Cass. pen., sez. V, 02-10-2007, n. 36079, in tema di cd lealtà sportiva

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Propone ricorso per cassazione a mezzo del difensore C. S., avverso la sentenza della Corte di appello di Venezia in data 19 dicembre 2006 con la quale è stata confermata la sentenza (del 25 novembre 2005) affermativa della sua penale responsabilità in ordine al reato di lesioni personali volontarie in danno di *******, reato commesso il (OMISSIS). Il giudice di appello ha ridotto la pena e revocato la provvisoria esecuzione delle disposizioni civilistiche.

La azione delittuosa era consistita nel fatto che il C., militante in una squadra di calcio (T.), aveva, durante una partita, secondo la ipotesi accusatoria, colpito con un pugno alla schiena il D.G., atleta della opposta compagine, provocandogli la frattura di una costola in zona ascellare, guarita in 34 giorni. La lesione era stata giudicata volontaria e non rientrante nel rischio generico connesso all’espletamento del gioco.

Deduce:

1) Violazione di legge processuale in riferimento alla mancata esclusione della parte civile e all’omesso riconoscimento di vizi della procura speciale. La Corte di merito avrebbe erroneamente escluso la causa di inammissibilità della costituzione di parte civile derivante dalla violazione dell’art. 78 c.p.p., lett. D), (esposizione delle ragioni che giustificano la domanda), sostenendo che a tale fine era sufficiente il mero richiamo al capo di imputazione, attesa la semplicità dei fatti in esso esposti.

Ed invece il reato contestato di lesioni, a prescindere dalla linearità della sua dinamica, può produrre diversi tipi di danno (patrimoniale, suddiviso in danno emergente e lucro cessante; non patrimoniale, suddiviso in danno morale e biologico) di ognuno dei quali deve essere specificata la eventuale pretesa, le ragioni comprensive del nesso eziologico,la consistenza, le prove.

Identici vizi affliggerebbero la procura speciale, regolata dall’art. 122 c.p.p..

2) vizio di motivazione sulla attendibilità e la capacità probatoria delle dichiarazioni della parte civile. La Corte di merito ha ritento la veridicità di tali dichiarazioni sulla base di un ragionamento privo dei connotati di logica: e cioè sul solo presupposto che il teste fosse attendibile laddove, viceversa, la affermazione del D.G., di avere ricevuto da tergo un colpo ad opera del C. non inficerebbe di per sè la tesi difensiva:

che è quella secondo cui tale contatto ci fu, ma entro le normali dinamiche e gli scontri legittimi del gioco in corso. Se, cioè, l’impatto avvenne, ciò non significa necessariamente che si trattò di un impatto doloso. Le stesse perplessità riguardano la operazione logica dell’inferire la volontarietà del colpo dal relativo referto medico.

Sarebbe, poi, stata addirittura travisata la deposizione del teste di accusa A., il quale avrebbe in realtà riferito che il D. G. ricevette il colpo mentre era in movimento.

Quanto alla attendibilità delle dichiarazioni accusatone del D. G., la Corte di merito avrebbe omesso di motivare sulle censure mosse dalla difesa all’impianto della sentenza di primo grado. In particolare non si sarebbe soffermata sulle discordanze tra le affermazioni della parte civile, da un lato, e, dall’altro, quelle del teste A. ma anche le ulteriori dei testi G., GH., F. a proposito della assoluta normalità della atmosfera della partita, salvo poi affermare che la difesa dell’imputato non avrebbe evidenziato alcun serio elemento atto ad inficiare la attendibilità della parte civile. Piuttosto, tali elementi sarebbero stati evidenziati a pag. 26 e 27 dell’appello, avrebbero riguardato contraddizioni della parte civile su punti fondamentali (modalità dello scontro, posizione in campo dei giocatori, gioco fermo o meno, comportamento dell’imputato post – factum etc) e ad essi la Corte non avrebbe dato seguito.

In conclusione, l’affermazione della volontarietà del gesto sarebbe non il frutto di un costrutto logico ma il presupposto apodittico del ragionamento seguito dal giudice.

3) vizio di motivazione sulla attendibilità della deposizione del teste della accusa, A.. La Corte gli avrebbe attribuito la immediata percezione della azione delittuosa, mentre il teste avrebbe finito per riconoscere di avere soltanto potuto “presumere” che il gesto eseguito dal C. era culminato in un pugno. In realtà, la frazione di gesto percepita dall’ A. poteva ben avere una interpretazione diversa da quella data dalla Corte e cioè spiegarsi come il movimento di chi prende a correre. Aggiungeva brani delle deposizioni di D.G. e A. dai quali era possibile ricavare la differenze delle rispettive ricostruzioni.

4) vizio di motivazione sul momento in cui è avvenuto l’urto (cioè a gioco fermo o dopo la ripresa del gioco), evenienza che la Corte definisce non decisiva ai fini del giudizio, mentre è vero il contrario, posto che la gratuità del gesto è evidente nella prima ipotesi mentre, di regola, è assai più difficile da provare nella seconda. L’arbitro, il teste della accusa F.M. e altri giocatori della squadra del C. (G.) assieme al loro allenatore hanno concordemente affermato, così come l’imputato, che il gioco era ripreso (v. verbali delle rispettive dichiarazioni).

Tale ricostruzione non è stata inficiata da quella dei testi di accusa i quali sono risultati tutti incerti sul fatto che il gioco fosse ripartito.

5) vizio di motivazione sulle testimonianze di D.G. e A. alle quali è stato attribuito un significato diverso da quello loro proprio.

Viceversa è stato del tutto omessa la valorizzazione delle deposizioni di quanti hanno sostenuto di non aver visto azioni aggressive (l’arbitro G., il quale ha anche redatto un referto di gara attestante il carattere fortuito dell’impatto).

È stata poi riconosciuta la valenza dolosa dello scontro sulla base della affermazione che il gesto dell’imputato non aveva una spiegazione ed una finalità calcistica, laddove, al contrario, proprio l’allenatore della squadra del G. aveva, alla udienza del 28 gennaio 2005, illustrato tale effettiva valenza.

6) vizio di motivazione sulla liquidazione del danno, ribadita dal giudice di appello con riferimento alla motivazione del giudice di primo grado nonostante le specifiche censure al riguardo formulate nei motivi di appello. In particolare il danno biologico era stato determinato sulla base delle dichiarazioni della parte civile e della commisurazione, del tutto impropria, alla durata della malattia.

7) vizio di motivazione e la violazione di legge sul mancato riconoscimento della causa di giustificazione costituita dall’essersi verificata, l’azione in contestazione, nel corso di un gioco e senza violazione delle regole.

Il ricorso è infondato.

Il primo motivo è, invero, manifestamente infondato poichè censura una decisione della Corte di merito adottata sulla base di un panorama giurisprudenziale interamente conforme.

Si tratta del principio, da ultimo ribadito anche da Sez. V, 13/12/2006, Rv. 235777, secondo cui in tema di costituzione di parte civile, l’impegno argomentativo necessario a giustificare l’esercizio dell’azione civile nel processo penale dipende dalla natura delle imputazioni e dal rapporto tra i fatti lamentati e la pretesa azionata; ne consegue che quando tale rapporto sia immediato, ad integrare il requisito previsto dall’art. 78 c.p.p., comma 1, lett. d), è sufficiente il mero richiamo al capo di imputazione descrittivo del fatto.

E, a prescindere dal rilievo che la giurisprudenza di legittimità, diversamente da quanto opinato dal ricorrente, non ha avuto motivo di escludere la applicabilità di tale principio al reato di lesioni volontarie (si veda Sez. 5, 05/02/1999,Rv. 214876), deve anche aggiungersi, ancora una volta in linea con precedenti dictum di questa Corte, che l’art. 78 c.p.p., comma 1, lett. d), sebbene indubbiamente richieda a pena di inammissibilità la indicazione della “causa petendi”, (rv 227654) non prevede tuttavia che l’atto di costituzione ne contenga un’esposizione analitica, del tipo cioè di quella prescritta per la domanda proposta in sede civile. Infatti, l’esperimento dell’azione civile nel processo penale si avvale della sua connessione necessaria con la fattispecie concreta descritta nell’imputazione, sicchè la pretesa risarcitoria, al di fuori dei casi in cui sia legata anche a fattori eccedenti i limiti della contestazione penale, non deve essere giustificata con enunciazioni ulteriori rispetto a quella del legame eziologico che la collega al fatto – reato (v. Sez. 2, n. 13815 del 27/10/1999, Rv. 214669).

Principi non dissimili sono quelli che governano la ormai condivisa interpretazione dell’art. 122 c.p.p., in tema di procura speciale.

Ha osservato questa Corte che nei casi in cui nel giudizio penale sia prescritto che la parte stia in giudizio col ministero di difensore munito di procura speciale, il mandato, in virtù del generale principio di conservazione degli atti, deve considerarsi valido quando comprende l’indicazione del reato e del procedimento in cui deve avvenire la costituzione di parte civile, in tal forma intendendosi comprensivo anche del riferimento all’oggetto della costituzione e ai fatti ai quali questa attiene (193902).

I motivi successivi – fatta eccezione per il sesto di cui si dirà a parte – e segnatamente il quarto tendono ad evidenziare una certa frettolosità e incompletezza oltre che manifesta illogicità della motivazione con la quale è stata confermata la responsabilità dell’imputato senza tenere viceversa conto dell’ ulteriore materiale testimoniale acquisito dal quale sarebbero emersi elementi importanti e del tutto pretermessi, idonei a dimostrare che l’impatto fra i due giocatori era avvenuto quantomeno non dolosamente ma nel corso della azione di gioco e funzionalmente ad essa.

È noto lo stato della giurisprudenza di legittimità sui limiti di configurazione dell’illecito sportivo e dei rapporti di tale figura giuridica con il reato di lesioni volontarie commesso in occasione dello svolgimento di un gioco e segnatamente del gioco calcio.

Sin dagli anni 90 è stato dato atto da una parte della giurisprudenza di questa Corte che l’illecito sportivo presuppone la sussistenza del consenso dell’avente diritto. Esso ricorre quando la condotta lesiva, quale quella del diretto controllo del tiro del pallone, del tentativo di impossessarsene o di contenderlo all’avversario ovvero di introdursi nell’azione di gioco, sia finalisticamente inserita nel contesto di un’attività sportiva.

Quando però siano cagionate lesioni nel corso di quest’ultima, ponendo a repentaglio coscientemente l’incolumità del giocatore – che legittimamente si attende dall’avversario un comportamento agonistico anche rude, ma non esorbitante dal dovere di lealtà fino a trasmodare nel disprezzo per l’altrui integrità fisica – si verifica il superamento del cosiddetto rischio consentito, con il conseguente profilarsi della responsabilità per dolo o per colpa.

Il fatto è doloso ove la gara sia solo l’occasione dell’azione volta a cagionare lesioni mentre è colposo se innestato nello svolgimento dell’attività agonistica e dipendente dalla violazione di norme regolamentari.

L’accertamento del rischio consentito è questione di fatto, da risolvere caso per caso, in relazione al tipo di pratica sportiva nonchè, nell’ambito di questa, al tipo di attività agonistica (rv 192262).

Ancora, è stato ripetuto che in tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva che implichi l’uso della forza fisica e il contrasto anche duro tra avversari, l’area del rischio consentito è del imitata dal rispetto delle regole tecniche del gioco, la violazione delle quali, peraltro, va valutata in concreto, con riferimento all’elemento psicologico dell’agente il cui comportamento può essere – pur nel travalicamento di quelle regole – la colposa, involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario approfittando della circostanza del gioco (rv 231534).

In altre decisioni, poi, la tripartizione sembra lasciare il passo ad una bipartizione rilevandosi che in tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva deve ritenersi che, qualora i comportamenti violenti non oltrepassino la soglia del rischio consentito nella specifica attività ginnica, essi appartengono alla categoria degli illeciti sportivi penalmente non rilevanti, poichè sprovvisti di antigiuridicità per mancanza di danno sociale. Ne consegue che non è punibile lo sportivo il quale, nel rispetto delle regole del gioco, o violandole entro i limiti dell’illecito sportivo, cagioni un evento lesivo all’avversario: ciò in quanto la pratica sportiva, così come identificata, costituisce una causa di giustificazione non codificata. (rv 216716).

Sincretisticamente, da ultimo, è stato affermato che in tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva, non sussistono i presupposti di applicabilità della causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto con riferimento al cosiddetto rischio consentito (art. 50 c.p.), nè ricorrono quelli di una causa di giustificazione non codificata ma immanente nell’ordinamento, in considerazione dell’interesse primario che l’ordinamento statuale riconnette alla pratica dello sport, nell’ipotesi in cui, durante una partita di calcio ma a gioco fermo, un calciatore colpisca l’avversario – che aveva realizzato una rete – con una gomitata al naso, in quanto imprescindibile presupposto della non punibilità della condotta riferibile ad attività agonistiche è che essa non travalichi il dovere di lealtà sportiva, il quale richiede il rispetto delle norme che regolamentano le singole discipline, di guisa che gli atleti non siano esposti ad un rischio superiore a quello consentito da quella determinata pratica ed accettato dal partecipante medio; ne deriva che la condotta lesiva esente da sanzione penale deve essere, anzitutto, finalisticamente inserita nel contesto dell’attività sportiva, mentre ricorre, come nella fattispecie, l’ipotesi di lesioni volontarie punibili nel caso in cui la gara sia soltanto l’occasione dell’azione violenta mirata alla persona dell’antagonista (rv 232723).

Risulta evidente che il punto nodale per l’affermazione della penale responsabilità o per la sua esclusione a causa della configurabilità dell’illecito sportivo è dato dalla dimostrazione ( o anche soltanto dal dubbio, ex art. 530 c.p.p., comma 3, ove si ammetta il ricorrere di una causa di giustificazione) che la azione violenta possa essere stata realizzata funzionalmente alla azione di gioco e non in modo del tutto gratuito.

Una massima di esperienza del tutto conforme a logica, ai fini del raggiungimento di tale dimostrazione, è quella che la Corte di appello ha preso in considerazione, sia pure ritenendola poi superabile per ragioni di mero fatto:

e cioè quella per cui quando la violenza viene esercitata dal giocatore a gioco fermo, essa di regola deve presumersi di natura dolosa, essendo impossibile collocarla in un disegno strategico volto alla realizzazione di un obiettivo sportivo.

Per superare, come detto, tale snodo la Corte ha affermato che siffatta circostanza di fatto era nella specie irrilevante perchè, come già evidenziato dal giudice di prime cure, anche ad ammettere che il gioco fosse ripreso, l’azione aggressiva aveva avuto caratteristiche tali da dovere comunque essere inquadrata come dolosa: l’azione compiuta dal C. non avrebbe avuto infatti alcuna utilità strategica.

Sul punto, è inammissibile la censura del ricorrente secondo cui la Corte territoriale sarebbe giunta a siffatte conclusioni senza dare conto delle contrarie affermazioni dell’allenatore del G., *****, rese alla udienza del 28 gennaio 2005 e riportate a pag. 90 e 91 delle trascrizioni:

la questione specifica non era stata posta nei motivi di appello ed è quindi oggi preclusa ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3.

Infatti in detti motivi la deposizione resa da D.R. alla udienza del 28 gennaio 2005 è bensì citata ma soltanto nella parte in cui descriveva “il momento” della collisione e cioè se il gioco fosse ripreso con un fischio dell’arbitro per dare avvio ad una punizione ovvero con altro tipo di azione calcistica. Non già con riferimento alla utilità strategica del comportamento del ricorrente.

Ed è indubitabile che tale accertamento, avente natura di fatto, resta riservato, salva la ammissibile rilevazione di vizi logici, al giudice de merito.

Ma su tale base, sfuma anche la decisività delle doglianze concernenti l’ulteriore materiale testimoniale che si assume ignorato o travisato, posto che l’annullamento con rinvio per nuovo esame dello stesso avrebbe un senso logico soltanto se fosse possibile scardinare l’ossatura del ragionamento della Corte come fin qui illustrato.

La volontarietà del gesto, desunta dalle sue modalità esecutive, prescinde infatti dall’accertamento della fase di gioco, essendo indubitabile che una azione aggressiva qualificabile come lesione dolosa può essere commessa anche durante una azione di gioco, quando questa è soltanto l’occasione e il pretesto per portare una gratuita aggressione alla altrui incolumità.

Le ulteriori censure riguardano tendono, inammissibilmente, a sollecitare una diversa ricostruzione del fatto, non potendosi qualificare come manifestamente illogico, tra l’altro, il convincimento del giudice sulla bontà della testimonianza “oculare” dell’ A., pur con la specificazione che egli ebbe a vedere soltanto da tergo il gesto che culminò nel nuovo fischio di interruzione del gioco e che logicamente interpretò, dati anche gli accadimenti successivi, come indicativo del fatto che il suo autore aveva sferrato un pugno.

Anche la deposizione dell’arbitro sul fatto di non aver percepito nulla di irregolare, omessa nella motivazione della Corte, non rappresenta quell’elemento decisivo e scardinante per la motivazione stessa, essendo notorio che il giudizio dell’arbitro è significativo in ordine a ciò che egli ha visto e non in ordine a ciò che può non aver percepito. Nella specie, la deposizione non considerata, che secondo il ricorrente conterrebbe l’attestazione che nulla di irregolare fu commesso (nè grosse spinte nè alzate di mani) va ascritta alla seconda tipologia, essendo pacifico che, invece, proprio una azione di contatto avvenne e cagionò le lesioni poi refertate.

Sul sesto motivo si osserva che in punto di motivazione sulla liquidazione del danno la sentenza non appare carente nel senso prospettato dal ricorrente.

In ordine alla quantificazione del danno patrimoniale i giudici hanno dato atto della correttezza del calcolo operato dal primo giudice sulla base del certificato medico e delle tabelle usate nel Triveneto.

Il ricorrente, al riguardo, non articola censure specifiche.

Quanto alla quantificazione del danno non patrimoniale, la Corte ha disposto la diminuzione della entità della somma dovuta per il danno morale.

Le censure del ricorrente, sulla presunta scorrettezza del calcolo del danno biologico, non coglie nel segno, data la differenza tra i due tipi di danno non patrimoniale.( riv. civ. 594844, 593004).

In ordine poi alla determinazione del danno morale, la giurisprudenza di questa Corte ritiene che la valutazione debba essere equitativa e rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito: essa non è dunque sindacabile in sede di legittimità, se ha soddisfatto la esigenza di ragionevole correlazione tra gravità effettiva del danno ed ammontare dell’indennizzo, correlazione motivata attraverso i concreti elementi che possono concorrere al processo di formazione del libero convincimento (rv. 215189) Nella specie la Corte ha fornito una giustificazione della decisione di ridurne l’entità, richiamandosi agli elementi di fatto apprezzati per diminuire anche l’entità della pena.

 

Tale ragionamento non risulta contestato dal ricorrente.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Così deciso in Roma, il 9 luglio 2007.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2007

Mariangela Claudia Calciano

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