Anna Costagliola
Sulla regola dell’«oltre il ragionevole dubbio», formalizzata nell’art. 533 c.p.p. per effetto della L. 46/2006 (cd. Legge Pecorella), in modo da condizionare la pronunciabilità delle sentenze di condanna, si è da ultimo pronunciata la Cassazione con la sentenza n. 931 del 13 gennaio 2012. Detta regola impone di pronunciare condanna quando il dato probatorio acquisito lascia fuori solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui concreta realizzazione nella fattispecie in esame non trova il benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana. Viene così cristallizzato il principio di civiltà giuridica secondo cui deve pervenirsi ad una pronuncia di condanna solo quando si abbia la «certezza processuale» che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta sia attribuibile all’agente come fatto proprio.
Secondo i giudici di Cassazione il principio dell’«al di là di ogni ragionevole dubbio», pur se non più accompagnato dalla regola dell’inappellabilità delle sentenze assolutorie, espunta dalla sentenza della Consulta 36/2007, presuppone comunque che, in mancanza di elementi sopravvenuti, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sullo stesso materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza sia sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria che deve quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza. Gli ermellini precisano, pertanto, come non basti, per la riforma caducatrice di un’assoluzione, una mera diversa selezione e valutazione del materiale probatorio, caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto alla valutazione operata dal primo giudice, occorrendo piuttosto una forza persuasiva superiore, tale da far venire del tutto meno quella situazione di «ragionevole dubbio» che ha impedito di pronunciare sentenza di condanna. La condanna, invero, presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza.
Nello specifico caso portato all’attenzione della Corte, questa ha riconosciuto come il giudice di secondo grado, nel riformare la sentenza di assoluzione impugnata, non abbia rispettato i criteri sopra indicati, omettendo di dissipare nella relativa pronuncia di condanna i dubbi sulla colpevolezza dell’imputato ragionevolmente rilevati dal primo giudice. Ciò che ha indotto all’accoglimento del ricorso proposto.
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