Tribunale Avellino, sez. lav., 7.11.2006 – Dequalificazione come comportamento mobbizzante

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Tra i comportamenti mobbizzanti rientra anche la dequalificazione, cheper un dipendente del pubblico impiego privatizzato non trova applicazione l’art. 2103 c.c., bensì l’ art. 56 D.L.vo 3/2/1 993 n. 29 (ora trasfuso nell’ art. 52 D.L.vo 30/3/2001 n. 165), norma che, pur ricalcando apparentemente quella codicistica, se ne differenzia profondamente: in particolare l’indicata norma del Decreto citato utilizza il principio di equivalenza con riferimento alle mansioni di assunzione (e non alle mansioni da ultimo svolte), e consente al datore di lavoro pubblico l’esercizio dello "ius variandi" nell’ ambito delle mansioni da considerare "equivalenti" in base alla classificazione fornitane dalla contrattazione collettiva.
 
Svolgimento del processo. – Con ricorso del 5/5/03, Tizio adiva questo giudice del lavoro, esponendo di essere dipendente del Comune di *****, inquadrato nella VI° qualifica funzionale LED di Capo Servizio Istruttore di vigilanza nell’ ambito del Comando di Polizia Municipale, a decorrere dal 10/10/02 istruttore amministrativo contabile presso I’ ufficio tributi. Deduceva di aver subito un comportamento vessatorio dall’ Amministrazione dal momento in cui il dott. * assumeva la responsabilità del Comando di Polizia Municipale del Comune stesso (ossia dal 24/12/98), di aver subito una serie di procedimenti disciplinari e il trasferimento all’ Ufficio Tributi del Comune di *, di essere RSU presso il Comune resistente e di aver patito a seguito della condotta persecutoria del datore di lavoro un danno grave al suo stato di salute psicofisica. Tanto premesso, concludeva chiedendo che fosse dichiarato che contro di lui vi era stato un comportamento discriminatorio, persecutorio e vessatorio, invocando un ordine a carico dell’ Amministrazione di porre fine a tale condotta; chiedeva la revoca e/o annullamento di tutti i procedimenti disciplinari. e le disposizioni di carattere vessatorio adottate nei suoi confronti; chiedeva che venisse ordinato all’ Amministrazione di attribuirgli compiti e funzioni corrispondenti alla qualifica D, posizione economica D1; chiedeva altresì, che fosse ordinato all’Amministrazione di consentirgli di svolgere il lavoro e le funzioni formalmente attribuitegli; chiedeva, infine, il risarcimento del danno, da liquidarsi equitativamente, per le vessazioni patite in corso di rapporto. Il tutto con vittoria di spese di lite.
Controparte si costituiva contestando la prospettazione avversa e chiedendo che venisse dichiarato difetto di giurisdizione del G.O., la nullità e/o inammissibilità del ricorso, la nullità e/o inammissibilità delle conclusioni di cui al capo 3) in quanto già oggetto di altro giudizio, e, nel merito, invocando il rigetto della domanda, con vittoria di spese di lite.
Ammessa la prova, escussi i testi, concesso termine per il deposito di note illustrative, all’odierna udienza, all’ esito della discussione, sulle conclusioni delle parti, la causa era decisa come da dispositivo pubblicamente letto.
Motivi della decisione. – La domanda non è fondata.
Priva di pregio è l’eccezione di difetto di giurisdizione del G.O. adito in quanto la controversia attiene ad un rapporto di lavoro alle dipendenze di una pubblica amministrazione, devoluto ex art. 65 d.lgs. 165/2001 alla cognizione del giudice del lavoro, con una richiesta risarcitoria che è conseguenza della domanda principale.
E’ opportuno esaminare in primo luogo la parte di domanda con cui il ricorrente, dipendente del Comune di *, ha chiesto che fosse accertato che l’Amministrazione aveva tenuto nei suoi confronti un comportamento discriminatorio, persecutorio e vessatorio. Al riguardo ha invocato che venisse ordinato di porre fine a tale condotta, con la revoca e/o annullamento di tutti i procedimenti disciplinari e le disposizioni di carattere vessatorio adottate in suo danno, chiedendo il risarcimento del danno patito, da liquidarsi in via equitativa.
Il Comune resistente ha eccepito la nullità del ricorso introduttivo per indeterminatezza e contraddittorietà del petitum. In realtà, come hanno precisato le Sezioni Unite nella sentenza n. 11353/04, i dati fattuali, interessanti sotto diverso profilo la domanda attrice, devono tutti essere esplicitati in modo esaustivo o in quanto fondativi del diritto fatto valere in giudizio o in quanto volti ad introdurre nel giudizio stesso circostanze di mera rilevanza istruttoria, non potendosi negare la necessaria circolarità, per quanto attiene al rito del lavoro, tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova. Da qui l’impossibilità di contestare o richiedere prova – oltre i termini preclusivi stabiliti dal codice di rito su fatti non allegati nonché su circostanze che, pur configurandosi come presupposti o elementi condizionanti il diritto azionato, non siano stati esplicitati in modo espresso e specifico nel ricorso introduttivo del giudizio. Da questo esposto, consegue che la carenza espositiva investe, nel caso di specie, non tanto l’ammissibilità delle domande (anche in virtù di quanto indicato dalla citata sentenza delle Sezioni Unite) ma il merito delle pretese fatte valere in giudizio.
La questione fatta valere dal ricorrente in questa prima parte di domanda riguarda il fenomeno del mobbing che, nel mondo del lavoro, è da considerare come un atteggiamento ostile, di persecuzione psicologica e violenza morale, posto in essere in forma sistematica e duratura attraverso pratiche vessatorie di diverso tipo da parte di uno o più soggetti nei confronti di una vittima. Può essere mobbing verticale, ossia realizzato dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico nei confronti di un dipendente sia per il perseguimento di una strategia di espulsione dall’ azienda (c.d. bossing) sia per questioni meramente personali, ovvero mobbing orizzontale, costituito dal comportamento di più pari grado, coalizzati tra loro contro il lavoratore vessato, oppure mobbing ascendente, posto in essere da tutti o da un gruppo compatto di sottoposti contro il superiore gerarchico. Gli elementi caratterizzanti tale fenomeno sono costituiti dalla sistematicità del comportamento, dalla durata della condotta e sua idoneità a produrre effetti lesivi, dall’ irrilevanza dell’ elemento psicologico e dei motivi, nonché dalle conseguenze dannose. E questi aspetti caratteristici del fenomeno denunciato non sono apparsi all’ esito dell’ istruttoria, Infatti i testimoni escussi (*, *, *, *, *, *, * e *) hanno riferito di episodi di contrasto intercorsi tra il Tizio ed il Comandante dei Vigili Urbani (dott. *, che ha occupato il posto dal dicembre 1998) nonché tra il ricorrente ed il Sindaco, citando anche singoli casi di rimproveri subiti dal lavoratore per presunte inefficienze nell’ attività lavorativa. Ma ciò che non è emerso dalla prova testimoniale espletata è proprio la sistematicità del comportamento, la continuità della presunta condotta mobbizzante e la sua idoneità a produrre effetti lesivi, l’irrilevanza dell’ elemento psicologico e dei motivi, nonché le conseguenze dannose.
Queste considerazioni conducono al rigetto della parte di domanda fondata sul comportamento persecutorio e vessatorio che sarebbe stato tenuto dall’ Amministrazione in danno del ricorrente. E’ altresì da sottolineare che non sono stati indicati dal soggetto a ciò onerato (il lavoratore) "i procedimenti disciplinari" di cui si chiede l’annullamento in sede di conclusioni del ricorso.
Peraltro non vi è traccia di una condotta discriminatoria tenuta dal Comune resistente in danno del Tizio per la sua attività di rappresentante sindacale.
Restano da esaminare gli altri due capi di domanda: quello relativo al riconoscimento al Tizio della qualifica D, posizione economica Dl, e la richiesta di ordine a carico dell’ Amministrazione "di consentirgli di svolgere il lavoro e le funzioni formalmente attribuitegli".
Riguardo a quest’ ultimo capo di domanda, è da osservare che, nonostante la sua formulazione generica, il ricorrente ha inteso rivendicare l’ attribuzione dei compiti che il medesimo aveva sino alla nomina del nuovo Comandante dei Vigili Urbani, dott. *, contestando in tal modo l’ assegnazione all’ Ufficio Tributi (ma precisando che dall’ ottobre 2001 – vedi pag. 4 del ricorso – gli era stato consentito di rientrare in servizio presso il Comando di Polizia Municipale) e deducendo la violazione dell’ art. 2103 c.c. e dell’ art. 2 del CCNL sull’ Ordinamento professionale dell’ 1/4/99. Va sottolineato che il Tizio non contesta il suo inquadramento (se non nel capo di domanda relativo al riconoscimento della qualifica D) nel VI° livello ed una dequalificazione anche formale con il suo passaggio all’ Ufficio Tributi.
In verità, al dipendente pubblico privatizzato che lamenti un’ illegittima dequalificazione professionale non si applica I’art. 2103 c.c., bensì I’ art. 56 D.L.vo 3/2/1 993 n. 29 (ora trasfuso nell’ art. 52 D.L.vo 30/3/2001 n. 165), norma che, pur ricalcando apparentemente quella codicistica, se ne differenzia profondamente: in particolare l’indicata norma del D.L.vo cit. utilizza il principio di equivalenza con riferimento alle mansioni di assunzione (e non alle mansioni da ultimo svolte), e consente al datore di lavoro pubblico l’esercizio dello "ius variandi" nell’ ambito delle mansioni da considerare "equivalenti" in base alla classificazione fornitane dalla contrattazione collettiva. Inoltre, il disposto del comma I art. cit. è connotato dal carattere di imperatività, risultante, oltre che dal suo tenore letterale, anche dal dettato del comma 6, laddove se ne sancisce la sua modificabilità a opera della contrattazione collettiva. Tuttavia, se il dipendente pubblico privatizzato sia stato adibito a mansioni pur sempre rientranti in quelle della figura professionale di appartenenza, in medesima posizione economica (come nel caso di specie), in quanto il mutamento di attività ha riguardato esclusivamente il suo contenuto materiale, i compiti da ultimo assegnati sono equivalenti a quelli di assunzione nell’ ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi o comunque corrispondenti alla qualifica in seguito raggiunta e, quindi, le eccezioni che il dipendente avrebbe acquisito una professionalità specifica nell’ ambito della mansione precedentemente svolta e che tale patrimonio professionale sarebbe compromesso dall’ impiego in mansioni proprie della medesima qualifica, ma da evadere in un diverso ambito operativo, appaiono giuridicamente irrilevanti, specie laddove si considerino i criteri ispiratori del t.u. cit., in cui è forte a deriva verso un’ "ampia flessibilità" (cfr. art. 2 comma I lett. b, D.L.vo n. 165 del 2001), che la produzione collettiva ha, in termini generali, recepito, se non accentuato. Nella disciplina del pubblico impiego, pertanto, il demansionamento del lavoratore deve essere valutato in rapporto astratto alle mansioni della sua qualifica di appartenenza, senza possibilità di indagine sui compiti in concreto svolti. E la mancata deduzione di una dequalificazione del ricorrente anche formale (ossia relativa al livello di appartenenza del lavoratore) porta ad un rigetto del relativo capo di domanda.
Infine, quanto alla richiesta di riconoscimento della qualifica D, posizione economica D1, è da riconoscere che la stessa ha costituito oggetto di altro giudizio, introdotto da Tizio con ricorso del 27/5/2002 e definito con sentenza di rigetto di questo Tribunale n. */2004 (depositata il 30/1/2004), non impugnata (come attestato al verbale dell’ udienza di discussione dal procuratore del ricorrente) e – pertanto – divenuta irrevocabile.
Discende da tutto quanto precede il rigetto dell’intera domanda.
Valutazioni di carattere oggettivo e soggettivo giustificano la compensazione tra le parti delle spese di lite.
P.Q.M.– Il tribunale a) rigetta la domanda; b) compensa tra le parti le spese di lite.

Staiano Rocchina

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