La natura pubblicistica e inderogabile della normativa in materia di distanze tra fabbricati

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Con la pronuncia in esame la Sez. IV del Consiglio di Stato ha respinto l’appello proposto avverso una sentenza del T.A.R. Campania in merito al mancato rispetto delle distanze, con specifico riferimento ad un corpo di fabbrica oggetto di demolizione e ricostruzione nell’ambito di un procedimento di rilascio di permesso di costruire.

Più in particolare, con il quarto motivo di appello, il ricorrente aveva evidenziato come i giudici di prime cure avessero ritenuto applicabili alla fattispecie le distanze fissate dal D.M. n. 1444/1968, senza invece tener conto delle distanze inferiori prescritte in deroga dal Piano di Recupero vigente per le zone di cui trattasi.

Ebbene, secondo il Collegio occorre, in primis, premettere che secondo la disposizione recata dall’art. 4 del D.M. n.1444 del 1968 “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”; a tale proposito, peraltro, la giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di affermare come le norme sulle distanze di cui al predetto D.M. hanno “carattere pubblicistico ed inderogabile” e vincolano i comuni in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, sentenza n. 6909 del 5 dicembre 2005). Trattandosi, inoltre, di norma volta ad “impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario”, quest’ultima non appare “eludibile”.

A tale proposito, il Collegio sottolinea che “le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, sentenza n. 6909 del 2005 cit.).

Ne deriva che il giudice è tenuto ad applicare le disposizioni concernenti la distanza minima tra gli edifici “anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali“, dovendosi le prime ritenersi automaticamente inserite nel Piano Regolatore Generale al posto della norma illegittima (cfr., in tal senso, Cass. Civ., Sez. II, sentenza n. 12741 del 29 maggio 2006).

In particolare, per quanto qui di interesse, l’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, rubricato “Limiti di distanza tra i fabbricati”, prescrive i limiti minimi di distanza tra edifici a seconda delle diverse zone territoriali omogenee e segnatamente, in ipotesi di costruzione di “nuovi edifici ricadenti in altre zone” (comma 1, n. 2), prevede che la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti corrisponde a 10 metri, con obbligo di aumento della distanza sino all’altezza del fabbricato confinante più alto, se questa sia maggiore di 10 metri (cfr. comma 2). In altre parole, qualora uno o entrambi i fabbricati confinanti presentino un’altezza maggiore di 10 metri, la distanza minima tra edifici prescritta dalla legge (10 metri) “va maggiorata sino all’altezza del fabbricato più alto”.

Ricordiamo, infine, che la misura minima della distanza è derogabile in due ipotesi tassative, contemplate dal comma 2 dell’art. 9: è consentito edificare a distanze inferiori rispetto a quelle previste dal comma 1 citato “soltanto per i piani particolareggiati e per le lottizzazioni convenzionate”, e non anche per gli interventi edilizi diretti consentiti dallo strumento urbanistico, interventi tra i quali ricomprendere il permesso di costruire come, appunto, nel caso in questione.

Avv. Tramutoli Daniele

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