Riconosciuto il risarcimento al lavoratore anche in assenza di mobbing, nei casi in cui vengono poste in essere condotte mortificanti nonostante manchi l’intento persecutorio

Redazione 06/11/12
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Lucia Nacciarone

Possibile, secondo i giudici di legittimità liquidare singoli danni morali al prestatore d’opera il quale abbia subìto condotte morsicanti accertate in giudizio.

Con la sentenza n. 18927 del 5 novembre 2012 della Sezione lavoro, è stato accolto il ricorso di una lavoratrice anziana che, in seguito all’introduzione di un nuovo sistema informatizzato e all’assunzione di nuovi collaboratori all’interno della farmacia dove prestava la propria opera, si era sentita fuori posto ed aveva tentato il suicidio.

Il gesto estremo della donna era stato però ricondotto dai giudici di merito più ad una sua risposta emotiva eccessiva rispetto alle mutate condizioni lavorative che ad una reale condotta persecutoria dei responsabili e dei colleghi di lavoro.

La donna tuttavia aveva manifestato un disagio in quanto non si ritrovava più nelle mansioni da svolgere né era stata ricollocata in qualche altro modo.

Sul punto, i giudici di Cassazione hanno chiarito che quando anche il mobbing lamentato dal lavoratore non sussiste, non si può tuttavia escludere che il datore sia condannato a risarcire al dipendente il danno non patrimoniale rispetto a singole condotte mortificanti.

Invero, il giudice di merito è tenuto a esaminare tutti i singoli episodi potenzialmente vessatori denunciati dal lavoratore, e, laddove vi sia un responsabilità del datore, condannarlo a risarcire il danno morale.

Perciò gli atti devono tornare alla Corte d’appello in diversa composizione che terrà conto del principio enunciato.

Redazione

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