Colpevole di violenza privata il datore che costringe la neomamma ad accettare condizioni lavorative di degrado

Redazione 24/09/12
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Linea dura della Cassazione nei confronti di chi tenti di mobbizzare la dipendente di un’azienda appena rientrata al lavoro dopo il periodo di astensione obbligatoria per maternità.

Con la sentenza n. 36332 del 21 settembre 2012 i giudici di legittimità hanno annullato senza rinvio (per la prescrizione del reato) la statuizione dei giudici di merito, ravvisando nel comportamento del datore di lavoro il delitto di violenza privata.

Il titolare dell’azienda infatti obbligava la neomamma, al fine di costringerla a presentare le dimissioni, a lavorare in un luogo fatiscente ed abbandonato, ossia una stanza angusta con una scrivania impolverata.

La donna era rea di non aver presentato le dimissioni, e di essere tornata al lavoro dopo la maternità, mentre il piano aziendale avrebbe previsto la cessazione dell’azienda per proseguire nella stessa attività sotto una nuova veste societaria ma con lo stesso complesso aziendale e con gli stessi dipendenti licenziati ed assunti nuovamente.

Il datore quindi aveva fatto lavorare la donna in condizioni invivibili, in un luogo di degrado, compiendo un tentativo di violenza privata.

Infatti nel comportamento sono senz’altro ravvisabili gli «atti idonei e univocamente rivolti a farle accettare le condizioni della società», che nella fattispecie erano o le dimissioni o il prolungamento del periodo di maternità con retribuzione solo del trenta per cento dello stipendio.

Il comportamento della donna però, la quale ‘ostinatamente’ era tornata al lavoro, aveva rovinato i piani del datore, e perciò le era stato riservato questo atteggiamento.

Inquadrabile, ad avviso dei giudici supremi di legittimità, nel tentativo di violenza privata.

Redazione

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