La riforma della residenza fiscale delle persone fisiche

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L’art.1 del decreto legislativo n. 209 del 27 dicembre 2023, stabilisce importanti novità in tema di residenza fiscale delle persone fisiche, nel quadro della riforma della fiscalità internazionale delegata al Governo con la legge n. 111 del 9 agosto 2023.
La detta legge iscrive la riforma nel quadro degli interventi volti ad armonizzare la normativa italiana con la prassi internazionale e con le direttive dell’OCSE.
In particolare, il decreto interviene sulla nozione di domicilio e sui risvolti probatori dell’iscrizione all’A.I.R.E.
Il proposito delle considerazioni che seguono è quello di analizzare se e fino a che punto il legislatore delegato abbia mantenuto fede al progetto di svecchiare la normativa riguardante presupposti e condizioni della nazionalità fiscale.

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Indice

1. Al via il conteggio delle “frazioni di giorno”

L’art. 2, comma 2 del T.U.I.R. sulla residenza delle persone fisiche è stato modificato dall’art. 1 del decreto legislativo n. 209/2023 con la seguente disposizione:
Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta, considerando anche le frazioni di giorno, hanno la residenza ai sensi del codice civile o il domicilio nel territorio dello Stato ovvero sono ivi presenti. Ai fini dell’applicazione della presente disposizione, per domicilio si intende il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona. Salvo prova contraria, si presumono altresì residenti le persone iscritte per la maggior parte del periodo di imposta nelle anagrafi della popolazione residente.
Giova, per meglio apprezzare la riforma, riportare la precedente formulazione dell’art. 2, comma 2 TUIR:
ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.
Dalla comparazione tra i due testi emerge che il criterio temporale per determinare la nazionalità fiscale, cioè quello che prevede la residenza in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta (i famosi 183 giorni, o 184, per gli anni bisestili), è rimasto invariato, salvo l’inciso sulle “frazioni di giorno”, che, ora, bisognerà calcolare.
Finora, le frazioni di giorno venivano computate con riguardo ai giorni trascorsi all’estero, secondo la Circolare del Ministero delle Finanze n. 304 del 1997, ma il Governo ha sentito l’esigenza di rendere altrettanto ragionieristico il computo dei giorni trascorsi in Italia.
Insomma, la residenza in Italia o in un altro Stato, quanto alla permanenza nei rispettivi territori, si giocherà (anche) sulle ore, che, se non attentamente contate, potranno rivelarsi fatali.
A proposito di ore (e giorni) fatali, mi pare opportuno rilevare che qui il Governo ha perso l’occasione per dirimere anche un’altra questione: quella dello split year o frazionamento dell’anno d’imposta, che si verifica quando una persona risiede in Italia solo per una frazione dell’anno, mentre per il resto dell’anno risiede all’estero, laddove il trasferimento implichi assoggettamento a imposta.
Allo stato, dunque, se trascorro 183 giorni in Italia (frazioni comprese) sono residente fiscale in Italia, anche se, per i 182 giorni rimanenti risiedo all’estero e qui pago le tasse.
Vero è che tale paradosso è mitigato in presenza di Convenzioni, come quella siglata dall’Italia con la Germania o con la Svizzera.
Ma nella malaugurata ipotesi che la convenzione non ci sia, il contribuente sarà assoggettato a tassazione in Italia anche per i redditi prodotti nell’altro Stato e ivi tassati.
Sul punto l’Agenzia delle Entrate (Circolare n. 471/E/2008) è stata chiara: “[non si può] estendere analogicamente la norma sul frazionamento alle convenzioni che non la prevedono espressamente, poiché ciò violerebbe il principio di sovranità”.
Una ragion di Stato che però vessa il contribuente, come nel caso esaminato dalla circolare or ora citata, in cui il torto dell’emigrante fu quello di essersi trasferito in Svezia, con cui l’Italia non ha preso accordi sul punto.
Il Governo e i suoi consulenti, perciò, sarebbero potuti intervenire su più importanti frazioni che non su quelle ricadenti semplicemente nel quadrante dell’orologio.
Si vede che, nella fretta della riforma, se ne saranno scordati.
Per avere un quadro completo della normativa tributaria, si consiglia il Codice tributario 2023, che raccoglie tutta la disciplina nazionale e sovranazionale.

2. Il “nuovo” domicilio fiscale

Se la nozione di residenza, per la determinazione della nazionalità fiscale, rimane quella civilistica, il Governo ha pensato bene, per adeguarsi ai dettami della globalizzazione tributaria [1], di rifarsi a una nozione di domicilio, elaborata perlopiù in ambito OCSE, che considera domicilio il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona.
A ciò si fa precedere l’inciso per cui il domicilio può essere bypassato dal requisito della mera presenza nel territorio dello Stato: “ovvero sono ivi presenti”, di cui parlerò a breve.
Finora il codice civile è stato il punto di riferimento per la nozione di domicilio, qui definito come la sede principale degli affari e interessi della persona.
Non ripercorrerò qui la lunga storia delle interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali intorno a questo inciso [2], limitandomi, per economia di trattazione, a riportare l’interpretazione della Cassazione, per cui, per la nozione di domicilio debbono essere presi in considerazione sia i rapporti economici della persona, che quelli personali, dal momento che gli “interessi” vanno intesi come concetto in contrapposizione a quello di affari e, dunque, afferenti alla sfera personale [3].
Nella riforma, si parla invece, come abbiamo detto, solo di relazioni personali e familiari della persona.
Devo riconoscere che qui il legislatore delegato pare recepire le raccomandazioni dell’OCSE in merito agli interessi vitali in quanto riferibili ai legami affettivi e personali.
Per chiarire questo richiamo devo però chiedere al lettore di seguirmi in un breve itinerario normativo che chiarirà la posizione dell’OCSE: ritengo che questo possa chiarire la portata della modifica adottata dal Governo.
Cercherò di essere sintetico e non tediare il lettore con le precisazioni effettuate in sede OCSE e recepite, con alterne fortune, dalla nostra giurisprudenza di legittimità e dall’Amministrazione finanziaria, che ci catapulterebbero in un oceano di glosse e note di cui non voglio caricare chi leggerà queste riflessioni.
Ebbene, il giustamente assai noto art. 4 del Modello di Convenzione dell’OCSE, che è il canovaccio su cui si basano le altrettanto note Convenzioni contro le doppie imposizioni, ci dice che quando una persona è residente contemporaneamente in due Stati contraenti bisogna fare ricorso a una serie di criteri, tra i quali l’abitazione permanente e, appunto, gli interessi vitali [4].
L’abitazione permanente corrisponde alla residenza secondo il nostro codice civile, è la dimora abituale.
Gli interessi vitali, corrispondono al nostro domicilio.
Ma l’OCSE ha voluto essere più precisa.
Andiamo a leggere il Commentario all’art. 4.
Con riguardo al centro degli interessi vitali [5] si precisa che sono il luogo in cui:
le relazioni personali ed economiche dell’individuo sono più ristrette. Si avrà riguardo alle sue relazioni familiari e sociali, alla sua occupazione, alle sue attività politiche, culturali o di altro genere, alla sede d’affari o a quella dalla quale amministra le sue proprietà.
Il nostro art. 43 cod. civ., in relazione al domicilio parla di affari e interessi, mentre nel Commentario paiono primeggiare gli interessi, intesi come legami familiari e affettivi.
Ora, questa prevalenza, non mi pare dia luogo ad una verifica prima degli aspetti personali e poi di quelli economici, come se quelli economici si dovessero considerare solo in subordine.
Sono portato invece a pensare che il Commentario abbia invece voluto qui fornire una cornice che chiarisse il senso complessivo di quegli interessi vitali, non ulteriormente specificati dall’art. 4.
E credo di poter citare come testimone la sentenza del 12 luglio 2001 della CGCE C-262/99, secondo la quale, in caso di interessi sia personali che economici in due Stati membri, occorre verificare dove si trova il centro permanente degli interessi della persona e che, se una valutazione complessiva non è possibile, bisogna soffermarsi sui legami personali e quindi verificare la presenza di un’abitazione, dove i figli vanno a scuola, ecc. [6].
Dunque, mi pare di poter concludere che i legami personali hanno sì un valore preminente, ma solo laddove una valutazione complessiva, che tenga conto di tutti gli aspetti volti a determinare l’identikit fiscale della persona, sia lacunosa o insoddisfacente.
Ora, la riforma voluta dal Governo parla di relazioni personali e familiari, per individuare il domicilio.
Non mi pare ci sia spazio per affari e commerci vari.
Il Governo pare preferire la religione del focolare domestico al vile denaro.
Cosa può comportare un criterio unidirezionale come questo?
Se dobbiamo trarne le debite conseguenze, chi lavora e risiede all’estero, ma ha legami affettivi in Italia potrebbe vedersi rinnegata la residenza fiscale altrove.
Casi del genere non sono di scuola, dal momento che hanno riguardato illustri connazionali di stanza all’estero ma che l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto rei di evasione fiscale, a dire il vero, non sempre con successo, come nel caso Muti (Cass. 17.11.2010, n. 23249).
In tali sentenze l’accento è stato posto sugli affari.
Mi chiedo cosa ne sarebbe oggi, in base alla riforma, di questi contribuenti emigrati all’estero, con figli in Italia…
Lo stesso dicasi di chi produce reddito in Italia ma ha la famiglia che lo aspetta nel paese di residenza: cederà l’Agenzia delle Entrate di fronte alle ragioni dell’unità familiare?
Ho difficoltà a crederlo.
E sebbene l’armamentario interpretativo di giudici e fisco italiani sia tra i più sofisticati, per come è formulato il decreto, a me pare che o se ne traggono le debite conseguenze o lo si cambia.
Il che, a mio avviso, sarebbe opportuno, giacché l’OCSE ci invita a valutare la situazione fiscale della persona nel suo complesso e non a comparti stagni.
La riforma poteva essere occasione per adeguare il dettato del TUIR alla realtà profondamente mutata del mondo del lavoro e degli stili di vita, che esige, forse, dettati normativi più fluidi e comprensivi, in luogo di espunzioni che, per voler sprovincializzare il nostro diritto, finiscono per menomarlo.

3. Il requisito della “presenza” nel territorio dello Stato

Devo dire che, quando nel progetto di riforma, comparve il requisito alternativo della mera presenza nel territorio dello Stato, rimasi interdetto perché, a parte la difficoltà a denotare in termini di teoria dell’interpretazione il senso normativo di tale presenza, tale requisito, ponendosi come alternativo rispetto a residenza e domicilio, crea surrettiziamente una nuova categoria di fatto giuridico, la presenza sul territorio, appunto, che, a prescindere dal suo esatto significato, non fa altro che aggiungere un elemento in più di valutazione in fattispecie già abbastanza complesse come quelle riguardanti la residenza fiscale.
Inoltre, se lo spirito del decreto è quello di svecchiare la nostra normativa, aderendo alle raccomandazioni dell’Unione Europea e dei suoi organismi, non mi pare che si menzioni da qualche parte questo requisito della presenza, men che mai nel modello di Convenzione.
In caso di conflitto di residenze, visto che il criterio non compare nelle convenzioni contro le doppie imposizioni, in mancanza di una nazionalità fiscale attribuibile in base a residenza o domicilio, non si potrebbe ricorrere ai trattati contro le doppie imposizioni.
Vero è che una ipotesi del genere, considerando che ci sono anche i criteri del soggiorno abituale e della nazionalità, appare più ipotetica che reale.
Ma proprio per questo non se ne sentiva affatto la necessità.

4. Eliminata la presunzione assoluta di residenza per i non iscritti all’A.I.R.E.

Se nel diritto, come nella scienza, bisogna, a mio giudizio, puntare, come sosteneva Popper, alla falsificazione delle teorie, sottoponendole a critica serrata, è anche vero che quando qualcosa va per il verso giusto occorre riconoscerlo.
Ho cercato di mettere in risalto, nelle argomentazioni che precedono, alcuni nodi della recente riforma, ma devo dire che, sul finire di una disposizione non proprio felicissima, il Governo ha avuto un moto oso dire di buon senso, liberando la questione della nazionalità fiscale da un fardello che si è sempre voluto giustificare con il principio della primazia delle forme nel diritto tributario, ma che la prassi ha dimostrato del tutto avulso dalle dinamiche che riguardano chi si trasferisce all’estero.
Sto parlando della presunzione assoluta di residenza fiscale in Italia in mancanza di iscrizione all’AIRE.
L’art. 2, comma 2 TUIR, come modificato dalla riforma, termina infatti così:
Salvo prova contraria, si presumono altresì residenti le persone iscritte per la maggior parte del periodo di imposta nelle anagrafi della popolazione residente.
Pertanto, pur permanendo la presunzione di residenza fiscale in Italia per chi non risulta iscritto all’AIRE e dunque presente nelle liste dell’APR – e pur tenendo conto delle multe ora irrogate a chi non si iscrive all’AIRE secondo la legge di bilancio 2024 – è ammessa la prova contraria.
Prevalgono, finalmente, aggiungerei, visti i danni che l’applicazione perentoria del criterio formale dell’iscrizione all’AIRE ha provocato, criteri sostanziali di verifica della residenza fiscale.
Pur essendo possibile ricorrere ai trattati contro le doppie imposizioni, in presenza di ‘dimenticanze’ circa l’iscrizione all’AIRE, è anche vero che sia la Cassazione, sia l’Agenzia delle Entrate, non hanno mancato di difendere e applicare in più di un’occasione la presunzione assoluta di residenza in Italia per gli italiani non iscritti all’AIRE, quand’anche residenti a pieno titolo altrove.
Una modifica, dunque, provvida e che vale a rintuzzare una norma che, per altri versi, presenta più di una lacuna, sia sotto l’aspetto della tecnica normativa in sé, sia per quanto riguarda il richiamo alle raccomandazioni provenienti dall’UE, che l’Italia, recepisce senz’altro, ma, spesso, con interpretazioni frettolosamente ‘creative’.

Note

  1. [1]

    Dice giustamente Maria Cecilia Fregni in “Riforma, per la residenza fiscale una valutazione sostanziale”, NTplus Fisco, 15.05.2023, “anche alla luce del vasto contenzioso che si è creato in questi anni, occorre rendere meno “ingessati” i requisiti formali di individuazione dei soggetti Irpef (nell’ordine e alternativamente: iscrizione nell’anagrafe di un comune o domicilio o residenza in base al Codice civile), a discapito della sostanza ed effettività di tante situazioni concrete”.

  2. [2]

    Mi permetto di rinviare, sul punto, al mio “L’art. 2, comma 2 del TUIR: una vita difficile”, Diritto.it, 08.12.23, disponibile qui: https://www.diritto.it/art-2-comma-2-del-tuir-una-vita-difficile/

  3. [3]

    Tra le altre, Cass. 01.03.2019, n. 6081; Cass. 29.12.2011, n. 29576.

  4. [4]

    Gli altri due sono il “soggiorno abituale” e la “nazionalità”.

  5. [5]

    Sull’abitazione permanente non riscontro particolari chiarimenti rispetto al nostro concetto di dimora abituale.

  6. [6]

    Anche la Cassazione si è ispirata a questa impostazione nella sentenza n. 9856 del 14.04.2008.

Avv. Savino Mauro

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