Non è reato definire il gerarca nazista Priebke «boia»

Redazione 12/04/13
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Lucia Nacciarone

Con la sentenza n. 8566 del 9 aprile 2013 la Cassazione ha confermato l’orientamento dei giudici di merito sulla responsabilità di una giornalista, accusata di diffamazione per aver utilizzato, ricordando l’eccidio delle Fosse Ardeatine, a proposto del comandante delle S.S. Priebke, l’espressione «boia».

Il ricorso era stato proposto dal tutore di Priebke, il quale chiedeva un risarcimento di circa 200 milioni di lire alla giornalista, rea di aver fatto uso dell’espressione offensiva sulla testata giornalistica «La Repubblica».

Nulla da fare, dicono i giudici, sia di merito che di legittimità.

L’espressione non può essere considerata ingiuriosa, in quanto si limita semplicemente a descrivere il ruolo del comandante in occasione dell’eccidio. Infatti, avvisano gli ermellini, condividendo e richiamando la lapidaria ma anche esaustiva ed incensurabile motivazione della sentenza di merito, la definizione tecnico-linguistica del termine boia e cioè «colui che ha l’ufficio di eseguire le sentenze di morte», corrisponde esattamente alle mansioni svolte dall’uomo nel corso della seconda guerra mondiale.

Pertanto, nessuno dei tre motivi di doglianza proposti dal ricorrente (falsa applicazione di legge ex art. 27 della Costituzione, contraddittoria motivazione su un punto rilevante della controversia ed erronea motivazione) possono essere presi in considerazione, in quanto il semplice ed efficace richiamo al significato lessicale del termine così come rinvenuto nel dizionario della lingua italiana ha escluso ogni valenza e contenuto diffamatorio dell’espressione oggetto di censura.

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