Adire pregiudizialmente ex art. 267 T.F.U.E. la Corte di Giustizia UE

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A cura di Matteo Acciari e Luca Zamagni Avvocati Axiis Network legale

La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 8870/2020, le libertà unionali fondamentali e l’applicazione uniforme della normativa di derivazione sovranazionale in materia di intermediazione finanziaria: si può adire pregiudizialmente ex art. 267 T.F.U.E. la Corte di Giustizia dell’U.E.? Mettiamoci il punto.
Sulla perfetta armonia tra i principi dettati dalla sentenza Cass. SS.UU. n. 8770/2020, le libertà unionali fondamentali e la normativa settoriale in materia di mercato finanziario.

Indice

1. Una questione annosa

Benché siano trascorsi più di due anni dalla pubblicazione della sentenza Cass. SS.UU. n. 8770/2020 in materia di contratti derivati, il dibattito tra gli operatori del diritto circa la sua portata applicativa e l’effettiva conformità delle conclusioni da essa raggiunte al diritto unionale e settoriale non risulta essersi affatto sopito.
Secondo una certa opinione, invero, sussisterebbe un contrasto tra i principi affermati dalla Cassazione con la summenzionata decisione ed il diritto dell’U.E.: un’incompatibilità di rilevanza tale da generare una lesione delle libertà unionali fondamentali, nonché un pregiudizio all’uniforme applicazione della normativa di derivazione sovranazionale in materia di mercato finanziario.
Si tratta, tuttavia, come già autorevolmente evidenziato[1], di una proposta ricostruttiva non condivisibile, in quanto una pluralità di ragioni depongono per la sua infondatezza.

2. Da una premessa fallace derivano ragionamenti infondati

La tesi del presunto contrasto tra l’intervento nomofilattico e il diritto sovranazionale si fonda su una premessa fallace: la pronuncia delle Sezioni Unite, lungi dallo svolgere considerazioni sulla giustificazione causale e sulla determinabilità dell’oggetto di un contratto atipico, introdurrebbe obblighi informativi in capo agli intermediari di cui non v’è traccia nella normativa ratione temporis applicabile a gran parte del contenzioso pendente, finendo per sanzionare con la nullità accordi perfettamente conformi al diritto sovranazionale e ledendo il principio della certezza del diritto.
In altri termini, dunque, la giurisprudenza di legittimità avrebbe reso più arduo l’esercizio delle libertà di stabilimento (art. 49 T.F.U.E.), di prestazione dei servizi (art. 56 T.F.U.E.) e di circolazione del capitale (art. 63 T.F.U.E.), e avrebbe violato la regola del cd. gold plating, codificata all’art. 25 della direttiva 2006/73/CE. Tale circostanza, peraltro, – secondo taluno – renderebbe opportuno un rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 T.F.U.E. alla C.G.U.E., al fine di deferire alla Corte di Lussemburgo il compito di ponderare l’effettiva compatibilità tra il diritto nazionale – per come interpretato dalla Cassazione – e il diritto unionale appena menzionato.
L’erroneità di una simile prospettazione, tuttavia, è manifesta.
La normativa (nazionale) cui la Cassazione ha dato applicazione – come già messo in luce[2]è quella delle disposizioni generali in tema di contratto (artt. 1322, 1325 e 1346 c.c.), prive di alcun collegamento con fonti (settoriali) di derivazione sovranazionale.
Si tratta, più precisamente, di norme volte a definire i requisiti di validità di qualsivoglia pattuizione, delimitando i confini della libertà contrattuale delle parti. Com’è noto, invero, a differenza del diritto romano, nel nostro ordinamento i privati godono della libertà di stipulare contratti non appartenenti ad alcun tipo nominato, potendo organizzare le operazioni negoziali nei modi più conformi alle proprie esigenze e, dunque, secondo paradigmi più idonei a garantire l’efficienza della loro azione. Tuttavia, tale ampia libertà non è assoluta: il contratto atipico è soggetto al giudizio di meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c. Il potere di controllo del giudice sul negozio giuridico pone, poi, un’indefettibile necessità di bilanciamento di interessi contrapposti (libertà dei contraenti ex art. 41 Cost., da un lato; necessità che le posizioni soggettive e oggettive cui l’ordinamento appresta tutela non siano sottoposte a violazione da parte delle stesse parti libere di contrarre, dall’altro lato). Allo stesso giudice, dunque, è deferito il giudizio circa l’effettiva utilità ed idoneità del contratto ad assolvere una funzione commisurata agli interessi perseguiti. Una valutazione, questa, effettuata dal giudice – come oramai da tempo la giurisprudenza predica – sulla base di un complesso bilanciamento di tutti gli interessi coinvolti, nonché mediante la valorizzazione della causa concreta della pattuizione.
Esclusivamente in forza di simili, pacifiche considerazioni, l’organo supremo della giustizia italiana è giunto, con la sentenza Cass. SS.UU. n. 8770/2020, ad un giudizio di indesiderabilità sociale dei contratti di IRS swap che, a fronte della penalizzante, decisa modulazione degli interessi a favore del solo intermediario, finiscono per risultare privi di una ragione giustificativa.

3. La Suprema Corte ha fatto applicazione di principi e disposizioni appartenenti alla teoria generale del contratto

Le Sezioni Unite, in altri termini, non hanno sanzionato con la nullità ex art. 1418 c.c. tali contratti perché conclusi a seguito della violazione di (pretesi) obblighi informativi di derivazione comunitaria. Piuttosto, hanno sancito l’immeritevolezza degli stessi in quantoin conclamata assenza di talune condizionil’oggetto dello scambio non può dirsi razionale[3]: il modello atipico che si vorrebbe introdurre nel traffico giuridico, così, finisce per risultare inadeguato rispetto alla realizzazione degli interessi che mediante il ricorso allo stesso (entrambe) le parti intendono perseguire. Il metodo seguito dalla Corte, invero, può essere così compendiato[4]: dapprima, la stessa ha proceduto all’individuazione degli interessi che le parti intendevano realizzare; successivamente, ha vagliato l’originaria idoneità del contratto atipico a rispondere a quegli stessi interessi, pervenendo ad un giudizio negativo.
In nessuno dei passaggi in cui si articola l’iter logico-giuridico seguito dalle Sezioni Unite, dunque, vi è menzione di norme settoriali, comportamentali e lato sensu unionali, essendosi la Suprema Corte limitata a far applicazione di principi e disposizioni appartenenti alla teoria generale del contratto.
Pertanto, del tutto inconferente deve qualificarsi il riferimento – che pure viene operato in alcuni contributi – ad una presunta applicazione “retroattiva” di obblighi informativi introdotti dalla normativa comunitaria solo a partire dal 2016; circostanza questa che si porrebbe in contrasto con il principio della certezza del diritto. Lo si ribadisce: in nessun modo la Corte di Cassazione ha dato applicazione, nella fattispecie concreta, a disposizioni successive di derivazione sovranazionale, avendo fondato il proprio convincimento – motivato e pienamente condivisibile – sul rilievo dell’assenza dell’elemento causale in una pattuizione avente un oggetto sproporzionato ed incongruo. In altri termini, la sentenza in questione non si appunta sull’obbligo di informazione e comunicazione, bensì tratta degli elementi del contratto su cui le parti debbono accordarsi all’atto della contrattazione: circostanze queste aventi rilievo ai fini del giudizio sulla causa e sull’oggetto della pattuizione.

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4. La giurisprudenza successiva

La correttezza di una simile ricostruzione, invero, risulta confortata dalla disamina del testo di un’altra, successiva pronuncia della Corte di Cassazione[5], con la quale – confermando le conclusioni cui erano giunte le Sezioni Unite – viene ribadito che, nella specie, “non si tratta di semplice violazione di obblighi informativi (come tale idonea a determinare solo eventuali responsabilità risarcitorie. Cfr. Cass., SU, n. 26724 del 2007; Cass. n. 8462 del 2014), ma di una carenza che – tenuto conto delle descritte peculiarità caratterizzanti la causa e l’oggetto dello strumento in esame, nonchè delle innegabili interazioni tra essi configurabili – investe proprio l’essenza (di una parte) dell’accordo, vale a dire del contratto medesimo (quest’ultimo consistendo, appunto, in un “accordo”. Cfr. art. 1321 c.c. e art. 1325 c.c., n. 1), così da cagionarne la nullità (il dovere di informazione, invece, è fuori del contratto ed è oggetto di mera obbligazione di una delle parti, sanzionata, come si è già detto, con la responsabilità per i danni, e non con la nullità)” (cfr. Cass. civ. Sez. I n. 21830/2021).
Particolarmente a fini ricostruttivi, occorre sottolineare che la giurisprudenza di merito ha dato ampio seguito all’ermeneutica tracciata dalla Suprema Corte, confermando che la mancata pattuizione del mark to market, del suo criterio di calcolo, degli scenari probabilistici e dei costi impliciti comporta la nullità del contratto, ai sensi delle disposizioni generali previste dal codice civile e non delle norme di derivazione europea. Di tal che non ricorrono i presupposti perché venga disposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[6].
Peraltro, del tutto infondato è altresì il paventato contrasto tra il diritto nazionale – per come interpretato dalla citata giurisprudenza di legittimità – e la regola del cd. gold plating.
Orbene, è indubbio che il rinvio pregiudiziale di interpretazione possa avere ad oggetto tanto le disposizioni dei Trattati (lett. “a)” dell’art. 267 T.F.U.E.), quanto gli atti di diritto derivato (lett. “b)”); ma è altrettanto pacifico che lo stesso sia del tutto inammissibile ed inutile allorquando, come nella specie, abbia ad oggetto fonti sovranazionali non applicabili ai casi oggetto di giudizio[7]. La direttiva in questione – non self executing -, difatti, risulta essere stata recepita nel nostro ordinamento solo con il D.Lgs. 3 agosto 2017, n. 129, testo normativo non applicabile né alle fattispecie decise dalla Cassazione, né a molte di quelle pendenti – relative, per lo più, ad operazioni su derivati concluse in un tempo precedente – e da ritenersi non vincolante ai fini dell’interpretazione pretoria delle norme del codice civile.
Al riguardo, sempre per tratteggiare quanto le decisioni della Corte di legittimità abbiano uniformato la giurisprudenza di merito, pare utile riportare l’ordinanza del 2 febbraio 2021 con la quale il Tribunale di Perugia ha così argomentato: “Ritenuto che non sussiste la necessità di dar corso alla richiesta di rinvio pregiudiziale alla CGUE avanzata dalla convenuta ex art. 267 TFUE, dovendo la domanda di pronuncia pregiudiziale “riguardare l’interpretazione o la validità del diritto dell’Unione, e non anche l’interpretazione delle norme del diritto nazionale o questioni di fatto sollevate nell’ambito del procedimento principale” (punto 8 delle “Raccomandazioni ai giudici nazionali” pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, C 439/5 il 25.11.2016); nel caso di specie peraltro trattasi di interpretazione giurisprudenziale di normativa interna che, per quanto dotata di rilevanza in ragione della natura particolarmente qualificata dell’organo decisorio (Cassazione a Sezioni Unite), non ha effetto di stare decisis direttamente vincolante, legittimando pronunciamenti contrari (peraltro, già verificatesi: cfr. ad es. Trib. Bologna 5.1.2021, edita ne ilcaso.it)”.
Ma, ancora, irricevibile sarebbe altresì il rinvio pregiudiziale avente ad oggetto l’interpretazione degli artt. 49, 56 e 63 del T.F.U.E, rispetto ai quali pure la statuizione della Corte Suprema in alcun modo pare possa ritenersi in contrasto.

5. Il paventato contrasto tra diritto unionale e le conclusioni raggiunte dalla Suprema Corte

Anzitutto, assolutamente inconferente deve qualificarsi il riferimento alla libertà di stabilimento, la quale può dirsi violata solo allorquando la normativa di uno Stato membro imponga restrizioni all’accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese (e, in particolare, di società) in capo a cittadini di uno Stato unionale diverso. L’art. 49, peraltro, non impedisce ad uno Stato membro di disciplinare l’esercizio, nel proprio territorio, di un’attività non salariata, sottoponendolo eventualmente a determinate restrizioni e condizioni: è solo necessario che queste trovino applicazione anche nei confronti dei cittadini dello Stato membro (cfr. sentenza C.G.U.E., Commissione c. Francia, del 26 febbraio 1991 in causa C-154/89).
Si tenga presente, ancora, come il rinvio ex art. 267 T.F.U.E. sia ammissibile solo a fronte di una controversia dalla dimensione transfrontaliera. La C.G.U.E., sul punto, ha ripetutamente chiarito come la stessa non abbia competenza a pronunciarsi su questioni puramente interne (cioè su fattispecie che non presentano alcun nesso con qualsiasi delle situazioni regolate dal diritto dell’Unione), salvo ove ricorrano le ipotesi del tutto eccezionali – difficilmente configurabili nella gran parte delle controversie relative ai derivati – di cui alle sentenze Dzodzi[8], Guimont[9] ed Ullens de Schooten[10]. Le disposizioni del Trattato in materia di libera prestazione di servizi e libera circolazione dei capitali, infatti, non si applicano a casi i cui elementi si collocano tutti all’interno di un solo Stato membro.
In ogni caso e ancora, non si vede come la sentenza resa a Sezioni Unite possa avere inciso – anche solo indirettamente – sulle condizioni a cui deve ritenersi soggetto l’insediamento imprenditoriale nel territorio italiano. Non si coglie, dunque, quale sia la rilevanza di un’interpretazione pregiudiziale della norma attinente alla libertà di stabilimento, né come possa una sentenza in tema di difetto causale e dell’oggetto del contratto finire per determinare un effetto discriminatorio.
Riguardo al lamentato contrasto tra la pronuncia della Sezioni Unite della Cassazione e la libertà di prestazione dei servizi, poi, occorre pure rilevare come la liberalizzazione della prestazione dei servizi promossa dal vigente art. 56 T.F.U.E. non possa mai comportare l’esenzione dell’impresa dal rispetto dei principi nazionali che governano le vicende contrattuali. In altri termini, la libertà di circolazione, dovendo contemperarsi con valori altrettanto primari (si pensi alla tutela del cliente e del mercato, alla libertà contrattuale, all’imperatività delle norme dettate in tema di validità del contratto), non comporta la creazione di uno statuto contrattuale differenziato. Non è quindi facendo leva sulla libertà di circolazione che l’impresa può pretendere la validità di pattuizioni negoziali contrastanti con i principi del diritto nazionale (in questo caso, italiano) dei contratti. Se si concludono contratti privi di una causa meritevole e di un oggetto determinabile, non c’è “libertà unionale” che tenga: la sanzione non può che essere quella della nullità.
Non può, dunque, ritenersi in alcun modo condivisibile la posizione di coloro che vedono nell’impostazione promossa dalla Corte di Cassazione un limite infondato all’innovazione finanziaria: se il contratto di swap, infatti, nasce con un impianto astrattamente capace di realizzare l’interesse condiviso e atteso dalle parti (così connotandosi per la razionalità dell’alea) – qualunque esso sia – lo stesso è destinato a superare positivamente la valutazione di meritevolezza ex art. 1322, comma 2 c.c..
D’altronde, le soluzioni normative adottate a livello unionale in tempo successivo alla conclusione degli swaps su cui la Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi dimostrano come la protezione dell’investitore sia un tema centrale per il legislatore europeo e ciò tanto a livello micro economico (ossia quando si affronta il tema del rapporto tra intermediari e clienti), quanto a livello macro economico (quando cioè si tratta di regolare la struttura dei mercati per garantirne l’efficiente funzionamento e la stabilità). L’obiettivo ultimo della legislazione unionale risiede, insomma, nella salvaguardia delle ragioni dell’investitore, garantendo le quali si persegue il più ampio fine della tutela dell’integrità dei mercati: si tratta di un principio di natura generale che regola (anche) la contrattazione degli strumenti finanziari derivati e che, pertanto, deve guidare l’interpretazione delle norme interne. In sintesi, dunque, il diritto dell’intermediazione finanziaria comunitario non può che consentire presidi (anche) di maggior rigore a legislatori ed autorità nazionali, non essendo insensibile al tema della rappresentazione delle probabilità.
 
Si consideri, invero, anche per quanto concerne il paventato contrasto tra l’indirizzo giurisprudenziale in commento e la libertà di cui all’art. 63 T.F.U.E., come l’inserimento – sancito dalla giurisprudenza di legittimità – degli scenari probabilistici nel set informativo che dev’essere condiviso dall’intermediario con l’investitore non rappresenti circostanza nuova o suscettibile di porsi in contrasto con le norme europee. Nel contesto della Mifid, difatti, è indiscusso che il parametro-base della valutazione dell’attività contrattuale attraverso cui vengono prestati servizi di investimento sia costituito dal servire al meglio l’interesse dei clienti e l’integrità dei mercati: prerogative queste che – in forza della specifica natura dello strumento finanziario negoziato – per essere soddisfatte esigono la corretta rappresentazione degli scenari probabilistici al tempo della stipula del contratto.  
Del resto, non è certo la prima volta in cui si assiste ad una declinazione interna del “servire al meglio l’interesse del cliente” attraverso presidi di maggior rigore per specifici strumenti finanziari. Sia sufficiente all’uopo far menzione della Comunicazione Consob del 2 marzo 2009 sui prodotti illiquidi, ove già si raccomandava di fornire al cliente retail analisi di scenario di rendimento, secondo metodologie oggettive.
È da tempo, peraltro, che gli operatori del diritto[11] evidenziano come l’informativa probabilistica –pure in ambito di prodotti finanziari-assicurativi di ramo III (cd. polizze unit e index linked) e fondi comuni di investimento – sia deputata a svolgere una imprescindibile funzione preventiva della tutela del risparmio e del mercato.
Per quanto concerne, infine, la violazione del principio di salvaguardia dell’investitore, occorre evidenziare come la circostanza non sia stigmatizzata dal legislatore europeo con la previsione di specifici rimedi: l’inottemperanza a precisi obblighi informativi, infatti, non è – dalla normativa unionale vigente – sanzionata solo da “remedies” risarcitori.

6. Conclusioni

Il diritto U.E. non si occupa delle conseguenze discendenti dalla violazione e, pertanto, le osservazioni di coloro i quali ritengono che la sanzione della nullità del contratto sia un rimedio sproporzionato, penalizzante ed eccessivo devono ritenersi prive di qualsivoglia appiglio normativo.
In definitiva, alla luce di tutte le considerazioni appena svolte, è da ritenersi del tutto insussistente il paventato contrasto tra diritto unionale e le conclusioni raggiunte dalla Suprema Corte in tema di IRS, così come è da ritenersi preclusa la possibilità di adire ex art. 267 T.F.U.E. la Corte di Giustizia dell’U.E.

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Andrea Sirotti Gaudenzi | Maggioli Editore 2021

  1. [1]

    Sciarrone Alibrandi A, Nessun contrasto tra Cassazione e normativa U.E., in Il Sole 24 Ore del 25 novembre 2020.

  2. [2]

    Sciarrone Alibrandi A., Causa variabile e causa meritevole dei derivati, in Diritto Bancario.it., del Giugno 2020

  3. [3]

    Per approfondimenti Foresta D., La (discutibile) conferma della non meritevolezza degli interest rate swap con funzione di macro hedging, in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, n. 4, 1 luglio 2022, p. 746 e ss.

  4. [4]

    Per approfondimenti Grossule E., Derivati over the counter: speculazione o copertura dei rischi? L’impatto della regolamentazione UE sulla validità dei contratti, in Rivista di diritto bancario, luglio/settembre, 2021, p. 531 e ss.

  5. [5]

    Per approfondimenti Dolmetta A. A. e Serafino Lentin L., Tra «prestazione» e «valore» del mark to market: a margine del derivato prodotto d’impresa, in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, n. 2, 1 marzo 2022, p. 462 e ss.

  6. [6]

    Corte di Appello di Bologna, sentenza del 17 febbraio 2022: Ove occorra accertare la nullità di un contratto derivato IRS OTC per mancata pattuizione nel contratto del mark to market e del suo criterio di calcolo, degli scenari probabilistici e dei costi impliciti, non si ravvisano i presupposti per il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai fini della verifica della compatibilità della normativa italiana al diritto dell’Unione Europea, in quanto le norme interpretate e applicate dal giudice italiano sono le disposizioni generali previste in tema di nullità dei contratti dal codice civile, e non già le norme di settore, di derivazione europea, in materia di obblighi informativi in capi agli intermediari finanziari, ragione per cui il richiamato diritto dell’Unione Europea risulta irrilevante”.
    Cfr., inoltre, Acciari M., Appello Bologna, 17 febbraio 2022 – Contenuto del contratto di Interest Rate Swap, in IlCaso.it ed altresìAcciari M., Derivati degli enti locali: il Tribunale di Venezia si allinea agli orientamenti della Cassazione, in dirittobancario.it

  7. [7]

    Ex multis C.G.U.E., ordinanza 5 settembre 2019, causa C-239/19, Elt Lily and Company; C.G.U.E., sentenza 8 giugno 2006, causa C.60/05, WWF Italia.

  8. [8]

    C.G.U.E., sentenza del 18 ottobre 1990, cause riunite C-297/88 e C-197/89, Massam Dzodzi c. Stato belga, in cui la Corte di Lussemburgo – ribadendo la propria incompetenza in materia di situazioni meramente interne – ha precisato che possa derogarsi a tale fondamentale regola allorquando sia il diritto nazionale a rinviare alla normativa U.E. In tal caso, con motivazione rafforzata, dovrà essere il giudice a quo a dimostrare, pena l’irricevibilità del proprio rinvio, che le disposizioni europee siano state rese applicabili dal diritto nazionale al caso di specie.

  9. [9]

    C.G.U.E., sentenza del 5 dicembre 2000, causa C-448/98, Guimont, nella quale la Corte ha ritenuto ricevibile il rinvio del giudice nazionale che assumeva necessaria l’applicazione del diritto U.E. alla fattispecie puramente interna, al fine di far beneficiare ad un cittadino nazionale dei diritti di cui godrebbe, in virtù del diritto dell’Unione, il cittadino di un altro Stato membro e, quindi, di evitare discriminazioni cd. “alla rovescia”.

  10. [10]

    C.G.U.E., sentenza 15 novembre 2016, causa C-268/15, Ulles de Schooten. In tale pronuncia, la Corte ha precisato che gli elementi concreti (del tutto eccezionali) che consentono di stabilire un collegamento fra l’oggetto o le circostanze di una controversia in cui elementi sono tutti collocati all’interno dello Stato membro e le disposizioni del Trattato relative alle libertà fondamentali devono risultare dalla decisione di rinvio. In siffatte tassative ipotesi, spetta dunque al giudice a quo indicare alla Corte, conformemente all’art. 94 RP Corte, sotto quale profilo – malgrado il suo carattere puramente interno – la controversia nazionale presenti con le suddette disposizioni del Trattato un elemento di collegamento che rende l’interpretazione in via pregiudiziale richiesta necessaria alla sua soluzione.

  11. [11]

    Per approfondimenti, v. M. CERNIGLIA, Esistono divieti comunitari agli scenari di probabilità?, in Diritto Bancario.it, Gennaio 2013

Avv. Luca Zamagni

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