Interessante pronuncia del Tribunale di Milano in tema di danno da uccisione dell’animale da affezione (T. Milano, 30.6.2014).

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La sentenza dipana in modo lineare i principi fissati dalla Corte di Cassazione nelle quattro storiche sentenze di San Martino (Cass. SSUU 26972/2008 e ss.) ed affronta in modo analitico la problematica del limite al risarcimento del danno patrimoniale da cure veterinarie nel caso di animale privo di utilità economica.

La faccenda affrontata dal Giudice Meneghino è la seguente: un tale spara con un’arma ad aria compressa su due gatte di proprietà di madre e figlia sue vicine.

Entrambi gli animali vengono curati, ma uno muore.

Per prestare agli animali l’assistenza sanitaria, le due donne spendono delle somme importanti, vale a dire poco meno di 10.000,00 euro.

In sede di giudizio, le attrici chiedono il risarcimento sia del danno non patrimoniale, sia di quello patrimoniale.

Per quanto attiene alla prima forma di danno, il Giudice, ricorda come la Corte di Cassazione abbia, appunto, chiarito che la dicitura di cui all’art. 2059 cc, secondo cui il danno non patrimoniale può essere ristorato soltanto allorché sia previsto dalla legge, debba essere interpretata in senso costituzionalmente orientato, così che il suo risarcimento va riconosciuto, allorché sussista un illecito di rilevanza penale, tutte le volte in cui ricorra una previsione di legge che espressamente lo preveda (ad esempio, in tema di violazione delle regole sulla privacy), quindi ogniqualvota ricorra la lesione d’una posizione giuridica che goda di protezione costituzionale.

Muovendo da tali presupposti, in punto di an, il Tribunale, rilevando la presenza d’un fatto di rilevanza criminale, ha concluso per la risarcibilità del danno.

Il problema serio, quindi, è stato ritrovato in relazione al quantum risarcibile, cioè alla misura della possibile condanna riparatoria in capo al danneggiante per ciò che concerne le spese per gli interventi veterinari.

Correttamente, il Giudice ricorda come, a norma delle previsioni di cui all’art. 1227 cc, il debitore sia esonerato dal rispondere di quelle conseguenze negative che il creditore avrebbe potuto evitare.

Come è evidente, tale regola è espressiva del principio di autoresponsabilità e si inserisce a buon diritto nel contesto della norma generale e generica della correttezza e della buona fede, le quali debbono necessariamente ispirare la condotta di ciascuno.

Una simile disciplina ritrova consacrazione nella Carta Costituzionale all’art. 2 Cost., quindi rinviene un’altra propria epifania nelle disposizioni contenute negli artt. 1175 e 1375 cc.

Secondo quanto precisato dalla Corte di Cassazione, il generale obbligo di correttezza e buona fede che deve ispirare la condotta di ciascun consociato, “si atteggia come un impegno od obbligo di solidarietà – imposto, tra l’altro, dall’art. 2 Cost. – tale da imporre a ciascuna parte comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali, ed a prescindere altresì dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, siano idonei (senza rappresentare un’apprezzabile sacrificio a suo carico) a preservare gli interessi dell’altra parte” (Cass. 14726/2002).

Il problema sta nell’individuare una soglia che descriva il valore massimo risarcibile.

Il Tribunale di Milano considera la regola stabilita all’art. 2058 cc, secondo cui il danneggiato ha la facoltà di chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile, mentre sussiste, tuttavia, il potere per il Giudice di disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per il debitore.

Tale criterio, nondimeno, considerate le peculiarità del caso dedotto alla cognizione del Giudice, viene escluso come possibile strumento, atteso che sussiste legittimamente “un forte interesse del proprietario a sostenere esborsi economici al fine di curare e tenere in vita un essere vivente (non una res) con il quale si instaura un legame affettivo che relazionale”.

La decisione in esame, quindi, osserva pure come, del resto, l’animale d’affezione non possa essere considerato come un bene fungibile, così che, dunque, non è possibile ripristinare quella relazione particolare con un qualsiasi altro animale dello stesso genere.

Quid iuris, allora?

Nella sentenza in commento, il Giudice si sforza di ritrovare la norma che risolva il caso sottoposto alla sua attenzione.

Nella lettura del provvedimento, si coglie l’imbarazzo dell’uomo di Legge che deve assumere una decisione ispirata da un immanente e naturale senso di giustizia, ma che deve fare necessariamente i conti con il dato legislativo.

Il Tribunale di Milano ha cercato di risolvere il problema del limite al risarcimento in punto di spese sanitarie, nel caso di un animale che, proprio per il fatto che è da affezione, manca di avere un’utilità materiale capace di attriburgli un valore di mercato.

Laddove, infatti, un animale è passibile di sfruttamento economico, ne deriva un prezzo e ciò consente di giustificare certe spese. La sentenza compie i seguenti passaggi: prima di tutto individua il principio per cui, nel nostro ordinamento, non viene tutelata la salute dell’animale in sé e per sé, come un bene a sé stante, ma “come “funzionale” a garantire la relazione con l’uomo”.

Posta questa regola, conclude che, nel caso in cui un animale abbia un prezzo, il limite alle spese veterinarie “potrà essere ravvisato proprio in tale valore”.

Nel caso, tuttavia, d’un animale destinato ad appagare le esigenze ed i bisogni più profondi di relazione e di affetto dell’uomo, viene meno un valore di mercato di questo.

Trascurando, dunque, l’ipotesi dell’animale di fatica e di quello da esposizione o da concorsi, cioè capace di procurare un reddito, il cucciolo di casa non ha un vero e proprio prezzo, oppure, se lo ha, esso è modesto.

Come risolvere il caso d’un animale – magari un cagnolino trovatello – curato con un grande esborso?

Il Giudice Meneghino ha adottato una soluzione che certamente tenta di fornire una risposta, stabilendo che la somma riconoscibile come limite per il ristoro del danno patrimoniale sia quella stessa che descrive il danno non patrimoniale.

La soluzione, a dire la verità, non convince. Il criterio è uno tra molti possibili, ma, francamente, non appare idoneo a prestare giustizia.

Chi mai potrebbe accettare una decisione che condanni il nostro vicino di casa che ci ha preso a fucilate il gatto a pagarci una parte modesta delle spese sanitarie che ritovano la propria scaturigine solo e soltanto nel suo insensato ed odioso gesto?

La scelta del Tribunale di Milano, quindi, non soddisfa per due ordini di motivi: intanto il tetto indivuato del pregiudizio non patrimoniale non è il solo possibile, inoltre, nessuna coscienza di uomo libero e di buoni costumi è in grado di tollerare che il danno provocato ad un animale possa ritrovare un confine nella circostanza che di quello manchi un mercato1.

Come è noto, il limite stabilito dall’art. 1227 cc inerisce alle spese di tipo capriccioso ed è ovvio che una soluzione come quella adottata dal Tribunale di Milano avrebbe potuto giustificarsi, allorché una CTU avesse stabilito la velleitarietà degli interventi eseguiti.

Laddove, nondimeno, le prestazioni sanitarie siano indispensabili a permettere la guarigione dell’animale, risulta veramente iniqua la ricerca d’una soglia massima alla condanna del danneggiante.

Pare di poter spingersi oltre, soffermandosi a considerare nella loro complessità i casi: è sempre sbagliato dimenticarsi che il diritto è per l’uomo e non viceversa. Noi stabiliamo delle regole, perché intendiamo disciplinare la nostra esistenza, pertanto non possiamo dimenticarci che, dietro ad ogni lite, ci sono delle persone, ci siamo noi: immaginiamo di trovarci in prima persona nella situazione vissuta dalle due donne che hanno adito il Giudice di Milano.

Il nostro animale di casa viene volontariamente ferito da qualcuno: potremmo tollerare di non affrontare tutte le spese indispensabili, soltanto perché il cane od il gatto sono dei bastardini senza pedigree? È ovvio che non è così e che, invece, metteremmo mano al portafogli, incuranti del fatto che il nostro animale non abbia una quotazione di mercato.

Appartiene al nostro animo di affrontare la questione in questo modo: ci è impossibile approcciare il fatto in modo asettico e razionale, trascurando i sentimenti. La pulsione ad affrotare gli esborsi utili a procurare le cure senza considerare il prezzo dell’animale corrisponde ad una nostra esigenza insopprimibile.

Noi avvertiamo il bisogno di agire nel modo descritto, poiché siamo spinti dall’affetto verso l’animale e non potremmo perdonarci una scelta diversa, la quale sarebbe contraria ai sentimenti più nobili dell’essere umano e cagionerebbe, giustamente, riprovazione sociale e turbamento interiore.

Il padrone d’un animale che decida, glacialmente, di lasciarlo morire, poiché privo di valore commerciale, laddove potesse sopportare il senso di disprezzo per se stesso, sarebbe correttamente considerato nel peggiore dei modi da chiunque altro.

Se non smarriamo il contatto con la materialità degli eventi e conserviamo uno stretto nesso con la realtà, quindi, comprendiamo come sia confacente al nostro animo di avvertire come indispensabile la spesa per le cure sanitarie, così che ci sembra del tutto legittima la richiesta di traslazione per intero delle stesse sull’autore del fatto illecito. Ciascuno di noi, quindi, avverte come conforme a giustizia l’accollo in capo al danneggiante degli esborsi affrontati per procurare all’animale le cure necessarie.

Se questo, nondimeno, è un desideratum, credo, tuttavia, che possa essere anche la soluzione al problema.

E ritengo che proprio l’art. 1227 cc possa essere la chiave di volta del sistema: quando siamo creditori, abbiamo l’onere di limitare il danno, a pena di addossarcene le conseguenze.

Cosa accadrebbe, se noi lasciassimo morire il nostro gatto, senza prestargli le cure dovute? Come ci sentiremmo? La pena che proveremmo per la morte dell’amico a quattro zampe si sommerebbe al disagio sofferto per il disprezzo che nutriremmo nei nostri confronti per aver accordato la preferenza al denaro a scapito del sentimento.

Tutto ciò, verosimilmente si tradurrebbe in un pregiudizio non patrimoniale, il quale, qualora rimanesse nei termini d’un semplice turbamento, costituirebbe espressione di quello che si soleva chiamare danno morale, mentre, nel caso in cui fosse capace di pregiudicare l’equlibrio psico-fisico, così traducendosi in una patologia neurologica, sconfinerebbe nel danno biologico.

La spesa in questione, quindi, proprio perché finalizzata a scongiurare l’insorgenza di ulteriori e diverse forme di pregiudizio, verrebbe giustificata e rientrerebbe a buon diritto nell’ambito della giusta condanna risarcitoria.

Ecco, allora, che proprio quell’elemento che ha spinto il Tribunale di Milano a negare il risarcimento costituisce, invece, lo strumento che, al contrario, consente di offrire copertura istituzionale alla richiesta di ristoro.

È verosimile che la decisione in commento sarà impugnata: varrà la pena di seguirla, per capire cosa ne sortirà.

1 La sentenza in commento, poi, manca di convincere anche per un altro aspetto: essa premette che il criterio del valore ante-sinistro, tale per cui il titolare del diritto dominicale sul bene potrebbe pretendere al massimo l’equivalente patrimoniale del bene danneggiato, non si adatti al caso di un animale di affezione, salvo, però, concludere che, nel caso di un animale che sia dotato, invece, d’un valore economico, il tetto al risarcimento del danno consistente nelle spese per le cure veterinarie si ritrovi proprio nel prezzo stesso di quello.

Avv. Lorusso Alberto

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