscono sussistenti le denunciate molestie sul luogo di lavoro, mentre quegli stessi fatti avrebbero dovuto considerarsi come estrinsecazione di una ordinaria storia d’amore.
Ed infatti, secondo la Raccomandazione CEE 27/11/91, si deve considerare illegittimo non già qualsivoglia comportamento basato sul sesso posto in essere contro il volere della donna, bensì quel comportamento che risulti essere sconveniente ed offensivo per la dignità della destinataria. Il suo comportamento nei confronti della Russo non era stato tale da configurare molestie sessuali, ma pur essendo discutibile, era stato innocuo ed amichevole, non tale da influire sull’attività affettiva e lavorativa della R., come dimostrato dal fatto che la stessa R., quando aveva voluto por fine definitivamente al corteggiamento era riuscita a farlo, troncando ogni rapporto con risposte appropriate e atteggiamenti decisi.
La censura non è meritevole di accoglimento, giacché in essa non si denunzia l’esistenza di una circostanza decisiva che il Tribunale avrebbe omesso di considerare (motivazione omessa o insufficiente), né la mancanza di un nesso di coerenza tra le varie ragioni di cui si compone la motivazione e neppure l’attribuzione, a taluno degli elementi emersi in corso di causa, di un significato fuori dal senso comune ed inconciliabile con il suo effettivo contenuto (motivazione illogica), ma con essa si sollecita sostanzialmente una diversa ricostruzione dei fatti, che è vietata in sede di legittimità (cfr. ex plurimis Cass. 3205/95).
Non merita dunque censure la sentenza impugnata che ha ravvisato nell’agire del ricorrente (la serrata pressione avvalendosi della propria posizione gerarchica, le allusioni a parti del corpo della R. e ai desideri che la di lei figura suscitava su di lui nel tentativo di provocare reazioni emotivo – erotiche) quel comportamento sconveniente ed offensivo, che secondo la stessa prospettazione di cui al ricorso, integra il carattere delle molestie sessuali.
3) Con il terzo motivo si denunzia contraddittoria motivazione in ordine alla attendibilità della deposizione della R..
Si assume che, essendo escluso alcun nesso tra le attenzioni particolare poste in essere dal D. e lo svolgimento dell’attività lavorativa da parte della R., costei si sarebbe indotta a denunziare la persecuzione subita solo dopo aver visto in pericolo il proprio posto di lavoro, per riacquistare, agli occhi dei dirigenti aziendali, quella credibilità che progressivamente aveva perso a causa dello scarso rendimento, come dichiarato dai testi Z. e T.
Neppure questa censura merita accoglimento, perché con essa si sollecita nuovamente una diversa ricostruzione dei fatti, senza neppure indicare le prove a dimostrazione che la R. correva effettivamente il rischio di venire licenziata (le deposizioni testimoniali riportate fanno invero solo cenno allo scarso rendimento), né le prove sulla esistenza di nesso tra il supposto rischio di licenziamento e la mendacità della testimonianza.
Peraltro il Tribunale ha ampiamente illustrato i motivi che rendevano credibile la deposizione della R.: la verosimiglianza dei fatti riferiti nel contesto di una passata relazione sentimentale e di una perdurante relazione superiore – dipendente, la esistenza di biglietti del D. comprovanti il desiderio di questi di ripristinare la relazione, l’assenza di malanimo nella R. e di motivi validi ad imbastire una falsa accusa.
Le deduzioni di cui al ricorso non valgono pertanto ad inficiare le argomentazioni del Tribunale.
Con il quarto motivo si denunzia violazione dell’art. 2119 c.c.
per aver ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare nel caso di comprovate molestie sessuali, anche in assenza di un’esplicita previsione nel contratto collettivo, ritenendo l’imprenditore garante della salute fisica e dell’integrità morale dei dipendenti ai sensi e per gli effetti dell’art. 2087 c.c. Viceversa, secondo la prospettazione del ricorrente, ancorché le molestie sessuali, coinvolgendo problemi di salute e di discriminazione professionale, creino un diritto soggettivo in capo alla donna lavoratrice, cui corrisponde l’obbligo datoriale di tutela della sua integrità psicofisica, lo stesso datore, tuttavia, non potrebbe essere né arbitro né garante della situazione di conflitto, ma essendo istituzionalmente controparte di tutti i lavoratori. sia uomini che donne, non potrebbe essere chiamato ad un ruolo protettivo delle seconde contro i primi.
La massima sanzione espulsiva costituita dal licenziamento dovrebbe essere preceduta dalla comminatoria di sanzioni più lievi e disposta solo in caso di recidiva.
Neppure questo motivo può essere accolto.
Lo stesso ricorrente riconosce che le molestie sessuali, incidendo sulla salute e sulla professionalità di chi ne è vittima, impongono l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro, come peraltro già riconosciuto da questa Corte con la sentenza 7768 del 1995, e risulta quindi irrilevante la sua mancata previsione del codice disciplinare.
Non si tratta peraltro di chiamare il datore di lavoro a rivestire un ruolo protettivo delle donne contro gli uomini, in quanto la molestia sessuale può avere come vittima entrambi i sessi ed in entrambi i casi sussiste l’obbligo del datore di lavoro di adottare i provvedimenti a tutela dell’integrità fisica e della personalità morale, come testualmente impone l’art. 2087 c.c., attraverso i comportamenti che si rendono necessari, e quindi anche con il licenziamento.
Quanto alla necessità di adottare il provvedimento espulsivo solo all’esito di recidiva, in ricorso sono state proposte solo argomentazioni generiche, e non la deduzione di fatti specifici atti ad inficiare il giudizio di proporzionalità della sanzione formulato nella sentenza impugnata.
Il ricorso va quindi respinto.
Le spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
 
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese a favore della controparte liquidate in L 27.000, oltre L tremilioni e mezzo per onorari.

Staiano Rocchina

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