Cass. pen., sez. V, 29-04-2009, n. 17923 , in tema di “energia muscolare”, nell’azione sportiva

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Svolgimento del processo

Con sentenza dell’1 dicembre 2006, il Tribunale monocratico di Cagliari assolveva S.R. dal delitto di lesioni volontarie gravi in danno di V.M., ai sensi dell’art. 582 c.p. e art. 583 c.p., nn. 1 e 2, sul rilievo che il fatto non costituisse reato per assoluta mancanza dell’elemento psicologico, sotto il profilo della consapevolezza e volontà di ferire la persona offesa.

Pronunciando sui gravami proposti dal PM e dal PG, la Corte di Appello di Cagliari, con la sentenza impugnata, dichiarava l’imputato colpevole del reato ascrittogli, ritenuto l’eccesso colposo nell’esercizio di un’attività sportiva e, con la concessione delle attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, lo condannava alla pena di Euro 300,00 di multa oltre consequenziali statuizioni, nonchè al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio.

Il fatto oggetto di giudizio, così come descritto nella sentenza anzidetta era il seguente: … Il (…), durante una partita di basket tra le squadre della società sportiva (…) – alla quale apparteneva l’offeso – e la società sportiva (…), nella quale militava l’imputato, costui, nel corso di un’azione di gioco, che lo vedeva possessore di palla in fase di recupero della stessa e tallonato sui tre quarti dal giocatore V., si girava verso l’avversario col gomito alto e lo colpiva con violenza al volto, causandogli fratture multiple all’osso molare e mascellare superiore destro con prognosi superiore ai 40 gironi e reliquati invalidanti di natura permanente.

Avverso la decisione anzidetta il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva.

 

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo d’impugnazione parte ricorrente denuncia violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione alla causa di giustificazione non codificata dell’esercizio di attività sportiva ed all’art. 55 c.p.; errata applicazione della legge penale nonchè mancanza e manifesta illogicità della motivazione. Deduce, in particolare, l’erroneità della qualificazione giuridica della condotta dell’imputato come eccesso di natura colposa nell’esercizio di un’attività sportiva, ordinariamente scriminante. Si duole, tra l’altro, che sia stata ritenuta determinante la violazione di regole tecniche, a prescindere dall’indagine sulla volontarietà della stessa violazione, secondo recente giurisprudenza di questa Corte regolatrice.

2. – Nulla quaestio sulla complessiva ricostruzione del fatto nel suo sviluppo dinamico – a parte talune imprecisioni descrittive – e sulla rilevanza decisiva dell’esatto inquadramento della vicenda sostanziale ai fini del corretto nomen iuris da attribuirsi alla stessa.

Si è trattato, dunque, di una violenta azione di gioco posta in essere da un atleta di pallacanestro in danno di un avversario, con il quale si contendeva un pallone vagante sulla tre quarti, ossia all’altezza della linea mediana della metà campo di gioco: lo S. – per assicurasi il vantaggio conseguito e proteggersi dal sopraggiungere, da tergo, del V., che si accingeva a pressarlo – con repentina torsione del busto ha alzato il gomito colpendo violentemente al volto il giocatore avversario, procurandogli, in tal modo, le gravi lesioni descritte in rubrica.

Tipico fallo violento, integrante illecito sportivo, prontamente sanzionato dagli arbitri che hanno decretato l’espulsione del giocatore.

È, dunque, pacifica la violazione di una fondamentale regola di gioco, che – anche negli sports che consentono, sia pure eventualmente, il contatto fisico tra i giocatori – vieta condotte violente che, pur finalizzate all’obiettivo della singola azione di gioco (nella specie, conquista o mantenimento del possesso del pallone), si risolvano, gratuitamente, in danno dell’avversario.

Premesso che l’uso di vigoria, oltre che di agilità, equilibrio e precisione, è importante anche nel gioco della pallacanestro e che il contatto fisico con l’avversario, anche energico, è talora ineludibile (si pensi alla lotta a rimbalzo per conquistare un pallone che, non finito a canestro, rimbalzi sul ferro o sul tabellone a ad un’azione di blocco regolare), l’energia muscolare non può debordare dai limiti della sua finalizzazione (nella specie conquista del pallone conteso), traducendosi in azione pregiudizievole per l’altrui incolumità. Il contatto, anche energico, deve essere insomma funzionale all’obiettivo agonistico e non diretto all’avversario, per vincerne la resistenza o ridurlo all’impotenza (come nel caso della boxe, arti marziali od altre discipline fondate sull’uso di forza fisica rivolta, ma pur sempre nel rispetto di regole cautelari predeterminate, contro la persona dell’antagonista).

Nel caso di specie, l’azione violenta – secondo la ricostruzione dei giudici di merito – trasmodava dai limiti anzidetti, all’apparenza in funzione del fine agonistico di assicurarsi il possesso del pallone, impedendo all’avversario l’avvicinamento, con anomala azione ostruzionistica.

Certa allora la violazione della norma regolamentare integrante illecito sportivo, è, nondimeno, mancata un’adeguata indagine sull’elemento della volontarietà della violazione anzidetta, per i conseguenti riflessi ai fini dell’individuazione dell’elemento psicologico del reato in contestazione e del corretto titolo d’imputazione.

2.1. – Al riguardo, il Collegio reputa di dover ribadire l’orientamento espresso da questa stessa Sezione, con sentenza del 20.1.2005, n. 19473, rv. 231534.

Nell’occasione, si è notato che, in materia di lesioni personali derivanti dalla pratica dello sport, le elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali hanno, da tempo, definito i contorni della nozione di illecito sportivo, che ricomprende tutti quei comportamenti che, pur sostanziando infrazioni delle regole che governano lo svolgimento di una determinata disciplina agonistica, non sono penalmente perseguibili, neppure quando risultano pregiudizievoli per l’integrità fisica di un giocatore avversario, in quanto non superano la soglia del cd. rischio consentito. Si tratta di un’area di impunità, la cui giustificazione teorica è certamente riconducibile all’ambito concettuale della causa di giustificazione.

Il quesito teorico riguardante il tipo di esimente operante nella fattispecie ha trovato diverse soluzioni ermeneutiche, a grandi linee riconducibili all’alternativa tra causa tipica di giustificazione (in particolare, consenso dell’avente diritto, ai sensi dell’art. 50 c.p., ovvero esercizio di un diritto, a mente dell’art. 51 c.p.) o causa di giustificazione ed non codificata, è stato risolto dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte nel secondo senso, in considerazione del preminente rilievo che l’ordinamento statuale riconnette alla pratica dello sport (cfr., tra le altre, Cass. sez. 5, 2.6.2000, n. 8910, rv 216716; cfr. id. sez. 4, 12.11.1999, n. 2765, rv. 217643).

Tale interpretazione, peraltro in linea con autorevole opinione dottrinaria, merita di essere ribadita, vuoi perchè la riconducibilità ad una causa tipica di giustificazione comporterebbe, quanto alla prima esimente, non trascurabili problemi di coordinamento con il generale principio dell’indisponibilità di beni giuridici fondamentali, quali l’integrità fisica od anche la vita, dotati, certamente, di presidio costituzionale; e, quanto alla seconda, perchè dall’ambito di operatività resterebbero inevitabilmente esclusi tutti gli eventi sportivi che non si svolgano sotto l’egida del CONI, se è vero che il diritto, del cui esercizio si tratta, deve avere una fonte normativa, che, nella specie, non potrebbe che individuarsi nella legislazione di settore (a partire dalla L. 16 febbraio 1942, n. 426, che disciplina i compiti del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, ente di diritto pubblico a cui è demandata l’organizzazione dello sport nazionale, nonchè la promozione della diffusione della pratica sportiva).

D’altronde, l’esimente in questione ha ratio identica a quelle tipiche, tenuto conto del rilievo primario che l’ordinamento giuridico assegna alla pratica sportiva, anche in prospettiva costituzionale, sia sul piano individuale, con riferimento a beni attinenti al valore della persona in sè, che in proiezione sociale, ai sensi dell’art. 2 Cost., con riferimento alle formazioni sociali, in cui si svolge la sua personalità, tra le quali vanno, certamente, ricompresse anche le associazioni o società sportive. Di talchè, in caso di infortunio sportivo, nel conflitto tra due beni giuridici contrapposti deve prevalere l’interesse pubblico su quello dell’atleta infortunato e manca, quindi, il danno sociale che sostanzia l’antigiuridicità del fatto-reato. Inoltre, l’atipicità della scriminante anzidetta in ambito penale non sarebbe ostativa, in quanto la relativa elaborazione è frutto di applicazione analogica, pacificamente consentita dal sistema positivo ove sia in bonam partem.

Non sembra, invece, applicabile, quale generale parametro di liceità penale, il criterio del nesso funzionale, tra gioco ed evento lesivo, proposto dalla giurisprudenza civile di questa Corte regolatrice (cfr., tra le altre, Cass. Sez. 3, 8.8.2002, n, 12012, rv. 556833), nel senso che la responsabilità per i danni conseguenti ad infortunio sportivo va affermata ove l’atto sia stato compiuto allo scopo di ledere, anche ove non integri violazione di regole sportive;

e va, invece, esclusa in ipotesi di atto posto in essere senza volontà lesiva e senza la violazione anzidetta ed anche quando, pur in presenza di violazione di regole che disciplinano l’attività sportiva, sia a questa funzionalmente connesso.

Si tratta, infatti, di criterio eccessivamente elastico che, se aderente al principio di atipicità dell’illecito civile, non è appagante in sede penale, in quanto finisce per legittimare anche condotte che, essendo lesive di regole cautelari, siano, per definizione, antisportive – e, dunque, antidoverose – tali da integrare, dunque, la tipicità della condotta colposa di cui all’art. 43 c.p.. D’altra parte, il criterio anzidetto sembra poggiare su una ragione di equivoco, in quanto l’obiettivo agonistico non è mai perseguibile attraverso mezzi scorretti integranti illecito sportivo nè il suo conseguimento, nonostante l’uso di quelle pratiche illecite, può essere a posteriori giustificato. Nel nostro sistema giuridico, infatti, il fine non giustifica i mezzi e, peraltro, nello specifico ordinamento sportivo, vi osterebbe, comunque, il generale principio di lealtà e di correttezza, che è norma di chiusura di tutti i regolamenti federali.

2.2. – Pacificamente riconosciuta l’esistenza di un’area di impunità nell’esercizio dell’attività sportiva, quale che sia la sua giustificazione teorica, si pone poi il problema dei limiti di tale ambito di esenzione, in funzione della ricerca del discrimine tra lecito ed illecito penale. Distinzione che si interseca, interagendo, con quella relativa alla nozione di illecito sportivo.

Il discrimen non può che essere segnato, a giudizio di questa Corte (in linea con la richiamata giurisprudenza), dal rispetto delle regole tecniche che presiedono alla svolgimento di ciascuna disciplina sportiva.

Un compendio di normazione secondaria trasfusa nei regolamenti tecnici di ciascuna Federazione sportiva stabilisce quali debbano essere i canoni comportamentali che devono governare lo svolgimento di un’attività agonistica, vuoi per la salvaguardia delle caratteristiche fondamentali di quella stessa disciplina vuoi per impedire, quanto più possibile, che sia posta a rischio l’integrità fisica dei partecipanti, al di là della componente di alea inevitabilmente insita in qualsivoglia pratica di sport che consenta l’uso (necessario od eventuale) di forza fisica nel contatto tra gli stessi contendenti. D’altronde, non è certamente casuale che allo svolgimento delle competizioni ufficiali sia sempre preposto uno o più arbitri, che sono organi federali deputati proprio al controllo del rispetto delle regole sportive, con il compito di sanzionarne la violazione e di risolvere eventuali divergenze tra i partecipanti, insindacabilmente e liberamente: non già in forma di libero arbitrio, ma sulla base di parametri di giudizio rapportati alla normativa regolamentare.

Il rispetto delle regole anzidette segna, allora, i contorni dell’area di impunità, nel senso che qualsiasi pregiudizio alla persona, sia alla sua integrità fisica che persino alla sua esistenza in vita, ove avvenga in costanza di condotta agonistica pienamente rispettosa delle relative misure cautelari, si sottrae alla responsabilità penale. Tale area di esenzione coincide con quella comunemente detta del rischio consentito. La denominazione individua lo stesso ambito di irresponsabilità muovendo, però, dalla diversa angolazione prospettica dell’atleta, che, nel corso dell’agone sportivo, riporti lesioni personali. Si fa riferimento, cioè, alla preventiva accettazione, da parte sua, dell’ineludibile componente di alea, che, come dianzi osservato, è immanente in ogni disciplina sportiva che consenta il contatto fisico tra i partecipanti e la cui incidenza è contenuta, in limiti di fisiologica ragionevolezza, proprio dal rispetto delle regole tecniche, che segnano la misura del rischio consentito e ragionevolmente prevedibile. In vista di tornei ufficiali o federali, la consacrazione formale di tale consenso si ha al momento della sottoscrizione del cartellino, ossia al momento del tesseramento od affiliazione, nel quale l’atleta, iscrivendosi ad una determinata federazione sportiva, cui, a sua volta, è affiliata la società nella quale intenda svolgere pratica agonistica, ne accetta espressamente e consapevolmente tutte le regole e, dunque, anche quelle che presidiano la componente di alea insita nella disciplina prescelta. In linea teorica, può anche configurarsi, in caso di esiti pregiudizievoli per l’integrità fisica nonostante il rispetto delle norme regolamentari, una presunzione di preventiva accettazione di quel pregiudizio da parte dell’atleta infortunato, ove l’accettazione sostanzia non tanto un atto di disponibilità del proprio corpo, quanto piuttosto consapevolezza e presa d’atto del possibile rischio di danni alla sua persona in dipendenza di corretta pratica sportiva, nel senso di attività agonistica correttamente praticata dagli altri partecipanti.

2.3. – Se il rispetto delle misure cautelari segna, allora, la linea di demarcazione del penalmente irrilevante (nel senso che tutto quanto si collochi al di sotto della stessa è penalmente lecito), nondimeno la violazione delle stesse non è, di per sè, sinonimo di illiceità penale. L’infrazione integra sicuramente illecito sportivo, ma non tutti gli illeciti sportivi, anche se causativi di danni alla persona, configurano ipotesi di reato. Ai fini dell’individuazione della illiceità penale soccorrono, invero, ulteriori criteri. In primo luogo, è rilevante la contestualizzazione dell’azione violenta, ossia stabilire se la condotta sia stata posta in essere in fase di gioco od a gioco fermo (profilo nel caso di specie irrilevante, essendosi trattato, certamente, di un’azione di gioco, seppur fallosa), posto che l’operatività della causa di giustificazione può dispiegarsi solo nella prima ipotesi, in quanto strettamente inerente alla dinamica agonistica. Nel caso di tratti di azione di gioco, è importante, poi, l’indagine sulla volontarietà o meno dell’infrazione, anche se l’elemento, in sè, non è decisivo. Ed infatti, se è indubbio che la violazione involontaria delle regole di gioco realizzi un illecito sportivo penalmente irrilevante, non sempre la violazione volontaria sfocia nell’area dell’illecito penale. Ciò può avvenire qualora la condotta dell’agente sia obiettivamente incompatibile con le caratteristiche e lo spirito di una determinata disciplina sportiva e sia, cioè, totalmente avulsa dalle relative peculiarità.

Uno stesso gesto di violenza fisica (ad esempio, un pugno in pieno volto) se è consentito in uno sport (come nella boxe, di cui costituisce, anzi, una delle peculiari finalizzazioni) non lo è in altri (come la pallacanestro, il calcio od il rugby), per risolvere a proprio vantaggio determinati contrasti agonistici.

Per meglio apprezzare la liceità del gesto, ove in astratto consentito, va tenuto anche conto della particolare situazione di gioco (ad esempio, l’uso dei gomiti, nel basket, se è tollerato, almeno entro determinati limiti, nella lotta a rimbalzo, non è certamente tale in fase di palleggio o di recupero del pallone et similia), tenendo sempre presente, per risolvere situazioni dubbie, che la pietra angolare di ogni ordinamento sportivo è il principio di lealtà e correttezza sportiva, non a caso espressamente richiamato nei regolamenti federali.

Ricorrendo i due presupposti (volontarietà dell’infrazione ed abnormità della condotta), il fatto è penalmente rilevante.

Il problema ulteriore del titolo d’imputazione (doloso o colposo) andrà, poi, agevolmente risolto sulla base del criterio finalistico (applicabile solo in tale limitato ambito), ossia se l’azione violenta, anche se antisportiva – e, dunque, antidoverosa – sia direttamente funzionale non alla messa in pericolo dell’altrui incolumità, ma al perseguimento dell’obiettivo agonistico ovvero se sia gratuitamente rivolta alla persona dell’avversario, in forma diretta od intenzionale (con consapevole profittamento della circostanza di gioco) ovvero con mera accettazione preventiva del rischio di arrecare pregiudizio all’integrità fisica dell’antagonista. Nel primo caso, si avrà responsabilità per colpa;

nel secondo a titolo di dolo, diretto od eventuale.

Ed allora, meglio esplicitando i principi di diritto già espressi nella richiamata sentenza n. 19473/2005, può formularsi la seguente schematizzazione:

a) la violazione involontaria delle regole di gioco integra illecito sportivo non penale;

b) la violazione volontaria che si traduca in condotta violenta compatibile con il tipo di disciplina sportiva ed il contesto agonistico di riferimento, da luogo ad illecito penale colposo;

c) la violazione volontaria con condotta violenta del tutto avulsa dalla dinamica agonistica integra illecito penale doloso.

2.4. – A conferma della non decisività dell’elemento psicologico dell’infrazione, lo sport del basket costituisce significativo banco di prova. Ed infatti, come in altre discipline (si pensi al fallo tattico nel gioco del calcio, volontariamente commesso su un giocatore avversario per impedirne la ripartenza in contropiede), ma in misura decisamente maggiore, la pallacanestro prevede l’uso del fallo volontario, anche come arma di strategia tattica (ad esempio, falli appositamente commessi, in determinate situazioni di gioco, entro il limite di quelli spendibili, cd. bonus a disposizione di ciascuna squadra), sino alla massima espressione di volontarietà fallosa, ossia il fallo cd. intenzionale (propriamente: fallo antisportivo), commesso nei confronti di avversario lanciato a canestro, per impedirne la realizzazione. Orbene, neanche il fallo intenzionale può essere commesso con modalità gratuitamente violente in danno dell’avversario. Se sono, ad esempio, praticabili, pur se sanzionagli disciplinarmente, trattenute ovvero stoppate irregolari (con contatto fisico non regolamentare), sono certamente illecite modalità obiettivamente pericolose, capaci cioè di mettere a rischio l’altrui incolumità (si pensi ad uno sgambetto ad un avversario lanciato in contropiede o già in azione di terzo tempo o ad una violenta gomitata in pieno volto per contrastarne l’azione di tiro). In tali ultimi casi, l’atleta che sia stato protagonista di simile scorrettezza, in caso di pregiudizio fisico all’avversario, ne potrà rispondere anche penalmente, a titolo di dolo, in caso di volontà diretta a ledere, anche sotto forma di consapevole accettazione del relativo rischio, ovvero a titolo di colpa, proprio in ragione della violazione delle regole tecniche, integrante tipica configurazione di colpa penalmente rilevante, ai sensi dell’art. 43 c.p..

3. – Orbene, alla stregua degli anzidetti principi è possibile ora valutare la correttezza o meno della soluzione giuridica della fattispecie in esame, nell’interpretazione offerta dai giudici di appello.

Nella dinamica del fatto, è indubbio che vi sia stata violazione di regole tecniche, tant’è che lo S., che se ne è reso responsabile, è stato addirittura espulso dagli arbitri. Lo stesso svolgimento dell’episodio, come descritto in narrativa, sembra escludere che l’infrazione possa essere stata inconsapevole, e dimostra una modalità di condotta oggettivamente capace di pregiudicare l’altrui incolumità. Le testimonianze qualificate, per come riportate in sentenza (uno degli arbitri dell’incontro, *****, il quale ha riferito che il movimento dello S., che aveva intenzionalmente tenuto alto il gomito nell’effettuar e una torsione del busto, era “stato compiuto con una violenza eccessiva… non giustificata dalla situazione, dal vantaggio sportivo, ed il teste P.G.B., commissario degli arbitri, che, dopo aver descritto il movimento rotatorio dello S. – “molto ampio, ruotando il busto” – ha precisato che l’azione “era sicuramente sproporzionata rispetto alla situazione e alle regole del gioco, perchè il movimento di protezione della palla normalmente si fa in spazi ristretti, mentre qui c’è stato proprio un movimento di rotazione: proprio da quest’ampio movimento di rotazione è derivato l’impatto violento”; poi soggiungendo: “si trattava di un gesto tecnicamente scorretto… è stata un’azione irregolare e violenta) sembrerebbero idonee a supportare la volontarietà dell’infrazione.

L’elemento psicologico, per quanto si è detto, non è però decisivo, occorrendo l’ulteriore approfondimento del titolo d’imputazione, ai fini dell’accertamento se si sia trattato di fatto doloso, direttamente volto a ledere, anche se in forma eventuale, ovvero a titolo di colpa.

Un’indagine siffatta è mancata nel caso di specie, in cui, peraltro, i giudici di appello hanno preferito optare per la soluzione, erronea, dell’eccesso colposo in causa di giustificazione, di cui all’art. 55 c.p..

A parte ogni ragione di dubbio sull’applicabilità di tale disposizione anche alla causa di giustificazione non codificata, in forza di nuovo procedimento analogico, che – non propriamente in bonam partem (per via degli esiti sanzionatoli) – si innesti in precedente procedura analogica, si osserva che la richiamata disciplina non è applicabile al caso di specie. Come è noto, la norma dell’art. 55 c.p. riguarda quelle particolari situazioni nella quali, colposamente, l’agente superi i limiti oggetti vi di scriminanti effettivamente esistenti, nel senso che il suo comportamento, fino ad un certo punto del suo svolgimento, è sorretto da una causa di giustificazione realmente esistente; mentre in una fase successiva è accompagnato dalla mera putatività di un elemento esimente, del quale, vengono in realtà ecceduti i limiti.

Nella fattispecie in esame, invece, per pacifico presupposto fattuale, l’azione violenta dello S. integrava, nella sua interezza ed ab initio, infrazione di regola sportiva, di guisa che, proprio per tale violazione, si poneva, per quanto si è detto, al di fuori dell’area di irresponsabilità. Non era, dunque, distinguibile un frammento di azione coperto dalla causa di giustificazione ed altro successivo implicante superamento colposo dei limiti relativi.

4. – Gli anzidetti errori di giudizio inficiano il tessuto motivazionale della sentenza impugnata, comportandone l’annullamento, con rinvio al competente giudice di merito affinchè, sulla base degli enunciati principi di diritto, accerti – in piena libertà di convincimento – se la condotta dello S. integri infrazione volontaria, o meno, di regola sportiva e, in caso di volontarietà, se l’azione lesiva sia compatibile con la natura della disciplina sportiva praticata ed il contesto agonistico di svolgimento. In ipotesi negativa, valuterà se la stessa condotta sia stata connotata da volontà diretta a ledere l’incolumità dell’avversario o da preventiva accettazione del relativo rischio ovvero integri fatto di reato meramente colposo.

 

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Cagliari per nuovo esame.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2009

Mariangela Claudia Calciano

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