Il linguaggio giuridico  

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 Indice: 1. Introduzione; 2. Il confronto del pensiero kantiano con la moderna teoria linguistica: analogie e differenze; 3. Il diritto come linguaggio discorso: la soggettività giuridica, lo spazio terzo, la soggettività discorsiva; 4. Terzietà del nomos e trialità del logos; 5. Conclusioni

1.      Introduzione

La differenza uomo-animale, mai come nella storia europea è stata oggetto di teorizzazione; da qui, la questione dell’animalità ha condotto immancabilmente a cercare di risolvere il dilemma su quale sia la caratteristica che differenzia l’essere umano, da qualsiasi altro organismo vivente.

Nel corso dei secoli, la diversità si è concretizzata nella capacità logico-linguistica, di cui l’uomo sarebbe l’esclusivo e privilegiato destinatario. Infatti, il confine inaccessibile che delimiterebbe la disuguaglianza tra queste due creature è stato rilevato nella mancanza da parte dell’animale del logos, ovvero della sintesi di ragione e parola, la quale dimostrerebbe come la dignità apparterebbe puramente alla persona.

Mediante il logos, l’uomo, è in grado di scegliere se compiere il bene o il male; tale prospettiva, mette in luce un’ulteriore peculiarità, cioè il fatto di precisare un eventuale spazio di libertà tra le pulsioni che avvincono l’essere vivente e le azioni del vivente stesso. Soltanto nell’essere umano, si verifica una scissione tra impulso e condotta, poiché soltanto in lui, si esercita la funzione simbolica del logos, mediante la percezione della realtà, trasformandola in un universo linguistico, in cui possa operare l’attività dell’intelletto.

Per via della carenza organico-istintuale, egli deve ovviamente acquisire familiarità con il mondo, ossia tentare di appropriarsene, attraverso una visione simbolico- linguistica che gli consenta di utilizzare utilmente la natura affinché possa non vivere semplicemente, come gli altri esseri viventi, ma orientare la propria esistenza verso il domani.

2.      Il confronto del pensiero kantiano con la moderna teoria linguistica: analogie e differenze

L’uomo è definito come colui che «può avere l’Io nella sua rappresentazione», dove per io, Kant, intende l’io penso, l’unità della coscienza che rimane se stessa in tutte le sue modificazioni e l’unità dell’appercezione trascendentale che accompagna tutte le rappresentazioni:

«Il fatto che l’uomo possa rappresentarsi il proprio io lo eleva al di sopra di tutti gli esseri viventi sulla terra. Per questo egli è una persona e, in forza dell’unità di coscienza persistente attraverso tutte le alterazioni che possono toccarlo, egli è una sola e medesima persona, cioè un essere del tutto diverso, in grado e dignità, dalle cose, quali sono gli animali irragionevoli, dei quali si può disporre ad arbitrio; e tale è anche quando egli non può ancora dire io, perché lo ha nel pensiero: allo stesso modo tutte le lingue, quando parlano in prima persona, lo devono pensare, se anche non esprimano con una particolare parola questa proprietà dell’io. Ora tale facoltà di pensare è l’intelletto».

Il confronto del pensiero kantiano con la moderna teoria linguistica, sembrerebbe partire dall’ Io penso, nel momento in cui viene affermato che: «è nel linguaggio che il soggetto ha la sua origine e il luogo suo proprio e, il soggetto trascendentale non è altri che il locutore, e il pensiero moderno si è costruito su questa assunzione non dichiarata del soggetto quale fondamento dell’esperienza e della conoscenza».

Tuttavia, bisogna sottolineare la non sovrapponibilità del linguistico e del trascendentale. Innanzitutto «la lingua è un sistema di segni esprimenti delle idee», ma in quanto sistema di segni, il linguaggio si mostra come un sistema chiuso e autosufficiente e non come un rapporto di conoscenza trascendentale.

A ben vedere, però, il linguaggio stesso, si fonda su alcune forme generali che hanno una natura trascendentale, nel senso che costituiscono i modi di esplicazione della conoscenza umana; il concetto di oggetto, come quello di soggetto rientrano propriamente in tali strutture.

A tal proposito, Kant sottolinea che il più alto concetto di tutta la conoscenza umana è il concetto di un oggetto in generale. Attraverso il senso esterno, che è una proprietà della mente, l’individuo può rappresentare oggetti; ci si domanda, allora, se l’intuizione di questi, derivi dall’umano linguaggio, piuttosto che appartenere generalmente all’animo.

L’oggetto, infatti, è l’elemento formale, costituente la prima articolazione di una qualsiasi comunicazione. E’, al tempo stesso, elemento interno ed esterno alla relazione di conoscenza; interno poiché appartenente alla mente umana, ed esterno in quanto suscettibile di manifestazione.

La terza persona dell’enunciazione, «la sola mediante la quale un oggetto è espresso verbalmente», permette di creare il linguaggio, nel momento in cui, fra un emittente e ricevente, ovvero fra l’io e il tu, si pone un terzo componente: ciò di cui si parla. L’oggetto, non facendo parte del rapporto soggettivo, rimane perciò escluso dal dialogo; tuttavia, è proprio il rapporto del linguaggio col non-essere, con l’assente, che che riesce ad «instaurare una realtà immaginaria, animare le cose inerti, far vedere ciò che ancora non c’è, ricondurre qui, ciò che è scomparso». Quanto poi al costituirsi del soggetto, esso è in relazione reciproca al costituirsi dell’oggetto, e assume in Kant la forma di «Io penso», per indicare il fatto che, l’io nel momento in cui parla, esprime la sua universalità, il suo essere. Il modo in cui il soggetto particolare, ritrova in sé l’universale della norma, è quello della ragionevolezza. Attraverso esso, l’io empirico libera il proprio agire dalle sue inclinazioni per adeguarsi all’universale morale ovvero all’universalità dell’io noumenico.

In base a questo processo logico, l’azione viene astratta dalla volizione e concepita così, come tipica: il risultato è espresso dalla regola, la quale più che rappresentare la norma, rappresenta l’azione da essa astratta e tipicizzata. Una simile posizione, esige l’identificazione della formula normativa con la volontà in atto, quale legge intrinseca dell’azione e quindi, una distinzione tra legalità, ovvero la conformità del comportamento a un tipico schema, qualificante la regola come oggettiva, e moralità, cioè la corrispondenza di essa, alla legge interiore della ragion pratica. Come la regola, si traduce in norma e in concreta volizione, così il vocabolo diventa parola, grazie all’operosità del soggetto che riesce, mediante il processo espressivo, ad attuare la forma grafica o fonica in linguaggio.

3.      Il diritto come linguaggio discorso: la soggettività giuridica, lo spazio terzo, la soggettività discorsiva

Si evince, come «il diritto sia strutturato come il linguaggio-discorso», in quanto sia l’uno che l’altro sono caratteristiche proprie dell’essere umano. L’elemento accomunante tali tematiche, è rappresentato dalla soggettività giuridica, la quale, per essere rispettata, necessità di uno spazio terzo, il giuridico, che è in stretta connessione con la soggettività discorsiva, (poiché solamente attraverso la lingua si può pretendere di vedere garantita la pretesa giuridica), esprimendosi nella relazione interpersonale, garantita dall’Altro, ovvero dallo spazio pubblico, appartenente alla generalità degli uomini, dove il soggetto esiste nella «coesistenza disciplinata dalla terzietà del nomos».

La conoscenza del diritto e il diritto stesso necessitano dunque, della lingua.

E’, perciò possibile, interrogarsi sulla misura e i modi in cui essa serve ai bisogni della giurisprudenza. La prima somiglianza che giustifica il paragone del diritto con il linguaggio, è che il diritto positivo, al pari della lingua, è formazione autoctona e immediata e ha origine consuetudinaria nella comune coscienza del popolo. Per dirla con Savigny, il diritto è il risultato, il prodotto di un processo di formazione spontanea. «Il formarsi di sequenze linguistiche che conseguono la validità di forme autonome, può essere spiegato, ricorrendo all’analogia del sentiero: il sentiero nel bosco si forma perché prima uno, poi altri, lo hanno percorso e i passi hanno finito con segnarne la traccia: un’attività ha creato la sua forma».

Sia la consuetudine che la lingua parlata, in quanto iniziano con la formazione e la stabilizzazione delle pratiche, non sono in sé e per sé che dei fatti: fatti normativi, dai quali «oritur jus» e rispettivamente, l’insieme delle regole cui obbedisce il linguaggio.

La seconda somiglianza tra questo e il diritto, consiste nel fatto che per entrambi, alla prima fase di formazione spontanea, ne subentra un’ulteriore: quella di preparazione teoretica. Infatti, grazie all’attività di elaborazione intellettuale, il diritto consuetudinario diviene diritto conosciuto e amministrato dai giuristi, che come i grammatici, descrivono la vita del popolo, per l’ambito del quale essi sono esperti.

La concezione del diritto come linguaggio, comporta che, la scienza giuridica venga considerata il metalinguaggio del diritto. La giurisprudenza, infatti, nella sua parte più essenziale è un’analisi del linguaggio: il legislatore si esprime mediante le proposizioni normative.

Il linguaggio degli uomini a differenza di quello degli altri esseri viventi, è comunicazione, è possibilità di diventare discorso, animata da una continuo desiderio di giustizia. La filosofia non si esaurisce nell’acquisizione di conoscenze esaurienti ed esaustive, ma concerne la qualità ed il senso del relazionarsi dei soggetti parlanti in quanto tali ed in ciò diversi dai semplici viventi.

Il sistema giuridico non è riducibile, come nell’ambito di una teoria dei sistemi sociali, ad un sistema biologico, cioè di semplici viventi, privo quindi, di domande sul senso. La genealogia del diritto presenta il fenomeno diritto come incentrato sulla relazione giuridica, cioè sulla relazione di riconoscimento incondizionato ed universale tra gli uomini, relazione che supera quella di esclusione, basata quest’ultima sulla mera fattualità.

La relazione giuridica, infatti, lungi dall’annullare i termini della relazione l’uno nell’altro, ma, consente la reciprocità dell’incontro, ammettendo e preservando l’originalità e l’unicità, propria di ciascun individuo. Un’esistenza che volesse attuarsi come assoluta posizione dell’io, nel disconoscimento dell’alterità, non potrebbe che realizzarsi mediante una lotta per il dominio di un io su gli altri.

4.      Terzietà del nomos e trialità del logos

La temporalità che guida la relazione escludente non si riferisce a quella esistenziale dell’uomo bensì è connessa alla mera successione slegata dei momenti, ciascuno dei quali, è il risultato dello scontro tra le differenti forze in contrasto, e in quanto tale, pronto ad essere sostituito dalla medesima costituzione di un altro momento. Se al contrario, la temporalità propria dell’essere umano, fosse tale da riconoscere la differenza dell’altro, il momento della giuridicità diverrebbe essenziale, poiché ambirebbe al riconoscimento del carattere dell’universalità, intesa nel senso, appunto, della non esclusione.

Mentre il rapporto di esclusione è un rapporto duale, la relazione giuridica di riconoscimento si situa invece nell’ordine triale, retta dal terzo-Altro imparziale. Il diritto è strutturato come il linguaggio-discorso, poiché esso è specificato dalla terzietà, il nomos, così come il linguaggio-discorso è qualificato dalla trialità, ovvero il logos. Il rapporto duale di esclusione, incentrato sul volere-arbitrio degli altri, non è quindi regolato da alcuna garanzia giuridica terza, cioè non è salvaguardato dall’esercizio della pretesa giuridica.

La terzietà rappresenta il luogo del reciproco riconoscersi nell’ambito della formazione dell’identità esistenziale mediante l’alterità. Si evince, come la relazione giuridica non possa risultare dal comportamento del più forte in un ordine fattuale, altrimenti non sarebbe possibile distinguere la terzietà, propria del diritto, dalla dualità, caratterizzante, invece, le leggi degli esseri viventi non umani. L’io,decide continuamente chi essere e lo decide perché non si limita ad accadere, ma perché esistendo, contribuisce al progresso della storia.

L’uomo, manifestando la propria libertà, delibera e di conseguenza diviene soggetto a responsabilità.

In Kant, contenuto e volontà dell’obbligazione coincidono; l’obbligazione sorge dalla legislazione autonoma della ragione, ma questo significa che la legislazione razionale a priori è decisionistica, nella misura in cui, non è né soggetta a interessi esterni, né vincolata a motivi, ad essa esterni. E’ tautologica, poiché non è nient’altro che autorizzazione di sé, da parte della ragione.

Nel momento in cui la ragione autorizza se stessa e agisce come fonte di obbligazione in senso teoretico, e autorità morale, essa fa il suo ingresso nel mondo come normativa. La legislazione della ragione si esaurisce, poi, in un’unica regola selettiva, che opera col criterio formale della legge, quindi dell’ universalizzabilità.

A questo punto, diviene indispensabile, una spinta esterna alla ragione per distinguere i due ambiti di competenza, nell’attività legislatrice della ragione. Per Kant, tale motivo rappresenta il problema di fondare la coazione. Allorché la regola di selezione, funge da principio per la conoscenza dell’applicazione moralmente ammissibile di coazione, essa assume la forma di un principio giuridico.

Legittime quindi, sono le azioni coattive quando servono alle conseguenze di azioni che, con l’ausilio del principio giuridico, sono riconosciute necessarie, quindi come dovere giuridico. La coazione, deve legittimarsi come condizione per l’adempimento della legge giuridica. Quest’ultima, è una versione dell’imperativo categorico, specializzato nella fondazione di doveri esigibili con la forza. Mentre nella sua forma morale, essa esige che si agisca secondo massime, che possono essere volute in pari tempo con la loro validità di leggi, nella sua forma giuridica essa diventa principio di ciò che è giusto.

5.      Conclusioni

Il campo di applicazione del concetto di diritto, che si palesa in tale principio, si forma attraverso le relazioni pratiche fra gli uomini; infatti, l’uomo soggetto alla legge giuridica è l’essere sociale razionale, che vive con i propri simili nello spazio e nel tempo, entrando con essi in relazioni esterne.

Nell’ambito della legge positiva quindi, rientra esclusivamente il rapporto reciproco della libertà di azione, mentre rimane escluso dal suo controllo quello relativo ai pensieri, disposizioni d’animo, interessi. Secondo Kant, difatti, una comunità giuridica non è una collettività solidale di bisognosi, ma una umanità che ha facoltà di agire, e di provvedere alla propria protezione.

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Silvia Cortellessa

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