Maltrattamenti in famiglia: integra gli estremi del reato l’eccesso di protezione del figlio che tenda ad isolarlo dal contesto sociale

Redazione 12/10/11

L’eccesso di protezione e di cura nei confronti dei minori che tenda ad isolarli dal contesto sociale integra gli estremi del reato di maltrattamento in famiglia. Così ha statuito la Cassazione che, con sentenza del 10 ottobre 2011, n. 36503, ha respinto il ricorso di un nonno e di una madre, conviventi con il minore, rispettivamente nipote e figlio, che, a causa di un atteggiamento iperprotettivo nei confronti di quest’ultimo, sono stati ritenuti responsabili di atti di maltrattamento nei confronti del minore, lesivi della sua integrità fisica e morale. Invero, tali atteggiamenti iperprotettivi si sono concretizzati in comportamenti che, impedendo al minore di frequentare con regolarità la scuola e di socializzare con i propri coetanei, nonché prospettandogli la figura paterna come negativa e violenta, hanno inciso inevitabilmente sullo sviluppo psichico del minore, con conseguenti accertati disturbi deambulatori. Per i giudici di merito, pertanto, gli atti di maltrattamento che hanno giustificato la condanna per il delitto di maltrattamenti in famiglia si sono concretizzati in atti di «eccesso di accudienza», ovvero atti riservati all’età infantile e tuttavia mantenuti e perpretati anche in età preadolescenziale, nonché in «deprivazioni sociali e psicologiche», tutte condotte valutate nel loro complesso come concretamente idonee a ritardare gravemente nel minore sia lo sviluppo psicologico-relazionale, sia l’acquisizione di abilità in attività materiali e fisiche, anche elementari, come la corretta deambulazione.

Di fronte alle doglianze dei ricorrenti, i quali lamentano l’assenza di una chiara «connotazione negativa» nelle condotte poste in essere, la Corte precisa come nel reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. l’oggetto giuridico non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, contrassegnati proprio da una «chiara connotazione negativa», bensì anche dalla tutela dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate dalla norma, interessate al rispetto della loro personalità e delle loro potenzialità nello svolgimento di rapporti affettivi e sociali, a prescindere dalla realizzazione di condotte vessatorie e violente. Ciò implica l’estensibilità del reato anche a condotte in grado di ritardare gravemente lo sviluppo psicologico e relazionale del bambino, provocando danni che possono essere assimilati alla violenza fisica, a prescindere dalla consapevolezza della vittima di subirla.

Nel contesto descritto, infatti, la Corte considera irrilevante il grado di percezione del maltrattamento ad opera della vittima minorenne, invocato come esimente dai ricorrenti che hanno evidenziato un palese «stato di benessere» del minore, iperaccudito nella propria realtà familiare. Sottolinea invece la Corte la scarsa rilevanza della soglia di sensibilità del minore vittima, il quale, sia per il proprio grado di sviluppo psico-fisico, sia soprattutto a causa della sua esclusione dai contesti sociali di riferimento (coetanei), non può disporre di una sufficiente capacità di percezione della negativa e deteriore realtà in cui è costretto a vivere, esigendo in tal senso una efficace tutela.

Anche sotto il profilo soggettivo, la Corte conclude che la persistenza delle metodiche di «iperaccudienza» e di isolamento, in palese violazione delle indicazioni e delle prescrizioni imposte, segnala, al di là di ogni ragionevole dubbio, la ricorrenza in capo agli accusati della intenzionalità che connota il delitto di maltrattamenti in famiglia (Anna Costagliola).

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