Delitto di tentato omicidio aggravato: la Cassazione fa il punto.

Scarica PDF Stampa

Risponde di tentato omicidio aggravato colui che, con atti idonei ed univoci provi a cagionare la morte della vittima, profittando di qualunque circostanza, sia essa casuale o provocata, che in qualche modo possa facilitare la realizzazione dell’evento criminoso.

Ad affermarlo sono i giudici della I Sezione Penale della Cassazione, con sentenza depositata lo scorso 8 dicembre 2014.

In vero la Suprema Corte, allineandosi al tradizionale orientamento più volte espresso dalla stessa giurisprudenza di legittimità, ha confermato che «la struttura normativa del tentativo è contraddistinta da due elementi: l’idoneità e l’univocità della condotta, laddove l’idoneità indica un requisito di capacità causale di produrre il risultato del perfezionamento del delitto ed il requisito dell’univocità degli atti attiene al proposito dell’agente soggettivamente diretto alla realizzazione del delitto, ma in senso oggettivo, nel senso che la condotta deve aver raggiunto un grado di sviluppo tale da renderla sufficientemente prossima al momento consumativo (Sez. I, 10.1.2014, n. 9284)».

La vicenda sottesa alla sentenza in commento può essere così sintetizzata:

Con sentenza del 16.7.2013 la Corte d’appello di Reggio Calabria, in riforma della sentenza del G.U.P. del Tribunale di Palmi, escludeva l’aggravante della premeditazione e riaffermazione di colpevolezza di due imputati, marito e moglie, in ordine al reato di tentato omicidio loro addebitato, riducendo così, la pena ad anni cinque e mesi quattro di reclusione ciascuno.

Ebbene, la Corte distrettuale ricordava che la vittima, nuora dei due imputati, risultava essere stata accoltellata dal primo, -per sua stessa ammissione – con un coltello da cucina, all’interno del garage della comune abitazione. Nella specie, l’uomo aveva affermato di averla attesa, di aver approfittato di una sua distrazione nell’attimo in cui la donna si accingeva a riporre per terra una cesta di verdura trasportata sulla sua auto e di averla colpita alla spalla.

Sul luogo del delitto, al momento del fatto, era presente anche la moglie dell’imputato, che nel frattempo, aveva tenuto, con una mano, la porta chiusa per non far scappare la donna e con l’altra l’aveva trattenuta per non farla sottrarre alla presa del marito, che incitava ad ammazzarla.

La Corte condivideva la ricostruzione dei fatti operata dai primi giudici e concludeva nel senso che il tentato omicidio era stato commesso in concorso tra loro dai due imputati, i quali avevano agito in sintonia, animati da un comune intento vendicativo nei confronti della nuora.

La condotta veniva, così, ritenuta integrativa del tentato omicidio, considerati il tipo di arma usata, la zona attinta, la distanza ravvicinata da cui la donna veniva colpita. Indici tutti questi senza dubbio indicativi dell’idoneità dell’azione e della sua univocità. L’azione – aggiungevano i giudici d’appello – doveva «ritenersi inequivocabilmente diretta a cagionare la morte, tanto più a fronte dell’invito che la donna avrebbe rivolto al marito di ammazzare la giovane nuora e degli sforzi dalla stessa compiuti per immobilizzarla». Al contrario, era da escludersi «portata dirimente in senso difensivo al fatto che fosse stato vibrato un solo colpo, poiché dopo il colpo andato a segno, all’aggressore cadde il coltello, cosicché non riuscì a vibrare altri colpi e nel frattempo la vittima si sottrasse agli aggressori». Doveva, peraltro, «ritenersi sussistente l’aggravante dell’aver approfittato di circostanze che limitavano la difesa, visto che i due imputati aspettarono la vittima, al buio, dietro la porta del garage e la colpirono nel momento in cui la stessa era chinata per riporre a terra una cesta di ortaggi, a sorpresa».

Ebbene, avverso tale decisione, proponevano ricorso per cassazione i due imputati con un unico ricorso, lamentando in primo luogo, violazione degli artt. 56-575 cod.pen., per aver cioè ricondotto l’azione compiuta al tentativo di omicidio, considerato che si trattò di un unico colpo inferto, che non vi fu pericolo di vita e che gli esiti della coltellata furono rapidamente superati e che il l’aggressore ebbe ad affermare di aver voluto impartire una lezione alla nuora, ma di non aver mai pensato di ucciderla, nonché violazione dell’art. 62 n. 2 cod.pen., per non aver – i giudici di merito – concesso la circostanza attenuante della provocazione.

La Cassazione, in verità, come già anticipato, pronunciava confermando tutto quanto già statuito dai giudici di merito, nella sentenza impugnata. «Ad opinare diversamente – dicevano – non può portarsi né il fatto che la morte non sia conseguita (visto che la valutazione che deve essere compiuta, in tema di delitto tentato non può essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti), né il fatto che fosse stato inferto un solo colpo, atteso che sul punto, come correttamente sottolineato dalla corte territoriale, l’imputato, si trovò nell’impossibilità di reiterare i colpi perché gli cadde il coltello, il che porta necessariamente a ravvisare l’atteggiamento psicologico di chi abbia accettato di provocare l’evento letale, considerato che la condotta tenuta aveva l’elevatissima probabilità di cagionare la morte. Ragion per cui il titolare di simile condotta deve rispondere di tentato omicidio a titolo di dolo diretto».

Non solo. «Anche il motivo con cui la difesa lamenta la mancata concessione della circostanza attenuante della provocazione non è fondato. Deve infatti essere ricordato che per ravvisare detta attenuante, occorrono: a) lo “stato d’ira”, costituito da un’alterazione emotiva determinata dal “fatto ingiusto altrui”; b) il “fatto ingiusto altrui”, che deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità personale; c) un rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità tra l’offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse, sempre che sia riscontrabile una qualche adeguatezza tra l’una e l’altra condotta».

«Quanto, invece, all’aggravante della minorata difesa, deve essere sottolineato – aggiungevano i giudici della Corte – (…) che l’aggravante, in parola, è stata correttamente ritenuta, non essendo stata ancorata al dato delle condizioni di oscurità del garage, quanto piuttosto al fatto che l’aggressore sfruttò, per agire proditoriamente, l’attimo in cui la donna aveva le mani impegnate, era di schiena, intenta nello sforzo di sollevare dal cofano dell’auto una cesta di ortaggi per riporla nel garage. Sul punto si deve ricordare che secondo l’orientamento di questa Corte l’aggravante va riconosciuta, previa valutazione caso per caso, valorizzando situazioni che abbiano ridotto o comunque ostacolato, cioè reso più difficile, la difesa del soggetto passivo, pur senza renderla del tutto o quasi impossibile, agevolando in concreto la commissione del reato (Sez. II, 14.11.2013, n. 6608, rv 258337). È stato aggiunto con altro arresto già opportunamente richiamato dai giudici della Corte distrettuale (Sez. I, 24.11.2010, n. 1319, rv 249402) che, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 61 n.5 cod.pen., questa vada ritenuta integrata per il solo fatto, oggettivamente considerato, della sussistenza di condizioni utili a facilitare il compimento dell’azione criminosa. Anche sul punto quindi il ricorso va disatteso».

Così concluso la Suprema Corte, confermava la sentenza di merito, condannando gli imputati al pagamento delle spese processuali ed al pagamento in solido delle spese sostenute dalla parte civile costituita.

Caporale Sabrina

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento