Adozioni: sollevata questione di legittimità della norma che pone il divieto per l’adottato di conoscere le sue origini in presenza della richiesta di anonimato del genitore biologico

Redazione 21/03/13
Scarica PDF Stampa

Anna Costagliola

In base all’art. 28, co. 5, della L. 184/1983, il nostro ordinamento consente all’adottato che abbia compiuto 25 anni (ovvero anche solo la maggiore età se sussistono gravi e comprovati motivi di salute) di accedere alle informazioni che riguardano la propria origine e l’identità dei propri genitori biologici, previa autorizzazione del Tribunale per i minorenni. Il successivo comma 7 della medesima disposizione precisa, tuttavia, che l’accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, co. 1, del D.P.R. 396/2000. Con riguardo a tale ultima disposizione, nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare la persona adottata all’accesso alle informazioni sulle sue origini senza avere prima verificato il diritto di anonimato della madre biologica, il Tribunale per i minorenni di Catanzaro ha sollevato questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 2, 3, 32 e 117, co. 1, Cost.

Nell’ordinanza di rimessione, il Tribunale chiarisce come studi psicologici e sociologici hanno evidenziato che nelle persone adottate insorge il bisogno di conoscere non solo la storia precedente all’adozione, ma anche l’identità dei propri genitori, al fine di ricostruire la propria storia personale e di giungere ad una più completa conoscenza di sé. La privazione delle proprie radici appare di ostacolo all’esigenza primaria di costruzione della propria identità personale.

Il diritto a conoscere le proprie origini costituisce un aspetto del più ampio diritto all’identità personale; quindi anche il diritto a conoscere le proprie vere origini, che può contribuire in maniera determinante a delineare la personalità di un essere umano, può e deve trovare tutela nei principi fissati dall’art. 2 Cost. In tale prospettiva, il giudice rimettente ritiene che il negare a priori l’autorizzazione all’accesso alle notizie sulla propria famiglia biologica per il solo fatto che il genitore abbia dichiarato di non voler essere nominato, senza verificare la persistenza della volontà di anonimato manifestata molti anni prima sembra porsi come una violazione del diritto di ricerca delle proprie origini e dunque del diritto all’identità personale dell’adottato.

Il legislatore del 2001, nel riformare nel senso innanzi indicato l’art. 28 della L. 184/1983, in ordine all’accesso alle informazioni circa le proprie origini da parte dell’adottato ha mostrato di recepire i suggerimenti pervenuti dalle scienze giuridiche, psicologiche e sociali e concernenti l’importanza del diritto dell’adottato alla conoscenza dei propri dati biologici quale esplicazione del diritto alla costruzione della propria identità personale. Tuttavia, con la previsione di cui al comma 7, rischia di precludere irrazionalmente, nella maggior parte dei casi, ciò che voleva consentire. Invero, se l’esigenza principale è quella di tutelare il diritto al riserbo della madre, il semplice prevedere la possibilità di confermare, su istanza del figlio, la decisione assunta molti anni prima in ordine alla scelta di rimanere nell’anonimato non sembrerebbe comportare alcun pericolo per la salvaguardia dell’interesse che si è inteso tutelare, posto che la madre potrebbe sempre ribadirla e dunque decidere di restare anonima. Viceversa, l’art. 28, co. 7, precludendo la conoscenza delle informazioni per il solo fatto della richiesta di anonimato del genitore biologico effettuata al momento della nascita, ha ritenuto prevalente su tutti gli interessi in conflitto quello del genitore all’anonimato, assegnando una valenza assoluta ed incontrovertibile alla scelta operata allora, senza farsi carico di verificare se l’intenzione di non volere essere nominata mantenga la sua validità nel tempo (anche dopo 25 o più anni di distanza), sacrificando sempre e comunque l’interesse dell’adottato, in ipotesi anche a fronte di gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psicofisica.

La denunciata incostituzionalità delle norme italiane che regolano i rapporti tra il figlio non riconosciuto e in seguito adottato e la madre biologica che ha chiesto di non essere menzionata appare particolarmente pregnante anche in considerazione della pronuncia dello scorso settembre con cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, esaminando lo stato dell’ordinamento giuridico italiano in ordine al diritto di accesso alle informazioni sulle proprie origini da parte di persona nata da madre che ha dichiarato di non volere essere nominata, ha riconosciuto come la nostra legislazione, nella disciplina della materia, non è riuscita a realizzare un giusto equilibrio tra i diritti e gli interessi concorrenti, a differenza di quanto non avvenga in altri Stati.

Se, infatti, la madre biologica ha optato per l’anonimato, la legislazione italiana non dà alcuna possibilità al figlio adottato e non riconosciuto alla nascita, di richiedere né l’accesso alle informazioni, né la reversibilità del segreto, che in altre legislazioni presuppone l’intervento di un organo specializzato che con le opportune cautele verifica il consenso della madre ad uscire dall’anonimato. In queste condizioni, la Corte ha affermato che la nostra legislazione viola l’art. 8 della Convenzione dei diritti dell’uomo e condannato l’Italia ad una equa riparazione della ricorrente per danni morali e spese processuali.

Nella fattispecie concreta esaminata dal Tribunale dei minorenni la madre biologica della ricorrente ha dichiarato di non voler essere nominata, per cui appare precluso allo stesso Tribunale anche il semplice interpello della donna per verificare la persistenza della volontà di non essere nominato, costituendo ratio evidente della norma la tutela in ogni caso della riservatezza del genitore biologico. La ricorrente, pertanto, resterebbe frustrata nella ricerca di quella pienezza della sua identità che le ha creato un grave disagio esistenziale e numerose difficoltà per non poter indirizzare le terapie di cui necessita con una ordinaria anamnesi familiare.

Poiché non si ravvisa la possibilità di interpretazioni della normativa interna in modo conforme alla decisione CEDU, il Tribunale ha investito la Corte costituzionale della legittimità della norma.

Redazione

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento