Contratti nell’emergenza: il principio di conservazione dei loro effetti

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Il termine emergenza richiama eventi improvvisi e imprevedibili, a carattere tendenzialmente transitorio, che mettono a repentaglio l’intero assetto sociale e, pertanto, richiedono un intervento immediato e straordinario. A seguito della proclamazione dell’emergenza si procede alla modifica dello “stato di diritto” in “stato d’eccezione” secondo il quale alcune delle libertà fondamentali possono essere limitate. A risentirne è soprattutto la contrattazione delle imprese. La crisi pandemica ha provocato una riduzione di uomini e mezzi nelle imprese, ed ha causato in molte di esse difficoltà economiche e finanziarie per far sì che queste potessero adempiere le loro obbligazioni mantenendo in vita i rapporti contrattuali instaurati. Da notare come il Covid 19 si pone come causa di forza maggiore che sperequa la prestazione contrattuale: la forza maggiore è un evento non dominabile dall’autonomia negoziale delle parti, che non potevano ragionevolmente prevederla al momento della conclusione del contratto. Da valutare caso per caso se l’adempimento delle misure governative di contenimento del virus sia qualificabile come causa non imputabile al debitore, come impossibilità della prestazione o come eccessiva onerosità sopravvenuta e quindi se possa scusare l’inadempimento contrattuale.

Indice

1. I tradizionali rimedi civilistici contrattuali: l’art 1218 c.c.


Sul punto, giova evidenziare che l’inadempimento contrattuale, ai sensi dell’art. 1218 c.c., è costituito dalla mancata esecuzione di una prestazione qualora sia carente, da parte, dell’obbligato, l’impegno di diligenza e di cooperazione richiesto, secondo il tipo di rapporto obbligatorio, per la realizzazione dell’interesse del creditore, ciò nel presupposto che la prestazione sia soggettivamente possibile. In buona sostanza, la difficoltà nell’adempimento non impedisce la prestazione, con conseguente liberazione del debitore, ma costituisce soltanto un ostacolo che il debitore è tenuto a superare con la dovuta diligenza. In sintesi, dunque, l’art. 1218 c.c. è strutturato in modo da porre a carico del debitore, per il solo fatto dell’inadempimento, una presunzione di colpa iuris tantum, superabile mediante la prova dello specifico inadempimento che abbia reso impossibile la prestazione o almeno la dimostrazione che, qualunque sia stata la causa dell’impossibilità, la medesima non possa essere imputabile al debitore.


In proposito leggi anche: Instabilità dei contratti: i problemi legati a pandemia e guerra

2. L’impossibilità della prestazione


In materia di inadempimento contrattuale, non può non rilevarsi che, ai sensi dell’art. 1256 c.c., l’obbligazione si estingue quando, per causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa “impossibile”; se tale impossibilità è solo temporanea, inoltre, il debitore, nelle more della stessa, non è responsabile del ritardo nell’adempimento. La liberazione del debitore per sopravvenuta impossibilità della prestazione, dunque, può verificarsi – ai sensi dell’art. 1256 c.c. – solo se ed in quanto concorrano l’elemento obiettivo della impossibilità di eseguire la prestazione medesima, in sé considerata, e quello soggettivo dell’assenza di colpa da parte del debitore riguardo alla determinazione dell’evento che ha reso impossibile la prestazione. Tra le cause invocabili ai fini della richiamata “impossibilità della prestazione”, rientrano – per quanto qui di interesse – gli ordini o i divieti sopravvenuti dell’autorità amministrativa c.d. “factum principis”: si tratta, in concreto, di provvedimenti legislativi o amministrativi, dettati da interessi generali, che rendano impossibile la prestazione, indipendentemente dal comportamento dell’obbligato. In sintesi, trattasi di circostanza che funge da esimente della responsabilità del debitore a prescindere dalle previsioni contrattuali in essere. Nell’ipotesi, invece, di impossibilità temporanea, l’art. 1256 c.c. si limita ad escludere, finché detta impossibilità perdura, la responsabilità del debitore per il ritardo nell’adempimento. Pertanto, in via generale, il debitore, cessata la suddetta impossibilità, deve sempre eseguire la prestazione, indipendentemente da un suo diverso interesse economico che può, eventualmente, far valere sotto il profilo dell’eccessiva onerosità sopravvenuta.

3. L’eccesiva onerosità sopravvenuta della prestazione


L’impossibilità della prestazione va ben distinta dall’eccessiva onerosità sopravvenuta. Quest’ultima, in estrema sintesi, non impedisce la prestazione, ma la rende più “onerosa”, consentendo al debitore di chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione della prestazione. Va da sé, dunque, che la domanda di risoluzione di un contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione deve essere corredata dalla rigorosa prova del fatto la cui sopravvenienza abbia «determinato una sostanziale alterazione delle condizioni del negozio originariamente convenuto tra le parti e della riconducibilità di tale alterazione a circostanze assolutamente imprevedibili. Sembra che le pur pregevoli osservazioni che sino ad ora sono state svolte dalla dottrina, con riferimento al fenomeno della pandemia in rapporto alla disciplina dei contratti e delle obbligazioni, non possano ritenersi esaustive in quanto è stato dato sinora scarso rilievo al fenomeno dei contratti conclusi durante la pandemia e finalizzati al reperimento, ad esempio, di misure di protezione dal contagio (mascherine, guanti, gel disinfettante, servizi di sanificazione …)  stipulati a condizioni inique ovvero disattendendo palesemente le aspettative dei consumatori che intendevano acquisire dispositivi di sicurezza in grado di prevenire il rischio del contagio e che in molti casi si sono rivelati assolutamente inidonei all’uso ipotizzato. La dottrina ha infatti ben evidenziato come l’iniquità delle condizioni del contratto possa essere ravvisata non solo sotto il profilo quantitativo, come sembra ovvio, ma anche qualitativo avuto riferimento perciò alla piena idoneità funzionale dei beni e servizi acquistati con riferimento all’uso che la parte vuol ritrarre da essi. È preliminarmente opportuno a questo punto spendere qualche istante per cogliere il significato del concetto di “iniquità” del contratto. L’azione di rescissione, pertanto, insieme all’azione di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta costituiscono nel nostro ordinamento i principali istituti equitativi che consentono di evocare, in un certo qual senso, il concetto di giustizia contrattuale. Del secondo istituto la dottrina ha avuto modo di evidenziarne l’utilità al fine di consentire l’individuazione delle tecniche di tutela dei contraenti al tempo della pandemia, seppur limitatamente ai problemi connessi ai contratti preesistenti all’insorgere del contagio. Del primo istituto credo che sia opportuno fare una analisi sintetica al fine di verificarne l’idoneità a porsi tra gli istituti invocabili a tutela del contraente che abbia stipulato un contratto a condizioni inique, al fine di salvare sé stesso o i suoi congiunti dal pericolo di infezione virale ovvero per soddisfare i propri bisogni economici comunque finalizzati a reperire liquidità da utilizzare sempre per acquisire dispositivi di sicurezza o farmaci efficaci per la lotta contro il coronavirus. In presenza di una situazione attuale di pericolo di danno grave alla persona, infatti, una parte può essere indotta da una forte pressione psicologica a contrarre al fine di salvare sé od altri da tale minaccia anche a condizioni svantaggiose. Riterrei infatti che sia il caso di prendere in considerazione anche la possibilità che siano stati posti in essere contratti di alienazione di beni al fine di ottenere liquidità per l’acquisto di beni e servizi direttamente volti a procurare alla parte dispositivi di sicurezza della più varia natura al fine di preservare sé e i propri congiunti dal rischio di contagio.

4. La via della rinegoziazione


Dopo avere analizzato i recenti interventi emergenziali e i tradizionali rimedi codicistici, osserviamo come anche la corte di Cassazione in una sua brillante relazione tematica compie un deciso endorsement in favore della rinegoziazione quale soluzione ottimale per il riequilibrio dei rapporti commerciali a seguito della sopravvenienza pandemica, sancendo l’esistenza di un dovere di rinegoziazione in capo alla parte avvantaggiata basato sul principio di buona fede oggettiva. Molto si parla, nei tempi di quest’emergenza, della rinegoziazione dei contratti pendenti. Il tema, può dirsi, rappresenta uno dei crocevia del dibattito che la pandemia è venuta a innescare. Comunemente si segnala la diffusa esigenza di una simile operatività; taluni (pur pochi) ne affermano la positiva esistenza in termini di «obbligo»; frequente, in ogni caso, è il giudizio di opportunità di una soluzione orientata in tal senso. Altri si spinge sino a designarla come la «strada maestra per salvaguardare il rapporto». La rinegoziazione sembra spiccatamente vocata a condurre verso una prosecuzione del rapporto, con ridefinizione appunto del relativo programma negoziale (per misura delle prestazioni e magari anche per oggetto; sui tempi dell’adempimento; per le garanzie; le clausole penali; ecc.). Si tratta, comunque, di un rimedio da ascrivere al genere di quelli di sostanza correttiva: nel minimo, quanto a una conveniente modulazione dei termini di uscita dal contratto. Rinegoziare significa impegnarsi a porre in essere tutti quegli atti che, avuto riguardo alle circostanze, possono concretamente permettere alle parti di accordarsi sulle condizioni dell’adeguamento del contratto, alla luce non di modificazioni arbitrarie, ma di quelle di cui il mercato di riferimento fa ostensione come congrue. I criteri attraverso i quali apprezzare il comportamento delle parti, nel corso delle trattative destinate alla rinegoziazione del contratto, sono anche in quest’occasione rappresentati dalla clausola generale di buona fede (art. 1175 e 1375 c.c.), che non è regola sul contenuto ma giustappunto sulla condotta. Qualora si ravvisi in capo alle parti l’obbligo di rinegoziare il rapporto squilibrato, si potrebbe ipotizzare che il mancato adempimento di esso non comporti solo il ristoro del danno, ma si esponga all’esecuzione specifica ex art. 2932 c.c.. Al giudice andrebbe riconosciuto il potere di sostituirsi alle parti pronunciando una sentenza che tenga luogo dell’accordo di rinegoziazione non concluso, determinando in tal modo la modifica del contratto originario. L’obbligo di rinegoziare è un obbligo di contrarre le modifiche del contratto primigenio suggerite da ragionevolezza e buona fede; la parte che per inadempimento dell’altra non ottiene il contratto modificativo, cui ha diritto, può chiedere al giudice che lo costituisca con sua sentenza.

5. La tutela del compratore di dispositivi inidonei: vizi redibitori, mancanza di qualità e aliud pro alio


In caso di compravendita di un dispositivo di sicurezza finalizzato ad evitare il contagio da Covid-19, che si riveli inidoneo all’uso, sarà senz’altro possibile per l’acquirente invocare le garanzie per i vizi redibitori e la mancanza di qualità, le cui azioni sono soggette ai termini di prescrizione e decadenza di cui all’art. 1495 cod. civ.. Il primo comma dell’art. 1490 c.c., precisa che “il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all’uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore”.  Il vizio redibitorio consiste, pertanto in una anomalia strutturale del bene che incide sulla sua utilizzabilità o sul suo valore. La prima ipotesi descritta dalla norma riguarda i vizi che rendono la cosa assolutamente inidonea all’uso cui è destinata; la seconda riguarda i vizi che rendono il bene meno idoneo all’uso o, che, pur non incidendo sulla idoneità all’uso, ne diminuiscono il valore. La giurisprudenza della Corte di Cassazione è costante nel ritenere che si ha vizio redibitorio qualora la cosa consegnata al compratore presenti imperfezioni concernenti il processo di produzione o di fabbricazione che la rendano inidonea all’uso cui dovrebbe essere destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore. Accanto al vizio redibitorio, il codice individua altre ipotesi di anomalia del bene venduto consistenti nella mancanza di qualità essenziali e nella mancanza di qualità promesse, per l’uso cui esso è destinato, la cui disciplina è contenuta nell’art. 1497 c.c.; in tali casi il compratore ha diritto di ottenere la risoluzione del contratto secondo le disposizioni generali sulla risoluzione per inadempimento sempre che il difetto di qualità ecceda i limiti di tolleranza stabiliti dagli usi. In giurisprudenza si è sostenuto che la mancanza di qualità si differenzia dal vizio redibitorio in quanto, pur presupponendo – come quest’ultimo –l’appartenenza della cosa al genere pattuito, è inerente alla natura della merce e concerne tutti quegli elementi essenziali e sostanziali che, nell’ambito del medesimo genere, influiscono sulla classificazione della cosa in una specie, piuttosto che in un’altra. La mancanza di qualità è quindi la mancanza di particolari perfezionamenti che rendono la cosa idonea all’uso cui è destinata. La Cassazione al fine di rafforzare la tutela del compratore nei casi più gravi di inadempimento, anche al fine di svincolarlo dai brevi termini di decadenza e di prescrizione previsti dagli artt. 1495 e 1497 c.c. per i vizi e la mancanza di qualità, individua l’aliud pro alio che ricorre quando la cosa venduta non sia semplicemente difettosa od imperfetta, ma sia completamente diversa da quella dedotta in contratto, tanto da appartenere ad un genere merceologico differente (Cass. n. 1038/1998). In tale caso l’azione che compete al compratore è l’azione di adempimento o di risoluzione ex art. 1453 c.c., soggetta alla ordinaria prescrizione decennale, posto che l’aliud pro alio esula dalla garanzia redibitoria, configurandosi come una violazione dell’obbligazione principale del venditore che è quella di consegnare la cosa venduta. La S.C., in proposito, è infatti costante nel sostenere che la consegna di aliud pro alio “dà luogo all’azione contrattuale di risoluzione o di adempimento ai sensi dell’art. 1453 c.c., svincolata dai termini di decadenza e prescrizione previsti dall’art. 1495 c.

6. La Cassazione e la necessità di conservazione degli effetti in emergenza


La Cassazione passa in rassegna le varie opzioni, dalla risoluzione del contratto fino alla opposta conservazione tramite la rinegoziazione delle sue clausole.
Abbiamo visto come la pandemia e la guerra siano cause di forza maggiore che sperequano la prestazione contrattuale di una delle parti a vantaggio dell’altra. La forza maggiore è un evento straordinario e imprevedibile, che le parti del contratto non potevano prevedere al momento della sua conclusione. Ma è giusto fare una riflessione sui contatti squilibrati dalla pandemia e dalla guerra, per approdare alla conclusione che i rimedi codicistici e di natura legale non sono idonei a mantenere in vita gli effetti dei contratti commerciali, arrecando danno alla parte interessata. La risoluzione contrattuale non è e non deve essere l’unica via percorribile per i contratti delle imprese nelle emergenze. Esploriamo in questo articolo l’esigenza conservativa del contratto, dopo aver fatto un’analisi dei vari istituti codicistici e legali applicabili in tempo di pandemia, e anche in tempo di guerra.

7. La relazione tematica della Cassazione in merito alla conservazione effetti del contratto


Nella Relazione 8 luglio 2020, n. 56 (testo in calce) avente ad oggetto “Novità normative sostanziali del diritto ‘emergenziale’ anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale” la Corte di Cassazione ha affrontato, con riferimento ai contratti sinallagmatici, le seguenti due questioni:

  1. la gestione delle sopravvenienze perturbative dell’equilibrio originario delle prestazioni contrattuali;
  2. la scelta dei rimedi di natura legale e convenzionale.

E qui, sul piano dei mezzi regolati dalla disciplina codicistica dei contratti, si parte dalla risoluzione per impossibilità sopravvenuta” (art. 1463 c.c.), inquadrata come uno spazio stretto, poiché fruibile soltanto quando l’emergenza epidemiologica abbia reso o renda la prestazione contrattuale completamente e definitivamente ineseguibile o inottenibile.
D’altronde, ove l’impossibilità sia temporanea, assume rilievo l’art. 1256, comma 2, c.c., per il quale il debitore non è responsabile del ritardo per il tempo in cui la prestazione è impossibile, ma “l’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla”.
In entrambe le fattispecie, sempre in base all’art. 1463, “la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta”.
Poi v’è l’ipotesi della prestazione solo parzialmente o provvisoriamente impossibile, ove entra in gioco l’art. 1464 c.c. e per la quale il contratto non si risolve, ma la parte in difficoltà ha a disposizione tre opzioni:

  1. ha diritto ad una corrispondente riduzione della propria prestazione;
  2. può recedere dal contratto quando non abbia interesse all’adempimento parziale;
  3. in ogni caso, a fronte della prestazione temporaneamente impossibile, può sospendere l’esecuzione della propria.

Ecco allora che si esaminano l’enorme sull’eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.), per le quali “l’alterazione del nesso di interdipendenza anche economica fra le prestazioni, collegata alla comparsa delle sopravvenienze, ossia di avvenimenti straordinari e imprevedibili, trova la sua tradizionale stanza di compensazione sistemica nell’istituto della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta”. L’aggravamento è “nella maturata sproporzione tra i valori delle prestazioni, nel senso che l’una non trovi più sufficiente remunerazione in quella corrispettiva” e la sua caratteristica di fondo è l’eccezionalità in quanto legata ad un “evento esterno alle parti contrattuali, straordinario sul piano oggettivo, impronosticabile e inevitabile su quello soggettivo.
Per la Suprema Corte, le conseguenze della crisi hanno finito/finiscono per riportare nei casi concreti tratti di straordinarietà, imprevedibilità e inevitabilità tanto marcati ed eloquenti da legittimare la parte pregiudicata ad agire in giudizio per la risoluzione del contratto squilibrato, sia per l’inusuale aumento di una o più voci di costo della prestazione da eseguire (c.d. “eccessiva onerosità diretta”), che per la speciale diminuzione di valore reale della prestazione da ricevere (c.d.“eccessiva onerosità indiretta”).
E qui una prima ipotesi di esigenza conservativa del contratto,. Infatti, sarà soltanto la parte favorita dallo sbilanciamento a poter evitare la risoluzione del contratto, proponendo la modifica delle sue clausole o condizioni, esattamente come previsto dal comma 3 dell’art. 1467 c.c.
Si giunge quindi alla terza fattispecie di risoluzione, che è quella per inadempimento. Osserva la S.C. che nella cascata normativa attivata dalla pandemia – eccezion fatta per le norme di autorizzazione alla sospensione dei mutui – non compaiono disposizioni aventi ad oggetto l’impossibilità strettamente finanziaria di adempiere e il mancato o tardivo pagamento di somme dovute rimane, allo stato, e in linea di principio, ingiustificato e imputabile. “Pur nel quadro costituzionale del principio solidaristico – afferma la Corte -, il concetto di impossibilità della prestazione non ricomprende, infatti, la c.d. impotenza finanziaria, per quanto determinata dalla causa di forza maggiore in cui si compendia l’attuale emergenza sanitaria. Il principio non scalfito rimane quello che nega all’impotenza in questione, sebbene incolpevole, una vis liberatoria del debitore dall’obbligazione pecuniaria. Non può esservi impossibilità oggettiva e assoluta di procurarsi il denaro per adempiere, essendo il denaro un bene generico e imperituro (genus numquam perit)”.
Quanto all’art. 91, comma 1, del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito in L. 27 del 24 aprile 2020, viene osservato che resta al debitore l’onere di dimostrare che è stato proprio l’ossequio alle misure di contenimento ad avergli impedito di eseguire la prestazione e così il nesso causale fra rispetto delle misure e inadempimento va provato e contestualizzato. Il debitore, in linea con la previsione dell’art. 1218 c.c., deve offrire la prova circostanziata del collegamento eziologico fra inadempimento e causa impossibilitante rappresentata dal rispetto delle prescrizioni di contenimento dell’epidemia (e solo lui può farlo, in virtù del ben noto principio di vicinanza della prova).
Allora la riflessione della S.C. torna sull’art. 1467 c.c. quale norma dimostrativa del privilegio accordato dall’ordinamento alla conservazione del contratto mediante revisione (vedansi anche, senza pretesa di esaustività, l’art. 1664, comma 1 e 1623 c.c.), rispetto alla caducazione del rapporto negoziale. Non è accidentale, infatti, che la richiesta di riconduzione ad equità del contratto abbia l’effetto di vanificare la domanda di risoluzione eventualmente proposta dalla parte onerata da sopravvenienze.
Si giunge così al tema della revisione o rinegoziazione del contratto squilibrato. Quando i contraenti non concordano le modalità di gestione delle sopravvenienze, il problema è individuare la base legale su cui, se del caso, fondare l’obbligo di rinegoziazione. Nella “Relazione tematica” n. 56, dededicata alle novità normative e “sostanziali” del diritto “emergenziale” anti- Covid 19, la Corte di Cassazione osserva che nel nostro sistema codicistico, gli artt. 1175 e 1375 c.c., in tema di obbligazioni e di effetti del contratto, impongono alle parti il rispetto dei principi di correttezza e di buona fede i quali, secondo il ragionamento della Corte, rappresentano un importante metro di approccio alle problematiche correlate all’esecuzione del contratto, in situazioni emergenziali come quella legata al Covid-19.
Proprio la portata sistematica del principio della buona fede oggettiva, previsto nella fase esecutiva del contratto (ex art. 1375 c.c.) può assumere, infatti, assoluta centralità in casi in cui sopravvengono situazioni imprevedibili che minano l’esecuzione contrattuale, postulando l’istituto della rinegoziazione come necessaria.
In tal senso, seguendo il principio della buona fede nell’esecuzione contrattuale e collegandolo, prosegue la Corte di Cassazione, al fondamentale principio di “solidarietà sociale ed economica” previsto dall’art. 2 della Costituzione, la rinegoziazione potrà divenire un passaggio obbligato, con la conseguenza che chi si sottrae all’obbligo di ridiscutere le condizioni contrattuali può commettere una violazione del bilanciamento contrattuale, stigmatizzabile sotto il profilo sanzionatorio.
In tal caso, la soluzione suggerita dalla Corte di Cassazione, allorchè una delle parti rifiuti di rinegoziare il contratto, è non solo quella della richiesta di risarcimento del danno per il mancato rispetto della buona fede contrattuale, bensì anche quella della richiesta di esecuzione specifica ex art. 2932 c.c., con la conseguente possibilità per il Giudice di “sostituirsi alle parti pronunciando una sentenza che tenga conto dell’accordo di rinegoziazione non concluso”.

Note

  1. [1]

    Rivista Biodiritto “Brevi riflessioni su stato d’emergenza e Stato Costituzionale, 20/03/2020, Roberto Ravì Pinto.

  2. [2]

    Altalex,”Coronavirus e inadempimento contrattuale”, Gianluigi Delle Cave, 28/02/2020

  3. [3]

    www.euromerci.it, “ L’impatto del Coronavirus su contratti di logistica e trasporti”, 19/03/2020

  4. [4]

    Rivista 4clegal.com, “I possibili effetti della dichiarazione della pandemia sui contratti”, 18/03/2020, Marisa Meroni

  5. [5]

    Rivista Judicium, “Le tutele civilistiche previste per i contratti stipulati a condizioni inique a causa della diffusione del Coronavirus”,09/05/2020, Enrico Damiani

  6. [6]

    Rivista Quotidianogiuridico.it, “L’impatto del Covid sui contratti commerciali: la Cassazione promuove la rinegoziazione obbligatoria”, 18/09/2020, Avv. Pandolfini Valerio

  7. [7]

    www.cortedicassazione.it, “Relazione tematica n. 56/2020 – Corte di Cassazione”, 08/07/2020,

  8. [8]

    Rivista Diritto Bancario.it,  “I principi della Cassazione sulle novità del diritto “emergenziale” anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale”, 23/09/2020,Alberto Mager, Sara Addamo, Federica De Gottardo, Carolina Gentile, Benedetta Bonfanti.

  9. [9]

    www.ntcm.it “L’impatto del Coronavirus sui contratti commerciali soggetti a legge italiana; gli ultimi orientamenti della Cassazione”, 05/08/2020.

  10. [10]

    Rivista Diritto.it, “I sistemi di rinegoziazione ai tempi del Coronavirus tra autonomia contrattuale, aiuti di Stato e solidarietà, di Sonia Sasso, Dott.ssa, 8 aprile 2020

  11. [11]

    Chiarella, “Solidarietà necessaria: erogazioni liberali nell’emergenza epidemiologica da covid-19”, in giustiziacivile.com, 1° aprile 2020.  

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Valerio Carlesimo

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