La responsabilità della struttura sanitaria per l’errato posizionamento di una protesi all’anca. Per approfondire questa materia, consigliamo il volume Manuale pratico operativo della responsabilità medica
Indice
1. I fatti: errato posizionamento della protesi
Una signora si era sottoposta ad un intervento chirurgico per il posizionamento di una protesi all’anca, in quanto le era stata diagnosticata una croxartrosi, ma dopo l’esecuzione dell’intervento subiva una reazione avversa che le causava una metallosi. A causa di ciò, la paziente era costretta a sottoporsi ad un nuovo intervento chirurgico per revisionare la protesi precedentemente inserita. Purtroppo, anche dopo il predetto intervento alla paziente residuavano dei postumi permanenti.
In ragione di ciò e ritenendo che la metallosi fosse derivata da un errato posizionamento della protesi, la signora agiva giudizialmente nei confronti della struttura sanitaria dove era stato eseguito il primo intervento chirurgico, chiedendo la condanna della stessa al risarcimento del danno biologico permanente dalla medesima subito nonché di quello da invalidità temporanea.
In secondo luogo, l’attrice lamentava un danno da consenso informato per non aver ricevuto, in maniera esaustiva e completa, le informazioni relative al primo intervento chirurgico cui si era sottoposta ed in particolare quelle relative alla tipologia di protesi che le sarebbe stata inserita nell’anca.
La struttura sanitaria si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto della domanda attorea e contestando gli esiti della CTU che era stata depositata nel precedente giudizio per ATP svoltosi tra le parti, in quanto riteneva che la metallosi non era dipesa da un non corretto posizionamento della protesi, bensì dalla tipologia di protesi impiegata (come le era stato riferito dalla casa produttrice della protesi, che – qualche anno dopo l’intervento in questione – aveva comunicato alla struttura sanitaria le controindicazioni nell’uso di quel tipo di protesi sui pazienti di genere femminile). Per approfondire questa materia, consigliamo il volume Manuale pratico operativo della responsabilità medica
Manuale pratico operativo della responsabilità medica
La quarta edizione del volume esamina la materia della responsabilità medica alla luce dei recenti apporti regolamentari rappresentati, in particolare, dalla Tabella Unica Nazionale per il risarcimento del danno non patrimoniale in conseguenza di macrolesioni e dal decreto attuativo dell’art. 10 della Legge Gelli – Bianco, che determina i requisiti minimi delle polizze assicurative per strutture sanitarie e medici. Il tutto avuto riguardo all’apporto che, nel corso di questi ultimi anni, la giurisprudenza ha offerto nella quotidianità delle questioni trattate nelle aule di giustizia. L’opera vuole offrire uno strumento indispensabile per orientarsi tra le numerose tematiche giuridiche che il sottosistema della malpractice medica pone in ragione sia della specificità di molti casi pratici, che della necessità di applicare, volta per volta, un complesso normativo di non facile interpretazione. Nei singoli capitoli che compongono il volume si affrontano i temi dell’autodeterminazione del paziente, del nesso di causalità, della perdita di chances, dei danni risarcibili, della prova e degli aspetti processuali, della mediazione e del tentativo obbligatorio di conciliazione, fino ai profili penali e alla responsabilità dello specializzando. A chiusura dell’Opera, un interessante capitolo è dedicato al danno erariale nel comparto sanitario. Giuseppe Cassano, Direttore del Dipartimento di Scienze Giuridiche della European School of Economics di Roma e Milano, ha insegnato Istituzioni di Diritto Privato presso l’Università Luiss di Roma. Avvocato cassazionista, studioso dei diritti della persona, del diritto di famiglia, della responsabilità civile e del diritto di Internet, ha pubblicato numerosissimi contributi in tema, fra volumi, trattati, voci enciclopediche, note e saggi.
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2. Le valutazioni del Tribunale
Preliminarmente il giudice ha affrontato gli aspetti generali della responsabilità della struttura sanitaria, evidenziando che il paziente che agisce in giudizio per il risarcimento del danno conseguente ad un errore medico deve provare il rapporto contrattuale intercorso con la struttura sanitaria ed allegare l’inadempimento dei medici e provare la sussistenza del nesso causale tra la condotta posta in essere da detti medici e il danno lamentato.
Dopo l’assolvimento di detti oneri a carico del paziente danneggiato, spetterà alla struttura sanitaria – per andare esente da responsabilità – dimostrare di aver esattamente adempiuto alla prestazione sulla medesima gravante oppure l’impossibilità di detta prestazione dovuta a causa alla medesima non imputabile.
Per quanto riguarda il danno da violazione del consenso informato, invece, il giudice ha ricordato che la violazione degli obblighi informativi dovuti al paziente può essere invocata dal paziente medesimo in due diverse circostanze, che possono essere anche entrambi sussistenti: (i) sia per far valere il danno rappresentato dalla lesione del diritto alla salute; (ii) sia per fare valere il danno rappresentato dalla violazione del diritto all’autodeterminazione del paziente medesimo.
Nel caso in cui il paziente invochi un danno alla salute, dovrà provare che egli, qualora fosse stato correttamente informato, non si sarebbe opposto all’intervento sanitario. Invece, nel caso in cui il paziente invochi una lesione del suo diritto all’autodeterminazione, dovrà allegare e provare anche i pregiudizi che gli sono derivati dalla violazione degli obblighi informativi da parte della struttura sanitaria.
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3. La decisione del Tribunale: responsabilità sanitaria
Nel caso di specie, per quanto riguarda il danno alla salute che la paziente ha lamentato, il giudice ha ritenuto provato il nesso di causalità tra il primo intervento di posizionamento della protesi all’anca realizzato dai sanitari della struttura convenuta e i danni lamentati (in particolare la metallosi e il conseguente danno biologico temporaneo e permanente).
Infatti, dalla CTU svolta è emerso che vi sia stato uno stretto rapporto causale tra il predetto trattamento sanitario e gli esiti negativi conseguenti a detto intervento (cioè la persistenza del dolore, l’impotenza funzionale dell’anca e la presenza di elevati livelli di ioni metallo, cromo e cobalto all’interno della paziente). La CTU ha altresì accertato che la presenza di metallosi nella paziente ha determinato un danno irreparabile al muscolo del gluteo, la cui grave insufficienza ha determinato la zoppia della paziente.
Inoltre, la CTU ha accertato che detta metallosi è correlata causalmente all’errato posizionamento della protesi nell’anca della paziente e non invece ad un difetto di produzione della protesi medesima, dei suoi materiali o componenti.
In considerazione di ciò, il giudice ha ritenuto che la nuova patologia subita dalla donna (metallosi, con conseguente dolore all’anca e zoppia) è da ricondursi unicamente alla condotta dei sanitari.
Mentre la struttura sanitaria non ha assolto all’onere sulla medesima gravante di provare che l’inadempimento non è alla stessa imputabile, in quanto secondo il giudice la comunicazione da parte della casa produttrice della protesi con cui informava la struttura sanitaria circa l’inutilizzabilità di detta protesi nei pazienti femminili non è idonea ad escludere la responsabilità della struttura per l’errato posizionamento della protesi medesima (in ragione di quanto accertato dai CTU circa la connessione causale tra detto errato posizionamento e i danni subiti dalla paziente).
Per quanto riguarda, invece, il danno da lesione del consenso informato, il giudice ha ritenuto che la parte attrice si sia limitata a lamentare genericamente l’inidoneità del modulo prestampato che le era stato dato a fornirle una adeguata informazione sul trattamento cui si sarebbe sottoposta, per mancanza dell’indicazione del modello di protesi che sarebbe stato impiantato.
Tuttavia, la paziente attrice non ha neanche allegato che la stessa, qualora fosse stata informata circa il modello che sarebbe stato utilizzato dai sanitari nell’intervento, non si sarebbe sottoposta all’intervento medesimo (che tra l’altro era necessario per risolvere la patologia artrosica che le era stata diagnosticata). Inoltre, la paziente non ha neanche chiarito quali sarebbero i danni che la stessa avrebbe patito a causa della lesione del diritto all’ autodeterminazione.
In considerazione di tutto quanto sopra, il giudice ha accolto la domanda attorea limitatamente alla richiesta di risarcimento del danno biologico subito dalla paziente (sia in punto di invalidità temporanea, che in punto di invalidità permanente); mentre ha rigettato la domanda volta al risarcimento del danno per lesione del diritto all’ autodeterminazione della paziente medesima.
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