Minori e bullismo: gli aspetti processuali

Carlo Vellani 22/02/21
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SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il ruolo dell’attività giurisdizionale civile nei confronti del bullismo. – 3. Il cyberbullismo. – 4. Riflessioni conclusive.

Premessa

La tutela dei minori è oggetto di specifici interventi, anche normativi, da tempo infatti l’ottica vuole essere quella di porre in posizione preminente l’interesse “superiore” del minore[1]. Il fenomeno del bullismo, in costante aumento nel nostro Paese, come nel resto del mondo, non è una fattispecie autonoma civile o penale, neanche in campo minorile. Lo si identifica in atti di aggressione che si sostanziano in comportamenti tesi alla sopraffazione o intimidazione, sia fisica che psicologica, che il bullo commette intenzionalmente nei confronti della sua vittima, in modo reiterato[2]. La tutela nei confronti di queste condotte è affidata alle norme generali poste a protezione di chi subisca atti illeciti. Questo può favorire la flessibilità delle risposte, ma vi è il rischio che soprattutto la ripetizione nel tempo non emerga nella sua dimensione significativa e vengano in considerazione atomisticamente i singoli atti illeciti commessi dal bullo. Forme di accanimento, come ripetute irrisioni o scherzi pesanti, se considerate isolatamente, potrebbero essere ritenute come ordinari episodi di screzi tra ragazzi, immeritevoli di rilievo sul piano giuridico. Certo i mezzi e le modalità con cui si compiono atti di bullismo sono in costante e rapida evoluzione, non facile quindi cristallizzarli normativamente, come non è facile individuare l’effettiva ampiezza dei danni provocati, che possono anche protrarsi nel tempo, dopo la cessazione degli atti di bullismo.

Nell’ottica della tutela del minore, ma qui il profilo è di fatto educativo, sociale, vi sono i comportamenti che esulano da una diretta tutela giuridica, pur se in grado di generare alti gradi di sofferenza, come l’ignorare costantemente una persona, escluderla dalle attività o viceversa manipolarla o controllarla.

L’attuale situazione pandemica pare aver acutizzato il problema del bullismo in famiglia, che vede vittime direttamente i fratelli del bullo e pone ai genitori il problema di gestire da un lato il conflitto, dall’altro la situazione psicologica e educativa del figlio violento. Sono situazioni che fanno emergere chiaramente come la reazione al bullismo non possa essere passiva. Le vittime di un fratello prepotente possono deteriorare in chiave di frustrazione e rabbia i loro rapporti nei confronti di genitori indifferenti, come possono alterare anche patologicamente il loro rapporto con il riposo o l’alimentazione.

Il cyberbullismo è un fenomeno si può dire autonomo dal bullismo, rispetto a cui vede la perdita della dimensione fisica, con conseguente sensazione di anonimato e impunibilità. Il bullismo è limitato alle sedi di incontro, di contatto, frequentemente avviene in ambiente scolastico, nel cyberbullismo invece manca ogni limite fisico, geografico, di tempo di realizzazione degli atti, e diventa ancora più difficile sfuggirvi, può esservi una diffusione incontrollabile di dati o documenti, possono essere realizzate sostituzioni persona[3]. Anche con l’uso del termine cyberbullismo si descrive il contenitore di una pluralità di condotte sanzionabili civilmente e penalmente, condotte che possono violare anche diritti di rango costituzionale. Il cyberbullismo ha una propria definizione giuridica, legata alla tutela dei minori, contenuta nell’art. 1 l. 29 maggio 2017, n. 71[4], che non si pone in chiave sanzionatoria o repressiva e, al comma 1, identifica l’obiettivo della legge nel contrasto del fenomeno con azioni a carattere preventivo e con una strategia di attenzione, tutela ed educazione nei confronti dei minori coinvolti, sia nella posizione di vittime sia in quella di responsabili di illeciti.

Non è quindi inquadrabile come cyberbullismo, secondo la l. n. 71 del 2017, perché non rivolto contro minori, il fenomeno presentatosi ultimamente sulle piattaforme di didattica a distanza, di offese rivolte agli insegnanti. Possono essere sanzionabili come oltraggio a pubblico ufficiale, con l’ulteriore aspetto che le piattaforme on line e i social sono considerati luogo pubblico. La riflessione da fare riproduce quella precedente, l’immaterialità degli spazi digitali attenua se non fa addirittura scomparire i freni inibitori, scatenando fenomeni che nella DAD stanno mostrando un elevato numero di studenti che non hanno remore nell’insultare o irridere i compagni o i docenti.

Il ruolo dell’attività giurisdizionale civile nei confronti del bullismo

Riferendosi a soggetti minori, a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, dalla potestà genitoriale si è passati alla responsabilità genitoriale, dove lo stesso termine sottolinea non solo la necessità di tutela dell’interesse dei figli, tramite l’educazione e la vigilanza da parte dei genitori, ma anche l’aspetto del farsi carico, nell’àmbito dei rapporti di filiazione, delle conseguenze, anche giuridiche, dei loro comportamenti.

Una recente decisione, che affronta sotto vari profili un caso di bullismo tra minori, è rappresentata da Cass. civ., sez. III, 10 settembre 2019, n. 22541[5]. Un pugno a un coetaneo ha generato un procedimento penale a carico dell’autore del fatto, chiusosi con un non luogo a procedere, e un procedimento civile per risarcimento danni intentato dal danneggiato contro il danneggiante e gli esercenti la responsabilità genitoriale, i quali hanno portato come difesa una lunga serie di atti di bullismo perpetrati dal danneggiato verso l’attuale danneggiante. Quest’ultimo giudizio, giunto in Cassazione, ha visto la Suprema corte esprimere una sensibilità verso chi è stato esposto continuamente a atti di bullismo, non tale da giustificare la reazione violenta della vittima, nel caso di specie inoltre non immediatamente successiva agli atti di violenza subiti, ma tale da ritener applicabile il primo comma dell’art. 1227 c.c. e la conseguente riduzione del risarcimento. La Corte non ha escluso la responsabilità che l’art. 2048 c.c. pone a carico dei genitori, i quali hanno l’onere di impartire ai figli l’educazione necessaria per non recare danni a terzi, nonché di vigilare sul fatto che l’educazione impartita sia adeguata al carattere e alle attitudini del minore, dovendo pertanto rispondere delle carenze educative cui l’illecito commesso dal figlio sia riconducibile[6]. La reazione violenta non può però essere letta come comportamento illecito a sé stante, ignorando le situazioni di vittimizzazione che ne costituivano il sostrato, anche perché il bullismo non dà vita ad un conflitto meramente individuale e richiede invece una risposta collettiva delle istituzioni. Il bullismo vede un’insufficienza dei soli rimedi giuridici, e in assenza di prove in relazione alle modalità con cui le istituzioni, e in particolare la scuola, fossero intervenute per arginare il fenomeno, la Cassazione riconosce il concorso di colpa, anche se la reazione aggressiva è avvenuta in un momento diverso[7]. La Cassazione richiama dunque il ruolo degli istituti scolastici cui i minori sono affidati, decisamente assenti nel caso di specie[8].

In sostanza la responsabilità civile ha, anche in questo contesto, come normativa di riferimento: art. 2043 c.c. risarcimento per fatto illecito, art. 2046 c.c. imputabilità del fatto dannoso, art. 2047 c.c. danno cagionato dall’incapace, art. 2048 c.c. responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte, art. 147 c.c. doveri verso i figli.

Dal punto di vista processualcivilistico assumono rilievo i profili legati alla prova e ai compiti del consulente tecnico d’ufficio, come pure quanto concerne l’ascolto dei minori nei procedimenti giudiziari che li riguardano, pur se questo aspetto non vede caratterizzazioni articolari.

Nel caso di minore incapace di intendere e di volere[9], artt. 2046 e 2047 c.c., il risarcimento è dovuto da chi è tenuto alla sorveglianza dell’incapace e incombe sul genitore del danneggiante la prova dell’affidamento ad altro soggetto della sorveglianza, prova particolarmente rigorosa, dovendo egli provare di non aver potuto impedire il fatto e quindi dimostrare un fatto impeditivo assoluto[10].

Se il minore che ha compiuto atti dannosi è invece capace di intendere e di volere, si applica l’art. 2048 c.c., che prevede una presunzione di responsabilità dei genitori, concorrente con quella del minore, che la giurisprudenza lega a un difetto di educazione e di vigilanza. La lettera dell’art. 2048 c.c. rende i genitori responsabili per i figli «che abitano con essi» e li libera da responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto.

Per quanto concerne il requisito della coabitazione una recente pronuncia della Corte di cassazione lo ha ritenuto indefettibile, perché solo la convivenza può consentire l’adozione di quelle attività di sorveglianza e di educazione il cui mancato assolvimento giustifica la responsabilità[11].

Per quanto concerne la prova liberatoria di non aver potuto impedire il fatto, come detto, la giurisprudenza fa riferimento ai doveri di educazione e di vigilanza[12], e chiede sia dimostrato dai genitori di aver impartito al figlio un’adeguata educazione come di aver vigilato su di lui. È quindi chiesta la positiva prova di aver ben adempiuto ai propri doveri ex art. 147 c.c., in relazione all’età e al carattere del minore come ai contesti familiari e sociali in cui vive. Non si interpreta la norma facendo riferimento alla prova di non aver potuto impedire il fatto, atteso che si tratta di prova negativa[13]. Si tratta di una prova decisamente ardua[14], anche perché l’inadeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata su un minore può essere desunta dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di immaturità e di diseducazione del minore, conseguenti al mancato adempimento dei doveri incombenti sui genitori[15]. Viceversa non è conforme a diritto, per incompatibilità logica, la valutazione reciproca, e cioè che dalle modalità del fatto illecito possa desumersi l’adeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata[16].

Problemi specifici nascono quando gli atti di bullismo siano compiuti da più soggetti. Dal punto di vista civilistico, dato che non si può essere ritenuti responsabili dei danni che non si è concorso a provocare, occorrerà delimitare le singole responsabilità. Qualora il fatto illecito si articoli in una pluralità di azioni o omissioni poste in essere da più soggetti, occorrerà verificare se si tratti di diversi segmenti di una unica catena causale, culminata in un danno unitariamente apprezzabile, o se in realtà si tratti di episodi autonomi. In questo secondo caso gli atti sono da tenere distinti anche sotto il profilo causale, avendo provocato fatti dannosi diversi, dei quali solo il partecipante a ciascun episodio può essere ritenuto responsabile. In questo contesto soccorre la vittima l’art. 2055 c.c., che prevede una responsabilità solidale dei bulli, e giova anche sul piano processuale, in quanto, nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali, quindi non vanno provate singole quantificazioni dei danni[17]. Il giudice potrà anche valutare quali conseguenze possa avere il fatto che tra i soggetti responsabili ve ne siano uno o più che abbiano avuto un ruolo marginale, perché potrebbero essere le dinamiche del “branco” ad aver impedito la loro dissociazione dagli atti illeciti, sia per il timore di essere esclusi dal gruppo, che per quello di poter divenire loro stessi vittime. Posizione alleggerita se riguarda un unico minore.

La responsabilità degli insegnanti, pure prevista nell’art. 2048 c.c., è limitata al tempo in cui i minori sono sotto la loro vigilanza, e può quindi aversi una responsabilità per culpa in vigilando, e anche essi sono liberati da responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto. In tema di responsabilità civile degli insegnanti per omessa vigilanza, si è però avuta la sottrazione degli insegnanti statali alle conseguenze dell’applicabilità nei loro confronti della presunzione di cui all’art. 2048, comma 2, c.c., nei giudizi di danno per culpa in vigilando, ad opera dell’art. 61 l. 11 luglio 1980, n. 312. La prova del dolo o della colpa grave dell’insegnante rileverà soltanto ove l’amministrazione eserciti, successivamente alla sua condanna, l’azione di rivalsa nei confronti del medesimo[18].

In ambito scolastico viene in considerazione anche la responsabilità contrattuale, in quanto l’ammissione dello studente a scuola determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’alunno nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni[19]. L’amministrazione scolastica è responsabile anche per culpa in organizzando, deve quindi predisporre tutti gli accorgimenti necessari affinché siano evitate situazioni pericolose e non venga arrecato danno agli alunni[20]. Responsabilità contrattuale che concorre comunque con quella extracontrattuale[21].

Venendo a quello che è il ruolo del consulente tecnico d’ufficio il riferimento va al complesso problema della liquidazione dei danni. È evidente il principio per cui il giudice può anche disattendere le risultanze di una CTU, purché motivi gli elementi di valutazione adottati e gli elementi probatori utilizzati, specificando le ragioni per cui ha ritenuto di discostarsi dalle conclusioni del CTU[22]. Proprio in relazione a situazioni di bullismo i danni soprattutto non fisici vanno risarciti anche alla luce delle proiezioni nel tempo che le violenze potranno avere per la vittima e il giudice, che può avere un quadro più completo dei fatti, può discostarsi dalle conclusioni del consulente tecnico, valorizzando anche il punto di vista relazionale ed esistenziale. Recentemente il problema è stato affrontato dal Tribunale di Reggio Calabria[23]. Il tribunale riconosce al CTU di aver ricostruito in modo dettagliato il pregiudizio dinamico-relazionale patito dalla vittima, in grave sovrappeso, che soffre di ansia immotivata, facile irascibilità, cefalea molto frequente, iperidrosi alle mani, claustrofobia, ritiene però che il CTU abbia errato nella diagnosi e nella conseguente quantificazione del danno biologico, essendosi basandosi unicamente sulla mancanza di una storia clinica documentata per patologie psichiche, tanto da ritenere superfluo ogni approfondimento in tal senso. Il giudice, valorizzando, quale peritus peritorum, gli elementi tecnico-valutativi offerti dal CTU, ha reputato che la diagnosi più appropriata per qualificare e quantificare i pregiudizi psichici conseguenti alle vessazioni subite in ambito scolastico, fosse quella indicata dal CTP, ossia un cronico disturbo post-traumatico da stress, da quantificarsi quindi in misura assai più elevata[24].

Altro principio da sottolineare nega che la CTU possa essere utilizzata al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume e, conseguentemente, non deve essere disposta qualora la parte intenda supplire con tale strumento alla deficienza delle proprie allegazioni od offerte di prova, ovvero compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi non provati[25].

Un punto di rilievo nei giudizi che riguardano i minori è quello dell’obbligo per il giudice di procedere al loro ascolto[26], e costituisce violazione del principio del contraddittorio e dei diritti del minore il suo mancato ascolto, quando non sia sorretto da un’espressa motivazione sull’assenza di discernimento, tale da giustificarne l’omissione[27].

Il cyberbullismo

Il rapporto tra soggetti minori e la rete internet è complesso e su un piano più generale è evidente come i minori necessitino di protezione, avendo una ridotta consapevolezza dei rischi connessi alle loro attività on line e sui social, e non conscendo a sufficienza i propri diritti e le possibilità di tutela, a partire da quanto riguarda il trattamento dei loro dati personali[28]. A questo si aggiunge frequentemente un deficit culturale dei genitori rispetto ai social, genitori che altrettanto frequentemente non esercitano alcuna forma di controllo. La protezione del minore da interferenze «arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa o nella sua corrispondenza» come la tutela da «lesioni illecite del suo onore della sua reputazione» è prevista nell’art. 16 Conv. New York del 1989[29] e specificata nel GDPR[30] e nel Codice in materia di protezione dei dati personali[31]. Si vogliono apprestare, normativamente, misure che proteggano i minori nell’utilizzo dei dati personali, in relazione all’ampia e diretta offerta di servizi della società dell’informazione. I pericoli ai quali il minore è esposto nell’uso di internet, oltre a evidenziare l’assoluta importanza di una tutela specifica degli stessi, impongono anche un rafforzamento degli obblighi connessi alla responsabilità genitoriale.

La questione della tutela contro il bullismo, in questa dimensione dematerializzata, trova disposizioni specifiche con la citata l. n. 71 del 2017 in materia di cyberbullismo. Come detto non si tratta di un provvedimento innovativo sotto il profilo della responsabilità civile, anche se contiene una definizione delle condotte riconducibili al cyberbullismo.

Il provvedimento comunque appresta forme di tutela. All’art. 1, comma 3, l. n. 71 del 2017, viene indicato come individuare il soggetto attraverso cui avviene la diffusione dell’attività del cyberbullo, definito come il «gestore del sito internet»[32], aspetto importante perché a lui, insieme al titolare del trattamento o al social media, ci si rivolge per l’oscuramento, la rimozione o il blocco di qualsiasi dato personale del minore, diffuso nella rete internet. Di questo si occupa il successivo art. 2 l. n. 71 del 2017, per cui un minore ultraquattordicenne, un genitore, o un soggetto esercente la responsabilità del minore, che ritiene di essere leso, per la pubblicazione di contenuti non voluti, può chiedere l’oscuramento di tali contenuti e, ciò direttamente, senza dover fare ricorso al giudice. Se entro un giorno dal ricevimento dell’istanza, il responsabile non comunica di avere assunto l’incarico di provvedere all’oscuramento, rimozione o blocco richiesto, ed entro quarantotto ore non vi abbia provveduto, o quando non è possibile identificare il titolare del trattamento o il gestore del sito o del social media, la domanda può essere presentata, con segnalazione o reclamo, al Garante per la protezione dei dati personali, che entro due giorni dalla ricezione della richiesta, provvede ai sensi degli art. 143 e 144 d.lgs. n. 196 del 2003 codice privacy.

Si ha quindi uno strumento immediato, e questo consente una certa efficacia, anche se è evidente che, una volta immessi in rete, è praticamente impossibile la completa rimozione di foto, video o altri dati. La diffusione avviene attraverso una serie innumerevole di strumenti e applicazioni di condivisione, di messaggistica, ecc., con una circolazione alla fine inarrestabile[33]. Va però ricordato che è possibile risalire alle attività svolte in internet, a chi ha diffuso un contenuto, ai contatti, ai download; i comportamenti possono essere tracciati, ricostruiti.

L’art. 2 l. n. 71 del 2017 specifica che il contenuto da oscurare deve essere identificato da chi propone l’istanza tramite l’URL (Uniform resource locator) e purtroppo non è difficile spostare i contenuti su di un diverso URL, come è difficile contrastare un illecito realizzato attraverso un’attività in streaming. Un rafforzamento di questa tutela viene dalla recente introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 612 ter c.p. che punisce la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, denominato anche reato di “revenge porn”, che è una delle principali novità contenute nella l. 19 luglio 2019, n. 69 c.d. “codice rosso”. Comunque con l’art. 2 l. n. 71 del 2017 si è individuato uno strumento di protezione senz’altro utile, essendo un procedimento non giurisdizionale con carattere d’urgenza.

L’art. 7 l. n. 71 del 2017 prevede poi uno speciale provvedimento amministrativo: l’ammonimento da parte del questore del cyberbullo[34]. Il questore, assunte, se necessario, informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l’istanza, convoca il minore, unitamente ad almeno un genitore o ad altra persona esercente la responsabilità genitoriale e lo ammonisce oralmente, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale di detto ammonimento.

Infine si può ricordare l’art. 4, comma 3, l. n. 71 del 2017, che prevede, presso ciascuna istituzione scolastica, l’individuazione di un docente referente con il compito di coordinare le iniziative di prevenzione e di contrasto del cyberbullismo.

Va a maggior ragione riproposto quanto segnalato al paragrafo precedente in ordina alla culpa in organizzando in cui incorre l’istituzione scolastica, in questo caso qualora non siano strutturate e attuate tutte le misure idonee a prevenire fenomeni di cyberbullismo.

In generale va comunque richiamato quanto esposto nel paragrafo precedente sugli aspetti processualcivilistici del bullismo. Si può aggiungere che, oltre alle azioni sopra descritte della l. n. 71 del 2017, può anche essere possibile il ricorso ai provvedimenti d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., qualora non si possa raggiungere per quella via la necessaria tutela.

La giurisprudenza di merito ha evidenziato alcuni caratteri specifici legati all’utilizzo dello strumento tecnologico da parte di minori.

La circostanza che il minore sia ultraquattordicenne non fa venire meno il dovere di un’educazione adeguata, anche in ordine all’utilizzo dei mezzi di comunicazione, inoltre, tenuto conto della pericolosità di tali mezzi, i genitori devono compiere attività di verifica e controllo sia sull’effettiva acquisizione da parte del minore dei valori trasmessi sia sull’utilizzo della rete, che deve sostanziarsi in una limitazione sia quantitativa che qualitativa dell’accesso[35]. Punto quest’ultimo frequentemente ribadito in giurisprudenza[36]

In ordine alla responsabilità dei genitori ex art. 2048 c.c., si ripropongono le considerazioni svolte nel paragrafo precedente relative alla culpa in vigilando e in educando, per cui la responsabilità parentale può essere esclusa soltanto qualora i genitori dimostrino di aver integralmente adempiuto al dovere di educare la prole attraverso lo sviluppo nella stessa di una adeguata capacità critica e di discernimento.

Nel caso di diffusione di fotografie tramite social da parte di minorenni, contenenti l’immagine nuda di una coetanea senza il consenso dell’interessata, la circostanza che al momento della commissione dell’illecito la fotografia fosse già diffusa all’interno della comunità di appartenenza del soggetto fotografato e che ciò fosse dovuto, tra l’altro, alla sua condotta disinibita, attenua la responsabilità civile, ma non la esclude. Sussiste in capo alla persona ritratta, e ai genitori della stessa, un danno non patrimoniale consistente nella lesione di una pluralità di interessi costituzionalmente protetti, tra cui il diritto alla riservatezza, alla reputazione, all’onore, all’immagine, all’inviolabilità della corrispondenza[37]

Nel paragrafo precedente ho accennato alla circostanza che gli atti di bullismo possano essere compiuti da più soggetti, questo può ovviamente accadere anche nel cyberbullismo, dove la platea di chi è coinvolto negli illeciti può esse molto ampia e comprendere anche soggetti che neppure conoscono la vittima. Le persone coinvolte possono assumere una funzione meramente passiva, possono cioè rendersi spettatori dell’attività altrui, guardando il materiale pubblicato, come possono invece farsi coinvolgere dal cyberbullo nella trasmissione della sua attività illecita, scaricando il materiale, condividendolo, segnalandolo, su alcuni social votandolo, contribuendo in sostanza alla sua diffusione. In rete è però anche possibile che un soggetto terzo rispetto al bullo, di sua spontanea volontà, si attivi per rendere disponibili ad altri i contenuti illeciti. Certamente anche essi non sono esenti da responsabilità.

Riflessioni conclusive

La prima forma di difesa da bullismo e cyberbullismo non può che essere quella preventiva dell’educazione e della vigilanza, compito dei genitori e anche delle istituzioni scolastiche. È un’affermazione tanto scontata quanto di non facile attuazione, soprattutto se i contesti familiari e sociali in cui vive il minore non sono ideali. Per il cyberbullismo, in ogni contesto, è oggi molto impegnativo per i genitori effettuare l’attività di vigilanza, che non può che sostanziarsi in una limitazione sia quantitativa che qualitativa dell’accesso a internet e ai social. Occorre anche uno sforzo conoscitivo dei genitori, per avere un minimo di competenze che li mettano in grado di comprendere il funzionamento di internet e dei social, che potrebbe anche consentire loro di utilizzare gli specifici programmi e funzioni di “controllo genitori”. D’altronde i genitori non possono permettersi di restare dei semplici osservatori, quando non essere assenti. Il punto di partenza può essere quello di una costante comunicazione con i figli e, quando possibile, anche con le istituzioni scolastiche.

Dal punto di vista della giurisdizione, un profilo non considerato nei paragrafi precedenti, ancora poco rilevante quantomeno sul piano dei numeri, è quello dell’instaurazione di azioni giudiziarie direttamente contro social o piattaforme internet. Oltre ad avvenimenti molto tragici, due dei quali ho ricordato nel presente lavoro[38], sono numerose le situazioni in cui le sole logiche di profitto dei social rendono difficile la corretta gestione delle tematiche legate al bullismo. In generale molti genitori non rimangono indifferenti alla dipendenza che i figli possono manifestare rispetto ai social media.

Sotto questi profili sarà interessante osservare il possibile utilizzo della nuova disciplina in materia di azione di classe e di tutela inibitoria collettiva, artt. 840 bis ss. c.p.c.

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[1] Basti il richiamo all’art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 20 novembre 1989 (ratificata in Italia con l. n. 176 del 1991), che afferma esplicitamente la «preminenza» di tale interesse. Similmente l’art. 24 Carta dir. UE, in relazione ai diritti del fanciullo, stabilisce che «in tutti gli atti relativi ai bambini, compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente».

[2] Il ventaglio dei comportamenti descritti nel testo come sopraffazione o intimidazione sia fisica che psicologica, è molto ampio e la casistica, che giunge anche alle aule dei tribunali, vede insulti, denigrazioni, diffamazioni, poi estorsioni e furti, minacce, ricatti, anche episodi di violenza privata, si giunge a percosse e lesioni o danneggiamenti che possono essere materiali oppure della sfera di riservatezza, ma questi sono solo esempi.

Il fenomeno è oggetto di studio da tempo, vedi Cipriani, Il fenomeno del bullismo: quale responsabilità per i genitori e gli insegnanti?, in Fam. e dir., 2009, pagg. 74 ss., che sottolinea come sia un fenomeno multifattoriale, influenzato da modelli culturali, dal clima sociale, dalle peculiari caratteristiche dei soggetti coinvolti, nonché da modelli familiari, da stili educativi e dalle dinamiche di gruppo.

Se ne occupa la dir. MIUR 5 febbraio 2007, n. 16 Linee di indirizzo ed azioni a livello nazionale per la prevenzione e la lotta al bullismo.

[3] Bullismo e cyberbullismo, sebbene presentino una comune matrice, individuabile nel carattere vessatorio e ricorsivo della condotta in danno del minore, mostrano numerose aree di divergenza secondo Bocchini e Montanari, Le nuove disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo (l. 29 maggio 2017, n. 71), in Le Nuove leggi civ. comm., 2018, pag. 341.

[4] Che al comma 2 lo definisce come: «Qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo».

[5] Su cui vedi Murgo Frammenti sul bullismo, tra doveri educativi e compensazioni risarcitorie, in Resp. civ. e prev., 2020, pagg. 505 ss.; Ponzanelli, Educazione e responsabilità civile: il caso del bullismo, in Danno e resp., 2019, pagg. 762 ss.; in senso critico nei confronti della decisione Vercellone, Concorso di colpa del danneggiato in caso di provocazione? Bullismo e “risarcimenti attenutati dalla condotta”, in Danno e resp., 2020, pagg. 185 ss.

[6] Richiamando sul punto Cass. civ., sez. III, 22 aprile 2009, n. 9556, per cui la responsabilità dei genitori per i fatti illeciti commessi dal minore con loro convivente, prevista dall’art. 2048 c.c., è correlata ai doveri inderogabili posti a loro carico all’art. 147 c.c. ed alla conseguente necessità di una costante opera educativa, finalizzata a correggere comportamenti non corretti ed a realizzare una personalità equilibrata, consapevole della relazionalità della propria esistenza e della protezione della propria ed altrui persona da ogni accadimento consapevolmente illecito. Per sottrarsi a tale responsabilità, essi devono pertanto dimostrare di aver impartito al figlio un’educazione normalmente sufficiente ad impostare una corretta vita di relazione in rapporto al suo ambiente, alle sue abitudini ed alla sua personalità.

[7] La Corte afferma che, pur non spettando al giudice esprimere valutazioni di tipo etico e sociale relativamente al comportamento dei consociati, non deve ritenersi preclusa la possibilità di usare la responsabilità civile allo scopo di offrire risposte, ovviamente rigorosamente incardinate sul piano giuridico, capaci di adattarsi al contesto situazionale di riferimento, sensibili ai mutamenti sociali del tempo, e capace di collocarsi diaframmaticamente nelle dinamiche interpersonali che promanano dai sempre più frequenti processi vittimogeni che coinvolgono soprattutto le giovani generazioni, richiamando sul punto Cass. civ., sez. III, 12 aprile 2018, n. 9059.

[8] Recentemente Trib. Bologna, sez. lav., 29 dicembre 2020, n. 633, si è occupata della condotta di una professoressa di una scuola superiore, che non ha tenuto conto delle denunce di bullismo avanzate da un’alunna, non ha indagato sulla situazione né la ha riferita al preside, sanzionando anzi la studentessa. Su segnalazione dei genitori della ragazza il preside ha irrogato all’insegnante la sanzione disciplinare della censura, che la docente ha impugnato in tribunale. La sentenza si concentra sulla responsabilità degli insegnanti nei casi di bullismo, dato che hanno il compito di arginare le situazioni di conflitto all’interno della classe, definendo grave la condotta della docente che non ha segnalato i fatti al dirigente e non è riuscita a inquadrare correttamente gli episodi, finendo anzi per isolare la vittima.

[9] Ha ritenuto non ricorrere tale circostanza in un bambino di sette anni Cass. civ., sez. VI, 4 ottobre 2018, n. 24907, che ha applicato l’art. 2048 c.c., richiamando l’onere di impartire ai figli l’educazione necessaria per non recare danni a terzi nella loro vita di relazione, dovendo rispondere delle carenze educative a cui l’illecito commesso dal figlio sia riconducibile, e riconoscendo la responsabilità dei genitori di un bambino appunto di sette anni che aveva investito con la bicicletta un bimbo di quattro anni.

[10] Se ne occupa Cass. civ., sez. III, 20 gennaio 2005, n. 1148. Nella specie, relativa all’infortunio occorso ad un minore colpito con un ceppo di legno da altro fanciullo di sette anni che giocava con lui, la Suprema corte ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità dei genitori del danneggiante, essendo presente al gioco il padre del danneggiato, assumendo che la madre del primo, allontanatasi, aveva ritenuto tacitamente delegata all’altro adulto rimasto la sorveglianza del proprio figlio minore.

[11] Sono le parole di Cass. civ., sez. III, 24 aprile 2019, n. 11198, anche se si rinvengono decisioni in senso contrario nella giurisprudenza di merito, come recentemente Trib. Roma, 4 aprile 2018, n. 6919.

[12] Basti richiamare le sopracitate Cass. civ. n. 9556 del 2009, cit.; Cass. civ. n. 24907 del 2018, cit.; Cass. civ. n. 22541 del 2019, cit.

[13] Vedi Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20322; Cass. civ., sez. III, 6 dicembre 2011, n. 26200.

[14] Vedi le considerazioni svolte da Cass. civ., sez. III, 10 luglio 1998, n. 6741, che non nega come il più delle volte sia inevitabile che le prove sull’adeguatezza dell’educazione e della vigilanza vertano su circostanze generiche, essendo del tutto occasionale che vi siano fatti oggettivamente e puntualmente idonei a dimostrare che i genitori abbiano fatto tutto il possibile – impartendo un’educazione consona all’indole del minore ed adeguando il grado di vigilanza al risultato dell’educazione impartita, nonché alla sua età ed al suo livello di maturità – per evitare che il figlio si rendesse autore dell’atto illecito poi compiuto. Sicché, se la prova testimoniale viene ritenuta ininfluente in quanto generica ed inidonea a contrastare il sintomo di carenze pedagogiche o di vigilanza manifestato dalle stesse modalità del fatto, il criterio di imputazione ai genitori dell’illecito commesso dal figlio rischia di apparire caratterizzato da connotazioni di natura oggettiva, in quanto sostanzialmente correlato al loro status. La soluzione alternativa, d’altro canto, comporterebbe che proprio nei casi in cui più macroscopica appaia la violazione del principio del neminem laedere da parte del minore per essere il fatto eclatante, l’onere probatorio sia soddisfatto mediante l’allegazione di circostanze necessariamente generiche, stante l’ordinario difetto di fatti specifici idonei a dimostrare l’assenza in concreto di culpa in educando ed in vigilando da parte dei genitori.

[15] Nuovamente Cass. civ. n. 20322 del 2005, cit.; Cass. civ. n. 26200 del 2011, cit., cui adde Cass. civ., sez. III, 28 agosto 2008, n. 18804.

[16] Ancora Cass. civ. n. 20322 del 2005 cit.; Cass. civ. n. 18804 del 2009 cit., secondo cui il giudice del merito può desumere il grado di educazione dal comportamento del minore, quando esso manifesti un fallimento educativo quanto alla capacità di frenare i propri istinti o di incanalarli in modalità espressive meno gravi e violente, quindi Cass. civ., sez. III, 18 novembre 2014, n. 24475.

[17] Cfr. Cass. civ., sez. III, 25 settembre 2014, n. 20192.

[18] Tra le altre Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2010, n. 5067, che specifica come l’insegnante sia privo di legittimazione passiva, anche Cass. civ., sez. un, 11 agosto 1997, n. 7454.

[19] Così Cass. civ., sez. III, 12 maggio 2020, n. 8811.

[20] Nuovamente Cass. civ. n. 8811 del 2020 cit., in precedenza Cass. civ., sez. III, 21 febbraio 2003, n. 2657.

[21] Ancora Cass. civ. n. 8811 del 2020 cit., in precedenza Cass. civ., sez. un, 27 giugno 2002, n. 9346.

[22] Da ultimo Cass. civ., sez. III, 11 gennaio 2021, n. 200.

[23] Si tratta di Tribunale Reggio Calabria, 20 novembre 2020, n.1087, in Banca dati De Jure. Vedi anche Trib. Roma, 4 aprile 2018, n. 6919, cit.

[24] Si possono ricordare Cass. civ., sez. I, 15 novembre 2017, n. 27141 e Cass. civ., sez. I, 21 novembre 2016, n. 23637, secondo cui quando ad una consulenza tecnica d’ufficio siano mosse critiche puntuali e dettagliate da un consulente di parte, il giudice, che intenda disattenderle, abbia l’obbligo di indicare nella motivazione della sentenza le ragioni di tale scelta, senza che possa limitarsi a richiamare acriticamente le conclusioni del proprio consulente, ove questi a sua volta non si sia fatto carico di esaminare e confutare i rilievi di parte.

[25] Sono le parole di Cass. civ., sez. VI, 15 dicembre 2017, n. 30218.

[26] L’ascolto dei minori nei giudizi in cui si devono adottare provvedimenti che li riguardano è regolato dall’art. 315 bisc.c., poi specificato per singoli procedimenti dagli artt. 336 bis e 337 octies, c.c. A livello internazionale, è previsto dall’art. 12, Conv. di New York del 1989 e dall’art. 6, Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli (Strasburgo, 25 gennaio 1996), ratificata in Italia con l. 20 marzo 2003, n. 77.

L’art. 315 bis, comma 3, c.c. riconosce il diritto del fanciullo, che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore se capace di discernimento, ad essere ascoltato in tutte le questioni che lo riguardano.

[27] Principio ribadito da ultimo da Cass. civ., sez. VI, 9 febbraio 2021, n. 3159, secondo cui i minori, nei procedimenti giudiziari che li riguardano, non possono essere considerati parti formali del giudizio, perché la legittimazione processuale non risulta attribuita loro da alcuna disposizione di legge; essi sono, tuttavia, parti sostanziali, e la tutela del minore si realizza mediante la previsione che deve essere ascoltato. In precedenza Cass. civ., sez. I, 30 luglio 2020, n. 16410.

[28] Sono evidenti le implicazioni sulla privacy che i consensi, che è difficile qualificare come “informati” dei giovanissimi, possono comportare, a partire attività di profilazione e marketing, fino a effetti ancora più critici qualora i dati personali trasmessi siano sensibili anche riguardo a dinamiche familiari.

[29] Su cui Cass. civ., sez. III, 5 settembre 2006, n. 19069, secondo cui il diritto alla riservatezza del minore deve essere, nel bilanciamento degli opposti valori costituzionali del diritto di cronaca e del diritto alla privacy, considerato assolutamente preminente, secondo l’art. 16 Conv. New York del 1989, laddove si riscontri che non ricorra l’utilità sociale della notizia e, quindi, con l’unico limite del pubblico interesse, in relazione all’immagine di un minore, ritratto senza particolari cautele idonee a renderlo irriconoscibile.

[30] Art. 8 Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati).

[31] Art. 2 quinquies d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, con le modifiche apportate dal Decreto di adeguamento al GDPR (d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101). Da sottolineare la possibilità in Italia di concedere il consenso al raggiungimento dei 14 anni, in deroga ai 16 anni richiesti dalla normativa europea. Quindi, secondo la normativa vigente, per utilizzare i social (Facebook, Instagram, Tik Tok, Twitter, Snapchat, Telegram, WhatsApp, ecc.) occorre aver compiuto i 14 anni, tra i 13 e i 14 lo si può fare solo con la supervisione dei genitori, e è vietato usarli sotto i 13 anni. La realtà è però diversa perché ben pochi ragazzi al momento dell’iscrizione indicano la loro vera età e statistiche indipendenti segnalano che oltre l’80% dei ragazzi tra i 10 e i 14 anni possiede un profilo social e più del 90% non comunica con i genitori per quanto concerne la sua attività on line. In effetti le modalità di iscrizione ai social non garantiscano una tutela adeguata ai soggetti minori e i limiti d’età sono facilmente aggirabili.

La tragica morte a fine febbraio 2021 a Palermo di una bambina di dieci anni, a seguito di un una sfida su Tik Tok conferma tali dati e le delicate dinamiche che intercorrono tra rete e minori.

[32] Intenso come il prestatore di servizi della società dell’informazione che sia diverso da quelli di cui agli artt. 14, 15 e 16 d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70 (Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico) e che curi la gestione dei contenuti di un sito internet in cui si possano riscontrare le condotte di cyberbullismo.

[33] Si può ricordare la vicenda di Tiziana Cantone, una giovane donna che nel 2016 si tolse la vita per l’intollerabile esposizione mediatica di cui fu fatta oggetto dopo che alcuni video che la ritraevano in atti sessuali erano stati diffusi nel web, e anche la sua battaglia legale per il “diritto all’oblio”.

[34] Il procedimento è quello previsto all’art. 8, commi 1 e 2, d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, come convertito, con modificazioni, dalla l. 23 aprile 2009, n. 38. Si può ricorrere al procedimento per ammonimento fino a quando non sia stata proposta querela o presentata denuncia per i reati di ingiuria, diffamazione, minaccia o trattamento illecito di dati personali commessi, mediante internet, da minorenni ultraquattordicenni nei confronti di altro minorenne.

[35] In tal senso Trib. min. Caltanissetta, 8 ottobre 2019, in Banca dati De Jure, il quale riconosce che l’uso dei social da parte dei minori sia espressione di un diritto di libertà, che trova il proprio limite nella tutela della dignità delle persone specie se minori, e spetta ai genitori il dovere di impartire al minore un’adeguata educazione all’utilizzo dei mezzi di comunicazione, e di vigilare sul loro utilizzo, in sostanza ponendo regole per l’accesso alla rete. Nel caso di specie il minore, in concorso con altri coetanei, con reiterate condotte meschine e futili, utilizzando il sistema di messaggistica istantaneo Whatsapp, aveva molestato altra minore. Il Tribunale ha giudicato opportuno svolgere un’attività di monitoraggio e supporto del minore e della madre, anche al fine di verificare le capacità educative e di vigilanza della stessa, dando incarico al Servizio sociale ai sensi dell’art. 25 r.d.l. n. 1404 del 1934.

[36] Sulla necessità di una limitazione per forza di cose quantitativa e qualitativa dell’accesso alla rete internet si è pronunciato anche Trib. Teramo, 16 gennaio 2012, in Banca dati De Jure e più recentemente Trib. Parma, 5 agosto 2020, secondo cui i contenuti presenti sui telefoni cellulari dei minori andranno costantemente supervisionati da entrambi i genitori, evitando la comparsa di materiali non adatti all’età ed alla formazione educativa dei minori. La stessa regola vale per l’utilizzo eventuale del computer, al quale andranno applicati i necessari dispositivi di filtro.

[37] È il caso oggetto di Trib. Sulmona, 9 aprile 2018, in Dir. fam. e pers., 2019, 1, I, pag. 185.

[38] Alle note nn. 31 e 33.

Carlo Vellani

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