Il provvedimento del giudice dell’udienza preliminare di rigetto della richiesta di dissequestro di beni sottoposti a sequestro probatorio non è impugnabile dall’interessato.
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Indice
1. Il fatto
Nell’ambito del procedimento penale iscritto a carico di diversi indagati, di cui uno per i delitti di cui agli artt. 110 c.p., 3, comma 1, nn. 2, 3 e 8, e 4, n. 7, L. n. 75 del 1958, il pubblico ministero aveva disposto la perquisizione personale e locale a carico delle persone sottoposte a indagine al fine di ricercare e sequestrare il corpo del reato o comunque le cose ad esso pertinenti; in particolare, il decreto aveva indicato, come cose da ricercare: i telefoni cellulari (con relative schede sim-card e schede di memoria) utilizzati per scambiare messaggi tra le persone sottoposte a indagine e tra queste ultime e le persone offese, biglietti o appunti afferenti i rapporti con esse e la relativa contabilità, consistenti somme di danaro in contanti ricevuti dalle persone offese.
Orbene, in sede di esecuzione del decreto, la polizia giudiziaria aveva, tra le altre cose, sequestrato, a fini di prova, un libretto di risparmio postale nominativo intestato ad uno degli indagati e alla madre, quest’ultima non iscritta nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. e incontestabilmente estranea ai fatti.
Ciò posto, con apposita istanza, il difensore di colei, nei cui confronti era stato disposto siffatto sequestro, aveva chiesto al giudice dell’udienza preliminare la restituzione del libretto deducendo: a) la mancanza di convalida del sequestro, operato d’iniziativa dalla polizia giudiziaria in esecuzione di un decreto di perquisizione generico nella indicazione delle cose da ricercare; b) la provenienza lecita delle somme depositate siccome accreditate a titolo di pagamento della pensione a lei intestata; c) l’impignorabilità degli assegni pensionistici.
A sua volta, il giudice aveva rigettato la richiesta, spiegando che erano rimasti immutati i presupposti del sequestro, tenuto altresì conto del fatto che sul libretto non erano stati accreditati solo i ratei pensionistici.
Ebbene, avverso siffatta ordinanza l’indagata aveva proposto appello ai sensi dell’art. 322-bis c.p.p. deducendo: a) la mancanza di motivazione del decreto di perquisizione che non indicava in modo specifico gli oggetti da sottoporre a sequestro, con conseguente necessità della convalida del sequestro stesso; b) la mancanza di motivazione in ordine alla qualificazione del libretto di risparmio postale come corpo di reato o cosa ad esso pertinente; c) la provenienza lecita delle somme di denaro, la mancanza di esigenze cautelari, l’impignorabilità dei ratei pensionistici.
Il Tribunale di Bari, però, qualificato l’appello cautelare come ricorso per Cassazione, ha trasmesso gli atti alla Corte di Cassazione.
2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione
Investita del ricorso, la Terza Sezione penale rimetteva gli atti alle Sezioni Unite prospettando l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza sul rimedio esperibile dalla persona interessata avverso il provvedimento del giudice dell’udienza preliminare che respinga la richiesta di restituzione del bene sottoposto a sequestro probatorio.
In particolare, l’ordinanza premetteva a tal proposito che: a) nei confronti del provvedimento del giudice che, all’esito dell’udienza camerale di cui all’art. 127 c.p.p., decide sull’opposizione avverso il decreto del pubblico ministero che, nel corso delle indagini preliminari, abbia disposto ai sensi dell’art. 263, comma 5, c.p.p., la restituzione del bene o abbia respinto la relativa richiesta, può essere proposto ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 127, comma 7, c.p.p.; b) l’ordinanza di rigetto o accoglimento della richiesta di restituzione adottata, nel corso del dibattimento, dal giudice che procede è impugnabile, insieme con la sentenza, ai sensi dell’art. 586 c.p.p.; c) il provvedimento del giudice dell’esecuzione adottato “de plano“, ai sensi degli artt. 263, comma 6, e 676 c.p.p., è opponibile ai sensi dell’art. 667, comma 4, e la successiva ordinanza è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 666, comma 6, c.p.p..
Orbene, l’ordinanza di rimessione, esclusa la possibilità di proporre richiesta di riesame (ammessa, ex art. 257, c.p.p., solo in caso di decreto che dispone il sequestro probatorio), osservava che non è espressamente previsto alcun rimedio nel caso in cui l’ordinanza che decide sulla richiesta di restituzione delle cose sequestrate venga adottata dal giudice dell’udienza preliminare nel corso dell’udienza stessa.
Secondo un risalente indirizzo, invero, il provvedimento con il quale il giudice dell’udienza preliminare rigetta, in sede di udienza, l’istanza di restituzione delle cose sottoposte a sequestro probatorio, non è impugnabile, non essendo all’uopo espressamente previsto alcun rimedio, e da ciò non deriva alcun difetto di tutela dell’istante in quanto, all’esito dell’udienza preliminare, potrà essere chiamato a provvedere sulla richiesta il giudice del processo o quello dell’esecuzione, ovvero lo stesso giudice, qualora pronunci sentenza di non luogo a procedere (Sez. 2, n. 2282 del 14/10/2010; Sez. 1, n. 12546 del 14/02/2002; Sez. 2, n. 5163 del 30/09/1997).
Tale indirizzo, tuttavia, ricordava l’ordinanza, è stato superato “in favore di un’opzione volta a valorizzare l’individuazione di un mezzo di impugnazione anche rispetto a decisione assunte (…) in udienza preliminare”.
Ed è qui che si originava il contrasto interpretativo oggetto di rimessione alle Sezioni Unite.
Più nel dettaglio, un primo orientamento sostiene l’applicazione estensiva del rimedio previsto dall’art. 263, comma 5, c.p.p., e la conseguente possibilità di impugnare con ricorso per Cassazione il provvedimento del giudice per l’udienza preliminare che decide sull’istanza di restituzione (così, Sez. 5, n. 33695 del 18/06/2009, che ha affermato l’assimilabilità del provvedimento in esame, assunto nel contraddittorio delle parti, alla decisione sull’opposizione dell’interessato ex art. 263 comma 5, c.p.p., rispetto alla quale l’art. 127, comma 7, c.p.p. ammette il ricorso per cassazione; nello stesso senso, Sez. 3, n. 11489 del 22/01/2015; Sez. 6, n. 16801 del 24/03/2021, e, più recentemente, Sez. 3, n. 40789 del 07/09/2021).
Un secondo orientamento ritiene, invece, esperibile il rimedio dell’appello cautelare di cui all’art. 322-bis c.p.p., escludendosi, in particolare, il ricorso diretto in Cassazione, trattandosi di strumento riservato dall’art. 111, comma 7, Cost. soltanto alle sentenze ed ai provvedimenti sulla libertà personale, laddove l’impugnabilità ai sensi dell’art. 322-bis c.p.p. discende dal parallelismo con l’analoga disciplina prevista per il sequestro preventivo (Sez. 6, n. 3167 del 10/11/2021), trattandosi di un indirizzo, affermava l’ordinanza di rimessione, che si ricollega a quanto già affermato da Sez. 3, n. 4554 del 11/12/2007, secondo cui l’ordinanza con cui il giudice del dibattimento, in pendenza del processo, provvede sull’istanza di dissequestro, proposta da un terzo che non è parte del giudizio, è impugnabile esclusivamente mediante l’appello previsto dall’art. 322 bis c.p.p., non trovando applicazione in tale ipotesi il generale principio dell’impugnabilità dell’ordinanza unitamente alla sentenza che definisce il giudizio, in quanto il terzo non è legittimato a proporre impugnazione avverso tale sentenza (in senso conforme, Sez. 6, n. 46141 del 29/10/2019).
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3. La soluzione adottata dalle Sezioni unite
Le Sezioni unite, prima di entrare nel merito della questione, procedevano alla sua delimitazione nei seguenti termini: “Se la decisione di rigetto della richiesta di dissequestro di beni sottoposti a sequestro probatorio, adottata dal giudice dell’udienza preliminare, sia impugnabile dall’interessato con ricorso per cassazione o appello ex art. 322 bis c.p.p.”.
Premesso ciò, si notava che una prima soluzione, in realtà preclusiva di ogni impugnabilità, era stata inizialmente affermata da Sez. 2, n. 209017 del 30/09/1997, secondo cui non è in alcun modo impugnabile, non essendo all’uopo espressamente previsto alcun rimedio, il provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari, in sede di udienza preliminare, rigetta l’istanza di restituzione delle cose sottoposte a sequestro probatorio; da ciò non deriva alcun difetto di tutela dell’istante, in quanto, all’esito dell’udienza preliminare, potrà essere chiamato a provvedere sulla richiesta il giudice del processo o quello dell’esecuzione, ovvero lo stesso g.i.p. qualora pronunci sentenza di non luogo a procedere, fermo restando che questo principio è stato successivamente condiviso e ribadito da Sez. 1, n. 12546 del 14/02/2002, da Sez. 2, n. 2282 del 14/10/2010, e, più recentemente, da Sez. 2, n. 11577 del 06/03/2012, e Sez. 2, n. 12017 del 18/02/2020).
Detto questo, gli Ermellini notavano però come tale soluzione sia stata per la prima volta superata da Sez. 5, n. 33695 del 18/06/2009, secondo cui, invece, il provvedimento, di rigetto dell’istanza di restituzione delle cose sottoposte a sequestro probatorio, adottato dal giudice per le indagini preliminari in sede di udienza preliminare è ricorribile per cassazione.
In particolare, codesta sentenza osserva che l’esistenza di un interesse meritevole di tutela non può attendere l’esito della fase dibattimentale e che nel sistema esiste un vuoto normativo che altera la continuità dei rimedi previsti per la fase delle indagini preliminari (art. 263 c.p.p.), per quella dibattimentale (art. 586, c.p.p.) e per quella esecutiva (art. 676 c.p.p.), fermo restando che l’assimilabilità della decisione assunta dal giudice dell’udienza preliminare a quella del giudice per le indagini preliminari legittima, secondo la sentenza n. 33695/2009, l’applicazione estensiva del rimedio dettato dall’art. 263 c.p.p., già previsto dal sistema delle impugnazioni.
Ciò posto, altre pronunce hanno successivamente sostenuto l’immediata ricorribilità per cassazione dell’ordinanza del giudice per l’udienza preliminare che rigetta la richiesta di restituzione del bene sottoposto a sequestro probatorio e, tra queste, oltre a Sez. 6, n. 18814 del 28/02/2013, Sez. 3, n. 11489 del 22/01/2015, che, nel ribadire il principio che è ricorribile per cassazione il provvedimento di rigetto dell’istanza di restituzione delle cose sottoposte a sequestro probatorio, adottato dal giudice per le indagini preliminari, una volta che sia stata fissata l’udienza preliminare e prima che la stessa sia iniziata, ha espressamente richiamato Sez. 5, n. 33695/2009, condividendo l’argomento secondo il quale il principio di tassatività non preclude l’interpretazione estensiva delle fattispecie processuali o anche l’analogia tra diversi casi quando si tratti di sopperire ad un’evidente deficienza del sistema tale da assumere, se non colmata, i tratti di disciplina la cui lettura sarebbe costituzionalmente non giustificabile e irragionevole.
Ancora una volta, quindi, per la Corte di legittimità, si fa leva sulla identità delle forme e degli schemi procedimentali che rendono assimilabile, anche a fini impugnatori, la decisione assunta dal giudice nel contraddittorio tra le parti con quella assunta ai sensi dell’art. 263, comma 5, c.p.p..
Successivamente, anche Sez. 6, n. 16801 del 24/03/2021, ha condiviso (e fatto proprio) l’orientamento inaugurato dalla sentenza n. 33695/2009, escludendo espressamente la possibilità di ricorrere al rimedio dell’appello cautelare approntato dall’art. 322-bis c.p.p. esclusivamente per il sequestro preventivo.
L’argomento della immediata ricorribilità per Cassazione dell’ordinanza del giudice per l’udienza preliminare che rigetta l’istanza di restituzione del terzo, inoltre, si coniuga, nella sentenza Sez. 6, n. 16801 del 2021, con la considerazione che, altrimenti ragionando, il terzo sarebbe costretto ad attendere il passaggio in giudicato della sentenza, non potendo egli impugnare nemmeno l’ordinanza dibattimentale di rigetto insieme con la sentenza che definisce la fase di giudizio, fermo restando che, sulla stessa scia, si sono poste: Sez. 5, n. 37145 del 24/05/2022, e Sez. 1, n. 21356 del 01/04/2021.
Viceversa, capostipite dell’orientamento opposto è Sez. 6, n. 46141 del 29/10/2019, secondo cui l’ordinanza con cui il giudice dell’udienza preliminare provvede sull’istanza di dissequestro proposta da un terzo, che non è parte del giudizio, è impugnabile esclusivamente con l’appello previsto dall’art. 322-bis c.p.p., non trovando applicazione in tale ipotesi il generale principio dell’impugnabilità dell’ordinanza unitamente alla sentenza che definisce il giudizio, in quanto il terzo non è legittimato a proporre impugnazione avverso tale sentenza.
Ebbene, si argomenta a tal riguardo che l’art. 586 c.p.p. esclude la impugnabilità, separatamente dalla sentenza finale, di qualsiasi ordinanza, emessa dal giudice, diversa da quelle in materia di libertà personale e, dunque, anche del provvedimento con cui il giudice dell’udienza preliminare abbia deciso su una richiesta di restituzione di un bene sottoposto a sequestro probatorio.
Il sistema processuale, quindi, appare lacunoso in relazione alla tutela dei diritti del terzo che non sia parte del processo, al quale evidentemente non è applicabile il predetto art. 586 del codice di rito: e ciò vale, tanto più nella fase dell’udienza preliminare, nella quale nulla prevede il codice di rito; il che rappresenta obiettivamente una situazione irragionevole, idonea ad integrare una lesione tanto del diritto di difesa e del diritto alla proprietà garantiti dagli artt. 24 e 42 Cost., quanto del diritto di proprietà riconosciuto dall’art. 1, Prot. 1 CEDU.
Il provvedimento citato individua, pertanto, la soluzione nell’applicazione estensiva dell’art. 322-bis c.p.p. e, in un’ottica costituzionalmente e convenzionalmente orientata, esso consente di superare il principio della tassatività oggettiva dei mezzi di impugnazione e di ritenere operante anche in materia di sequestro probatorio l’art. 322-bis c.p.p., che riconosce alla persona alla quale le cose sono state sequestrate ed a quella che avrebbe diritto alla loro restituzione il diritto di proporre appello contro le ordinanze in materia di sequestro preventivo, oltre che contro il decreto di revoca del sequestro emesso dal pubblico ministero.
Chiarito ciò, gli Ermellini rilevavano altresì come sull’argomento sia tornata, infine, Sez. 6, n. 3167 del 10/11/2021, che ha affermato il principio di diritto per il quale, in tema di sequestro probatorio, l’ordinanza con cui il giudice dell’udienza preliminare rigetta l’istanza di dissequestro proposta dall’imputato è impugnabile con l’appello previsto dall’art. 322-bis c.p.p. e non con il ricorso diretto in cassazione, trattandosi di strumento riservato dall’art. 111 Cost. soltanto alle sentenze ed ai provvedimenti sulla libertà personale, fermo restando che anche la sentenza n. 3167 del 10/11/2021 parte dalla constatazione del vuoto di tutela intermedio, circoscritto alla fase compresa tra la chiusura delle indagini preliminari e l’inizio del dibattimento, che non trova alcuna spiegazione ragionevole e che, di conseguenza, porrebbe seri dubbi di compatibilità dell’ordinamento processuale con gli artt. 24 e 42, Cost., oltre che con l’art. 1, Prot. 1, CEDU, che tutelano il diritto di difesa e quello di proprietà. Osserva che è un dovere del giudice (prima ancora che un potere) quello di trovare, nel silenzio della legge processuale, un’interpretazione analogica che ponga rimedio ad un’evidente lacuna non suscettibile di giustificazione razionale.
Tutto il complesso di disposizioni di rito che riguardano il sequestro probatorio depone, afferma la sentenza, nell’opposto senso della necessità di immediata restituzione delle cose qualora non più necessarie per l’accertamento del reato: tanto si evince sia dalla regola generale dell’art. 262, comma 1, ma anche dall’accordata possibilità di proporre riesame e così, pure, dall’obbligo di restituzione in caso di esito favorevole dello stesso a norma dell’art. 324, comma 7, c.p.p. E dunque, afferma la sentenza, la preclusione di ogni rimedio impugnatorio esclusivamente nella fase processuale intermedia dell’udienza preliminare si presenterebbe come un’incomprensibile distonia rispetto a tale complessivo assetto normativo.
La sentenza n. 3167 del 10/11/2021, pertanto, esclude la soluzione della immediata ricorribilità per Cassazione dell’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare sul rilievo che si tratta di strumento riservato dall’art. 111, comma 7, Cost., soltanto alle sentenze ed ai provvedimenti sulla libertà personale.
Poiché si tratta di impugnare un provvedimento reso non da una “parte“, bensì da un giudice terzo, non si vede, per la Corte, per quale ragione il relativo sindacato debba essere differente rispetto a quello consentito in tema di sequestro preventivo.
Orbene, la ragione, per la Corte di legittimità, non può stare nel fatto che, secondo quanto affermato da Sez. 6, n. 16801 del 24/03/2021, richiamata dalla sentenza n. 3167 del 10/11/2021, il sequestro preventivo comporta un vincolo “più penetrante“, di “maggiore incisività” (così, testualmente), rispetto a quello derivante dal sequestro probatorio (ciò che spiegherebbe, tra l’altro, perché il rimedio dell’appello sia stato introdotto dal legislatore, con la novella del 1991, soltanto per il primo), perché, se riguardato dal lato della parte che lo subisce, si tratti dell’imputato-indagato o del terzo interessato, il vincolo d’indisponibilità che scaturisce da entrambe le misure è perfettamente identico, così come tale e’, di conseguenza, la compressione del relativo diritto di proprietà o di godimento.
E’ proprio questa identità di effetti che legittima l’interprete a colmare il vuoto normativo estendendo all’ipotesi non disciplinata lo specifico rimedio previsto per quella simile.
Ebbene, a questo punto della disamina, le Sezioni unite postulavano come non fossero condivisibili gli orientamenti che sostengono l’immediata impugnabilità (con appello cautelare o con ricorso per cassazione) dell’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare che provvede sulla richiesta di restituzione del bene sottoposto a sequestro probatorio alla stregua delle seguenti argomentazioni: “L’art. 263 c.p.p., nella sua originaria fisionomia, disponeva che, nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero poteva restituire direttamente, a chi ne avesse fatto richiesta, il bene sequestrato a fini probatori; se riteneva di non accogliere la richiesta di restituzione, doveva trasmetterla al giudice per le indagini preliminari. La limitazione del potere decisorio del pubblico ministero aveva una sua spiegazione nel “parallelismo” con la figura del giudice: attribuito a questi il potere di disporre, in generale, la restituzione delle cose sequestrate (art. 263, comma 1, c.p.p.), era parso coerente al codificatore del 1988 attribuire al titolare delle indagini preliminari analogo potere restitutorio fino a quando non avesse investito il giudice dell’azione penale. La “restituzione” del potere decisorio al giudice costituiva logica conseguenza del dissenso del pubblico ministero rispetto alla domanda di restituzione. Riconosciuta al giudice per le indagini preliminari la connaturale figura (e funzione) di garanzia, il codificatore dell’88 gli aveva assegnato il compito di sciogliere il nodo: diritto di proprietà da un lato, interesse pubblico all’applicazione della legge penale (art. 55 c.p.p.) dall’altro. Il giudice avrebbe provveduto “a norma dei commi precedenti (…) con le forme previste dall’art. 127”. Con due sentenze pronunciate lo stesso anno, le Sezioni Unite ritenevano ammissibile il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari (Sez. U, n. 7946 del 31/01/2008, Sez. 6, n. 3167 del 10/11/2021, Rv. 238507 – 01) per tutti i motivi indicati dall’art. 606, comma 1, c.p.p. (Sez. U, n. 9857 del 30/10/2008, omissis, Rv. 242290 – 01). Successivamente, l’art. 10, D.Lgs. 14 gennaio 1991, n. 12, recante “Disposizioni integrative e correttive della disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate”, modificava i commi quarto e quinto dell’art. 263 c.p.p., attribuendo al pubblico ministero il potere decisorio pieno (ma provvisorio) sulla richiesta di restituzione riservando al giudice per le indagini preliminari il compito di decidere sull’opposizione (anche) al decreto motivato di rigetto. Il medesimo D.Lgs. n. 12 del 1991 modificava contestualmente, con l’art. 15, comma 1, lett. a), l’art. 321 c.p.p. che, nella originaria stesura del comma 3, attribuiva esclusivamente al giudice per le indagini preliminari il compito di provvedere sulla richiesta di revoca del sequestro preventivo presentata dal pubblico ministero o dall’interessato. In particolare, veniva attribuito al pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, il potere di revocare direttamente, anche su richiesta della parte interessata, il decreto di sequestro preventivo e si disponeva che, ove lo stesso pubblico ministero riteneva di respingerla, anche solo in parte, dovesse trasmettere la domanda di revoca al giudice per le indagini preliminari con le proprie richieste e l’indicazione degli elementi a fondamento delle proprie valutazioni. Lo stesso D.Lgs. n. 12 del 1991, art. 17, aggiungeva l’art. 322-bis c.p.p. consentendo di proporre appello avverso le ordinanze in materia di sequestro preventivo e contro il decreto di revoca emesso dal pubblico ministero a norma dell’art. 321, comma 3, c.p.p.. In conclusione, il D.Lgs. n. 12 del 1991 ha già introdotto rilevanti modifiche sia in tema di sequestro probatorio che di sequestro preventivo. In particolare: a) ha riservato al pubblico ministero il potere decisorio pieno sulla richiesta di restituzione dei beni sottoposti a sequestro probatorio (art. 263, comma 4, c.p.p.); b) gli ha attribuito il compito di delibare la richiesta di revoca del sequestro preventivo provvedendo direttamente in caso di fondatezza della domanda oppure trasmettendola al giudice in caso contrario (mutuando dallo schema procedimentale previsto dall’art. 263, comma 4, prima della sua modifica); c) in entrambi i casi (sequestro probatorio e sequestro preventivo), il controllo giurisdizionale sulle decisioni del pubblico ministero è assicurato, rispettivamente, dall’opposizione al giudice per le indagini preliminari, in caso di sequestro probatorio e dall’appello al tribunale di cui all’art. 322-bis c.p.p. in caso di sequestro preventivo; d) avverso il provvedimento del giudice che decide sull’opposizione a norma dell’art. 263, comma 5, è ammesso ricorso per cassazione per tutti i motivi previsti dall’art. 606 c.p.p.; avverso il provvedimento del giudice che rigetta o accoglie la domanda di revoca del sequestro preventivo è ammesso appello ai sensi dell’art. 322-bis c.p.p.; il provvedimento del giudice dell’appello cautelare è a sua volta sindacabile in sede di legittimità per la sola violazione di legge (art. 325 comma 1, c.p.p.)”.
Non appare, quindi, per la Corte di legittimità, condivisibile l’indirizzo interpretativo che ritiene applicabile il rimedio dell’appello cautelare al provvedimento del giudice dell’udienza preliminare che decide sull’istanza di restituzione del bene sequestrato a fine probatorio, ostandovi il chiaro tenore letterale delle norme di riferimento (l’art. 322-bis c.p.p. è norma chiaramente dedicata alle “ordinanze in materia di sequestro preventivo”) e il dato storico-sistematico.
La lettera della legge, in effetti, non impedisce interpretazioni analogiche, soprattutto se si tratta di interpretazioni a garanzia della tutela di diritti; tuttavia non si può ignorare che il legislatore del 1991 è intervenuto a ridisegnare contestualmente il procedimento per la restituzione delle cose sequestrate a fini probatori, non prevedendo alcun meccanismo di controllo ulteriore e diverso da quello già previsto dall’art. 263 c.p.p. esclusivamente per la fase delle indagini preliminari.
Non si tratterebbe, dunque, di interpretazione analogica, ma di vera e propria interpretazione “contra legem“.
D’altro canto, l’interpretazione analogica o estensiva non può prescindere dalla lettera della legge. Il principio costituzionale di cui all’art. 101, comma 2, Cost., non si limita a sancire l’indipendenza esterna ed interna dei giudici, ma introduce un principio di “legalità processuale” che si traduce, innanzitutto, nella fedeltà del giudice al tenore letterale della disposizione normativa quale canone fondamentale di interpretazione cui si deve attenere, tanto più se si considera che varie pronunce delle Sezioni Unite hanno fatto espresso riferimento all’art. 12 preleggi quale criterio interpretativo risolutivo delle questioni ad esse sottoposte (tra esse, Sez. U, n. 38810 del 13/06/2022, in tema di impugnazione della sentenza di condanna, pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, che abbia omesso di statuire in ordine alla misura di sicurezza dell’espulsione prevista dall’art. 86 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309; Sez U, n. 1626 del 24/09/2020, dep. 2021, in relazione alla individuazione del tribunale presso la cui cancelleria deve essere depositato il ricorso per cassazione avverso la decisione del tribunale del riesame o, in caso di ricorso immediato, del giudice che ha emesso la misura cautelare; Sez. U, n. 47970 del 20/07/2017, che, in tema di giudizio di rinvio a seguito di annullamento della ordinanza che ha disposto o confermato la misura coercitiva, in chiara applicazione dell’art. 12 preleggi, ha affermato che il tribunale del riesame deve depositare il provvedimento nel termine di trenta giorni previsto dall’art. 311, comma 5-bis, c.p.p., a pena di perdita di efficacia della misura, e non nel più lungo termine, comunque non eccedente il quarantacinquesimo giorno, previsto dall’art. 309, comma 10, c.p.p.).
Come ben affermato da Sez. U, n. 11 del 19/05/1999, del resto, “quello letterale non è un criterio interpretativo della legge, ma il limite di ogni altro criterio ermeneutico”, fermo restando che tale principio è stato ribadito anche dalle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione secondo cui: “l’interpretazione adeguatrice deve muoversi nel rispetto delle potenzialità obiettive del dato testuale. Essa non può essere condotta oltre i limiti estremi segnati dall’univoco tenore della norma interpretata: tale circostanza segna il “confine”, “in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale”” (Sez. U civ., ord. n. 20661 del 01/10/2014); “l’interpretazione giurisprudenziale non può che limitarsi a portare alla luce un significato precettivo (un comando, un divieto, un permesso) che è già interamente contenuto nel significante (l’insieme delle parole che compongono una disposizione, il carapace linguistico della norma) e che il giudice deve solo scoprire. L’attività interpretativa, quindi, non può superare i limiti di tolleranza ed elasticità dell’enunciato, ossia del significante testuale della disposizione che ha posto, previamente, il legislatore e dai cui plurimi significati possibili (e non oltre) muove necessariamente la dinamica dell’inveramento della norma nella concretezza dell’ordinamento ad opera della giurisprudenza. Proprio detti limiti, in definitiva, segnano la distinzione dei piani sui quali operano, rispettivamente, il legislatore e il giudice, cosicché il “precedente” giurisprudenziale, pur se proveniente dalla Corte della nomofilachia (e, dunque, integrativo del parametro legale: art. 360 bis, n. 1, c.p.c.), non ha lo stesso livello di cogenza che esprime, per statuto, la fonte legale (cfr. anche Corte Cost., sent. n. 230 del 2012), alla quale (soltanto) il giudice è soggetto (art. 101, comma 2, Cost.). E’ in tal senso, pertanto, che la funzione assolta dalla giurisprudenza è di natura “dichiarativa”, giacché riferita ad una preesistente disposizione di legge, della quale è volta a riconoscere l’esistenza e l’effettiva portata, con esclusione di qualunque efficacia direttamente creativa” (Sez. U civ., n. 24413 del 09/09/2021, con numerosi richiami ad altre precedenti pronunce delle medesime Sezioni Unite civili).
Pertanto, per la Cassazione, quando la lettera della legge si oppone ad un’esegesi condotta secondo i canoni dell’interpretazione costituzionalmente conforme, il tentativo interpretativo deve pertanto cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale (Corte Cost., sent. n. 232 del 2013; Corte Cost., sent. n. 78 del 2012; Corte Cost., sent. n. 26 del 2010; Corte Cost. sent. n. 219/2008).
Ebbene, in applicazione di questi principi, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, non vi è spazio per una applicazione analogica o estensiva dell’art. 322-bis c.p.p. anche alle ordinanze in materia di sequestro probatorio; vi osta il chiaro tenore letterale della norma, tenuto conto altresì del fatto che l’indirizzo ermeneutico che ritiene applicabile, per analogia, l’art. 322-bis c.p.p. non è condivisibile, perché parte da una premessa non pertinente: l’identità degli effetti dei due tipi di sequestro, entrambi limitativi del diritto di proprietà a prescindere dalla causa (probatoria o cautelare) del provvedimento.
Orbene, per il Supremo Consesso, si tratta di un argomento che non convince perché non considera che la causa del provvedimento ha conseguenze notevoli sul regime processuale del provvedimento stesso, essendo sufficiente ricordare, al riguardo, che la possibile identità dell’oggetto del sequestro (il corpo del reato) non giustifica l’indifferenza del mezzo utilizzato per assicurarlo al processo.
L’apprensione del bene, quale effetto di entrambi i sequestri, probatorio e preventivo, invero, non è un dato qualificante; non si spiegherebbe, altrimenti, perché il codice di rito abbia previsto due figure di sequestro (cui si aggiunge quella del sequestro conservativo) distintamente modellate anzitutto in base ai presupposti tra loro diversi.
Tale argomento, inoltre, sempre per le Sezioni unite, non tiene in conto che proprio questa diversità di finalità e presupposti ha indotto il legislatore del 1991 ad adottare soluzioni processuali diverse, escludendo espressamente l’appellabilità delle ordinanze in materia di sequestro probatorio (né, del resto, il decreto di sequestro probatorio è immediatamente ricorribile per cassazione, diversamente dal decreto di sequestro preventivo secondo quanto previsto dall’art. 325, comma 2, c.p.p.).
A fronte di ciò, per la Suprema Corte, a non diversi rilievi si espone l’altro indirizzo che ritiene esportabile il modello decisorio delineato dall’art. 263 c.p.p. alla fase dell’udienza preliminare; moduli procedimentali omogenei (camera di consiglio partecipata in entrambi i casi, che si tratti di opposizione o invece di udienza preliminare) consentono, secondo questa tesi, soluzioni omogenee.
L’argomento, per la Corte, difatti, non è convincente perché in contrasto con il dato normativo: mentre il giudice dell’opposizione può fare a meno della presenza delle parti (sono sentite solo se compaiono: art. 127, comma 3, c.p.p.), il giudice dell’udienza preliminare non può prescinderne (essendo necessaria la presenza quantomeno del pubblico ministero e del difensore: art. 420 c.p.p.). L’opposizione, inoltre, sollecita un controllo postumo sulla decisione del pubblico ministero, essendo mezzo di impugnazione a differenza dell’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare.
Infine, l’opposizione presuppone l’esistenza di un provvedimento sulla sorte del bene sequestrato, mentre l’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare ne decide essa stessa la sorte.
Del resto, sotto altro, non meno importante, profilo, ben colto dall’opposto orientamento, la tesi della immediata ricorribilità per Cassazione delle ordinanze del giudice dell’udienza preliminare in materia di sequestro probatorio contrasta con il chiaro tenore testuale degli artt. 568, comma 2, 586, comma 3, c.p.p., e non è giustificabile nemmeno ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., che garantisce il ricorso per cassazione avverso le sole sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale, evidenziandosi, al riguardo, che Sez. 5, n. 33695 del 18/06/2009, richiama, a sostegno della propria decisione, il principio affermato da Sez. 1, n. 2958 del 06/07/1992, e Sez. 1, n. 2958 del 24/06/1992, per le quali l’ordinanza emessa dal giudice per le indagini preliminari in tema di proroga delle indagini è ricorribile per Cassazione anche nel caso che sia stata emessa “de plano” a norma dell’art. 406, comma 4, c.p.p., fermo restando però che queste due sentenze sono state però disattese da Sez. U, n. 17 del 06/11/1992, secondo cui, invece, l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari che decide sulla richiesta di proroga del termine per le indagini preliminari è inoppugnabile, non essendo esperibile avverso di essa neppure il ricorso per Cassazione, rilevandosi al contempo che le direttrici del ragionamento di Sez. U, n. 33695 del 18/06/2009, sono le seguenti: a) i provvedimenti impugnabili ed i mezzi attraverso cui può essere esercitato il diritto d’impugnazione sono soltanto quelli tassativamente fissati dalla legge; b) il rinvio all’art. 127 c.p.p. con la formula “secondo le forme previste“, o con altre equivalenti, riguarda le regole di svolgimento dell’udienza camerale, ma non implica, di per sé, la ricezione completa del modello procedimentale descritto in questa norma, ivi compreso il ricorso in sede di legittimità (tanto che per diverse disposizioni contenenti tale rinvio il legislatore ha avvertito l’esigenza di prevedere espressamente quel rimedio); c) l’esperibilità del ricorso per Cassazione deve essere desunta dall’espressione: “a norma dell’art. 127” che è, di sicuro, diversa e più ampia, sotto il profilo lessicale, rispetto alle altre che in vario modo rinviano alle sole “forme” dello stesso articolo, così da comprendere anche il suddetto rimedio previsto dal comma 7 della citata disposizione (di qui la dichiarata ricorribilità per Cassazione dell’ordinanza pronunciata dal giudice per le indagini preliminari ai sensi dell’art. 263, comma 5, c.p.p.); d) nel sistema del codice il regime delle impugnazioni si connette allo specifico contenuto del singolo tipo di provvedimento di volta in volta considerato, che il legislatore reputa, anche alla stregua dei principi costituzionali, come suscettibile, o meno, di gravame.
D’altronde, le posizioni soggettive dell’indagato (ma anche del pubblico ministero) non sono sempre tutelabili attraverso l’immediata proposizione del ricorso per cassazione, soprattutto quando l’ordinamento processuale predispone rimedi alternativi e differiti che, da un lato, non lasciano privi di tutela i legittimi interessi dell’imputato e le prerogative del pubblico ministero, dall’altro, garantiscono la snellezza della procedura e la speditezza del processo e così, per esempio, non impugnabile è stata ritenuta l’ordinanza pronunziata sulla richiesta d’incidente probatorio, nonostante che il provvedimento di rigetto incida sull’interesse dell’indagato istante in misura incomparabilmente maggiore dell’ordinanza concessiva della proroga delle indagini ed ancorché tale rigetto possa aver riflessi sulla libertà personale (Cass., I, 30 settembre 1991 n. 3460; Cass. I, 5 marzo 1991 n. 1113; Cass. I 1 febbraio 1990 n. 490), così come, ancora non ricorribile, secondo la giurisprudenza della Cassazione, è il decreto con il quale il giudice per le indagini preliminari proroga i termini delle indagini preliminari per l’espletamento dell’incidente probatorio, anche se tale proroga, nel caso previsto dall’art. 392, comma 2, c.p.p., possa prolungare i termini in misura anche rilevante (cfr. Cass., I, 20 marzo 1992, n. 1223).
Infine, è stata esclusa la proponibilità del ricorso anche contro il provvedimento con il quale il giudice delle indagini preliminari rigetta l’istanza del pubblico ministero di riaprire le indagini dopo la disposta archiviazione.
Infine, la tesi favorevole alla immediata ricorribilità per Cassazione non considera l’ulteriore, non secondaria, conseguenza di rendere possibile la “retrocessione” del processo in corso ad una fase ormai definita dato che l’accoglimento del ricorso per Cassazione determinerebbe il rinvio dell’ordinanza annullata al medesimo giudice che l’ha pronunciata (art. 623, lett. a, c.p.p.) il quale potrebbe aver già definito l’udienza preliminare con il rinvio a giudizio della persona imputata. Sicché, per il Supremo Consesso, a decidere della sorte di un bene sequestrato non sarebbe il giudice che procede (ben più titolato a verificarne l’effettiva e persistente utilità ai fini dell’accertamento del fatto), bensì il giudice della fase precedente il quale, tra l’altro, sarebbe chiamato a decidere sulla base di un quadro che ormai potrebbe essersi arricchito di ulteriori evenienze probatorie a lui ignote.
Resta, dunque, per le Sezioni unite, la soluzione della non immediata impugnabilità dell’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare che decide sulla richiesta di restituzione del bene sequestrato, trattandosi di una soluzione rispettosa del principio di tassatività e tipicità dei mezzi di impugnazione e del principio di legalità processuale espresso dall’art. 101, comma 2, Cost.
L’esigenza, avvertita dagli opposti orientamenti, di tutelare il diritto di proprietà (e di difenderla), invero, non giustifica la ricerca di rimedi processuali non espressamente previsti dall’ordinamento interno, e ciò per varie ragioni.
In primo luogo, nessuno dei due orientamenti spiega la ragione per la quale la decisione del giudice dell’udienza preliminare sulla restituzione del bene sequestrato può essere immediatamente impugnata (con appello “cautelare” o con ricorso per cassazione), mentre quella del giudice del dibattimento deve “sopportare” i tempi fisiologicamente più lunghi del processo, dovendo essere impugnata insieme con la sentenza (art. 586 c.p.p.).
In secondo luogo, la tutela del diritto di proprietà, riconosciuto e garantito dall’art. 42 Cost. e dall’art. 1, Prot. CEDU, non richiede necessariamente decisioni giudiziarie di “doppio livello” che nemmeno la Convenzione E.D.U. prevede.
L’art. 2, Prot. 7 CEDU, attribuisce a chiunque sia stato dichiarato colpevole da un Tribunale per un fatto-reato il diritto di far riesaminare la dichiarazione di colpevolezza o la condanna da un tribunale di una giurisdizione “superiore“.
Il diritto alla impugnazione riguarda esclusivamente la pronuncia di condanna per un fatto-reato, non la sorte del bene sequestrato.
Del resto, prima dell’introduzione dell’art. 2, Prot. 7, la CEDU non riconosceva il diritto al doppio grado di giudizio, né tale diritto poteva essere (o era mai stato) desunto dall’art. 5, p. 4, CEDU, che attribuisce alla persona privata della libertà personale il diritto di ricorrere al giudice del riesame, né dai principi in materia di equo processo stabiliti dall’art. 6, CEDU (Corte EDU, GC, 05/04/2018, Cubac c. Croazia; Corte EDU, Sez. 2, 05/05/2020, Madzarovic ed altri c. Montenegro; Corte EDU, Sez. 2, 11/01/2001, Platakou c. Grecia).
Quel che la CEDU impone è che venga garantita l’effettività del diritto (del proprietario) ad adire un giudice terzo, autonomo ed indipendente, e non anche alla impugnazione delle relative decisioni.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza), che pure tutela il diritto di proprietà (art. 17, inserito nel Capo II intitolato alle “Libertà”), non prevede nemmeno il diritto al secondo grado di giudizio.
In linea con l’insegnamento di Sez. U, n. 17 del 06/11/1992, cit., non necessariamente, né sempre, la legittimità della limitazione delle situazioni giuridiche soggettive attive incise dall’azione del pubblico ministero (diverse dalla libertà personale) impone verifiche giurisdizionali di immediato “doppio livello“.
Quel che conta, difatti, è che al titolare di tale situazione giuridica sia garantito il diritto di ricorrere al giudice, fermo restando che, nel caso di sequestro probatorio, tale diritto è assicurato dalla facoltà di chiedere il riesame, anche nel merito, del decreto che dispone il sequestro (art. 257 c.p.p.) o del decreto del pubblico ministero che convalida il sequestro operato di iniziativa dalla polizia giudiziaria (art. 355, comma 3, c.p.p.) e di impugnare, con ricorso per cassazione, il provvedimento del tribunale del riesame (art. 325, comma 1, c.p.p.) mentre, successivamente (o in alternativa alla richiesta di riesame), il diritto di adire il giudice è assicurato dalla facoltà di sollecitare, in ogni stato e grado del giudizio di merito e senza limitazioni, la verifica della persistente necessità di mantenere il sequestro a fini di prova (art. 262 c.p.p.), laddove, prima dell’esercizio dell’azione penale, tale facoltà può essere fatta valere nei modi previsti dall’art. 263, comma 5, c.p.p., e dopo può essere esercitata interloquendo direttamente con il giudice sulla necessità di mantenere il sequestro del corpo di reato o delle cose ad esso pertinenti a fini di prova dello specifico fatto oggetto di contestazione, trattandosi di valutazioni che il legislatore ha inteso riservare esclusivamente al giudice che procede, escludendo, una volta esercitata l’azione penale, l’impugnazione dell’ordinanza prima che il giudice si pronunci sul merito delle accuse, essendosi voluto evitare il rischio di conclusioni contrastanti circa l’utilità probatoria delle cose sequestrate, privilegiando quella del giudice chiamato a pronunciarsi sulla regiudicanda e assicurando, nel contempo, l’impugnazione “differita” dell’ordinanza insieme con la sentenza che definisce il grado del giudizio (art. 586 c.p.p.).
La mancata previsione della possibilità di impugnare il provvedimento del giudice dell’udienza preliminare che rigetta la richiesta di restituzione del bene sequestrato, per la Corte di legittimità, non è, perciò, contraria alla Costituzione, alla Convenzione EDU e alla Carta di Nizza, in quanto non priva l’interessato della facoltà di reiterare la richiesta nelle successive fasi del giudizio di merito.
Le Sezioni unite, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, formulavano il seguente principio di diritto: “”Il provvedimento del giudice dell’udienza preliminare di rigetto della richiesta di dissequestro di beni sottoposti a sequestro probatorio non è impugnabile dall’interessato”.
3. Conclusioni
La decisione in esame desta un certo interesse in quanto, con essa, le Sezioni unite forniscono una risposta al seguente quesito: “Se la decisione di rigetto della richiesta di dissequestro di beni sottoposti a sequestro probatorio, adottata dal giudice dell’udienza preliminare, sia impugnabile dall’interessato con ricorso per cassazione o appello ex art. 322 bis c.p.p.”.
Difatti, con questa pronuncia, le Sezioni unite affermano che nessuno dei due mezzi di impugnazione è esperibile in tale caso, avendo per l’appunto affermato, come appena visto, che il provvedimento del giudice dell’udienza preliminare di rigetto della richiesta di dissequestro di beni sottoposti a sequestro probatorio non è impugnabile dall’interessato.
Non è dunque possibile, per effetto di questo arresto giurisprudenziale, proporre appello o ricorso per Cassazione avverso il provvedimento del giudice dell’udienza preliminare di rigetto della richiesta di dissequestro di beni sottoposti a sequestro probatorio.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, di conseguenza, proprio perché fa chiarezza su siffatta tematica procedurale sotto il versante giurisprudenziale, non può che essere che positivo.
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