Quando ricorre il reato previsto dal primo comma dell’art. 326 cod. pen. e quando, invece, ricorre quello di cui al comma terzo sempre di questo articolo.
(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 326)
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Indice
1. La questione
Il Tribunale di Catanzaro, sezione per il riesame, annullava un provvedimento coercitivo del Giudice per le indagini preliminari distrettuale, revocando gli arresti domiciliari a carico del ristretto, e dichiarando la competenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Vibo Valentia. Ciò posto, avverso questo provvedimento ricorreva per Cassazione il P.M. presso il Tribunale di Catanzaro il quale deduceva, tra i motivi ivi addotti, vizio di motivazione dell’impugnata ordinanza quanto all’affermata insussistenza di una contestazione avente ad oggetto la condotta criminosa di cui al terzo comma dell’art. 326 cod. pen..
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2. La soluzione adottata dalla Cassazione
La Suprema Corte riteneva il motivo summenzionato infondato.
In particolare, gli Ermellini addivenivano a siffatta conclusione facendo prima di tutto presente che la norma incriminatrice dell’art. 326 cod. pen. contempla, nel primo comma, la rivelazione della notizia di ufficio destinata a rimanere segreta e, nel terzo comma, l’avvalersi della notizia stessa, rilevando al contempo che il coordinamento delle due disposizioni porta a concludere, per motivi letterali, sistematici e teleologici (superfluità altrimenti della previsione del terzo comma), che la condotta del pubblico ufficiale che riveli un segreto di ufficio è esaustivamente prevista nel primo comma, applicabile anche se tale rivelazione è fatta per fini di utilità patrimoniale o in adempimento addirittura di una promessa corruttiva, concorrendo in questo caso la corruzione con il delitto di cui alla disposizione in esame.
Oltre a ciò, era altresì fatto presente come siffatto delitto costituisca un reato proprio e di pericolo concreto che si risolve in una fattispecie plurisoggettiva anomala, essendo la condotta incriminata legata a chi riceve la notizia ma alla previsione della punizione nei confronti del solo autore della rivelazione, nel senso cioè che il mero recettore della notizia non può essere assoggettato a pena in conformità del principio di legalità, fatta salva, in base all’ordinaria disciplina del concorso di persone nel reato, la eventuale partecipazione morale dell’extraneus destinatario della rivelazione nelle forme della determinazione e della istigazione o anche dell’accordo criminoso (Sez. U, n. 420 del 28/11/1981), fermo restando che la fattispecie di cui al terzo comma, introdotta dalla legge 26 aprile 1990, n. 86, riguarda invece l’illegittimo avvalersi da parte del pubblico ufficiale o del concorrente extraneus – che lo sfrutti per un indebito profitto patrimoniale – non del valore economico eventualmente derivante dalla rivelazione del segreto, ma proprio del contenuto economico in sé delle informazioni che devono rimanere segrete, eventualmente concorrendo con quella prevista nel primo comma, sicchè nel delitto di cui a questo comma, l’indebito profitto patrimoniale, per sé o altri, alla cui realizzazione è finalizzata la condotta del pubblico agente e che incide sull’elemento psicologico del reato definendolo come dolo specifico, deve essere una conseguenza diretta dell’utilizzo dei segreti di ufficio da parte dello stesso intraneus o del terzo beneficiario dell’operazione (Sez. 6, n. 39428 del 31/03/2015; Sez. 1, n. 39514 del 03/10/2007).
La Suprema Corte, quindi, ribadiva come il reato di utilizzazione di segreti d’ufficio si concreti, in un’azione diversa dalla mera trasmissione della notizia ad estranei all’ufficio, che non comporta necessariamente la rivelazione del segreto e che, ove si verifichi, configura un’ipotesi di concorso con il reato previsto dall’art. 326, primo comma (Sez. 6, n. 37559 del 27/09/2007; n. 4512 del 21/11/2019).
Concluso questo excursus giurisprudenziale, i giudici di piazza Cavour stimavano di dovere condividere il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la rivelazione da parte del pubblico agente di un segreto di ufficio, anche laddove sia compiuta per fini di utilità patrimoniale o addirittura in adempimento di una promessa corruttiva, integra il reato previsto dal primo comma dell’art. 326 cod. pen., eventualmente in concorso con il delitto di corruzione. Ricorre viceversa la diversa fattispecie prevista dal terzo comma della stessa disposizione quando il pubblico ufficiale, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete; sfrutti quindi, a scopo di profitto patrimoniale, lo specifico contenuto economico, in sé considerato, delle informazioni destinate a rimanere segrete e non il valore economico eventualmente derivante dalla loro rivelazione (Sez. 6, n. 5390 del 27/01/2022; Sez. 6, n. 16802 del 24/03/2021; Sez. 6, n. 4512 del 21/11/2019; Sez. 6, n. 9409 de1 09/12/2015; Sez. 6, n. 37559 del 27/09/2007).
Orbene, a fronte di tale approdo ermeneutico, i giudici di legittimità ordinaria reputavano come l’ordinanza impugnata si fosse attenuta ad esso, visto che il perimetro fattuale disegnato dall’ordinanza coercitiva si attagliava compiutamente alla fattispecie prevista dal primo comma dell’art. 326 cod. pen., con la conseguenza che, per la Corte di legittimità, questa, per la pena comminata, non consentiva la misura cautelare adottata.
3. Conclusioni
La decisione in esame desta un certo interesse, essendo ivi chiarito quando ricorre il reato previsto dal primo comma dell’art. 326 cod. pen. e quando, invece, ricorre quello di cui al comma terzo sempre di questo articolo.
Si afferma difatti in tale pronuncia, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, che la rivelazione da parte del pubblico agente di un segreto di ufficio, anche laddove sia compiuta per fini di utilità patrimoniale o addirittura in adempimento di una promessa corruttiva, integra il reato previsto dal primo comma dell’art. 326 cod. pen., eventualmente in concorso con il delitto di corruzione, mentre ricorre viceversa la diversa fattispecie prevista dal terzo comma della stessa disposizione quando il pubblico ufficiale, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete e, quindi, sfrutti, a scopo di profitto patrimoniale, lo specifico contenuto economico, in sé considerato, delle informazioni destinate a rimanere segrete e non il valore economico eventualmente derivante dalla loro rivelazione.
Questo provvedimento, quindi, ben può essere preso nella dovuta considerazione ogni volta di debba appurare quale tra le due fattispecie, contemplate ambedue da siffatta norma incriminatrice, sia configurabile.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale tematica giuridica sotto il versante giurisprudenziale, non può che essere che positivo.
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