L’impatto del covid-19 sui contratti di locazione ad uso commerciale: l’eccezionalita’ dei fatti non impone un diritto eccezionale

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SOMMARIO: 1. Premessa: inquadramento dell’emergenza da COVID-19 nell’ambito delle sopravvenienze contrattuali – 2. L’ impedimento dell’attività del conduttore come temporanea inutilizzabilità della prestazione – 3. L’obbligo legale di rinegoziazione ai sensi dell’art. 1375 c.c. – 4. L’ inesigibilità dei canoni di locazione sulla base del canone di buona fede oggettiva – 5. Note a margine della ricerca: circostanze eccezionali non impongono un diritto eccezionale

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  1. Premessa: inquadramento dell’emergenza da COVID-19 nell’ambito delle sopravvenienze contrattuali

La copiosa produzione normativa governativa scaturita dall’impellenza di far fronte all’emergenza cagionata dal COVID-19 ha avuto una inevitabile ripercussione sui contratti di durata già in corso di esecuzione all’ inizio della pandemia. Il presente contributo ha l’obiettivo di inquadrare i rimedi giuridici approntabili per ripristinare l’alterazione del sinallagma funzionale dei suddetti contratti focalizzando l’ indirizzo epistemologico sui contratti di locazione ad uso commerciale, per il perspicuo impatto che le restrizioni normative hanno portato all’attività imprenditoriale dei conduttori, e privilegiando la prospettiva manutentiva piuttosto che quella demolitoria[2].

Invero, le misure di contenimento[3] del COVID-19 hanno riportato in auge, per i contratti di durata[4], l’eterno dissidio tra il principio pacta sunt servanda[5] e la clausola rebus sic stantibus[6], l’inveterato contrasto tra autonomia privata ed eterointegrazione negoziale, l’inestinguibile speranza di una giustizia contrattuale[7].

Nei contratti di locazione ad uso commerciale già in essere si è, come detto, inverato uno squilibrio tra le parti contrattuali a scapito dei conduttori , imprenditori o lavoratori autonomi che essi siano. A questi ultimi, infatti, pur dovendosi distinguere tra attività produttive necessarie (permesse) e non necessarie (vietate), è stato inibito di godere e di servirsi degli immobili locati secondo le specifiche attività di impresa o professionali divisate in contratto. Naturalmente, l’alterazione del sinallagma funzionale è transeunte in quanto si auspica un repentino superamento della pandemia, ancorché sia attualmente difficile prevedere quando l’emergenza sarà superata, ed è pertanto logico ritenere che le parti contrattuali serbino momentaneamente l’interesse ad una conservazione del contratto; nondimeno, non si mancherà di notare che le contingenze alimentano o potrebbero alimentare una forte litigiosità, nei riguardi della quale è opportuno rinvenire soluzioni giuridiche adeguate all’eccezionalità delle circostanze.

Preliminarmente, va chiarito che non si ritiene necessaria una deroga al consolidato principio in forza del quale le difficoltà economiche del debitore, ancorché gravi, non possono esonerarlo da responsabilità ai sensi dell’art. 1218 c.c., viepiù se si aderisce alla teoria oggettiva della responsabilità da inadempimento[8], in quanto non è tollerabile che il suo rischio di incapienza patrimoniale trasli in capo al creditore incolpevole. Del resto, questo asserto è confortato da due considerazioni. In primo luogo le obbligazioni pecuniarie hanno ad oggetto prestazioni non suscettibili di divenire impossibili[9]; in secondo luogo, dirimente è la tendenziale indifferenza per il sistema normativo codicistico delle condizioni economiche dei paciscenti, salvo a mitigare questa rigorosa regola nell’ esclusivo interesse del creditore (principio del favor creditoris)[10].

Seguendo questa linea argomentativa, dunque, si può sostenere che i conduttori le cui attività sono ancora consentite dai provvedimenti dell’autorità governativa, anche se solo nella innovativa forma dello smart working, non possono dolersi della contrazione dei loro affari per andare esenti dal pagamento dei canoni dovuti.

Pertanto, le soluzioni prospettate nei seguenti paragrafi postuleranno che le attività dei conduttori sia impedita per factum principis[11].

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  1. L’impedimento dell’ attività del conduttore come temporanea inutilizzabilità della prestazione

L’impedimento dell’attività dei conduttori a causa del divieto normativo non incide, com’è evidente, sulla possibilità, intesa in senso oggettivo-naturalistico[12], delle prestazioni cui le parti sono astrette, id est il pagamento del canone per il conduttore e, per quanto concerne i locatori, un facere[13] idoneo a far godere e rendere servibile l’immobile a vantaggio dei conduttori(arg. ex art. 1571 c.c.)[14]. Tuttavia, non c’è chi non veda come le restrizioni abbiano inciso sull’utilità e l’utilizzabilità della prestazione eseguita dai locatori a solo detrimento dei conduttori. La totale inibizione dell’attività professionale o produttiva dei conduttori non può essere, infatti, confinata nell’impotenza economica sempre imputabile al debitore giacché, come si provvederà a chiarire a breve, essa ha dei riverberi sul profilo funzionale dei contratti.

Una rilettura sistematica e funzionale del contratto volta a recuperare l’interesse del creditore alla prestazione di cui all’art. 1174 c.c. che, nell’orbita contrattuale, diviene una componente della causa del contratto in quanto motivo obiettivato, può suggerire una soluzione dogmaticamente più critica[15].

Invero, non si tratta di una prospettiva inusitata in quanto, sul postulato della causa contrattuale come “scopo pratico del negozio”[16], si è ormai consolidato in giurisprudenza un indirizzo ermeneutico meritevole di attenzione in questa sede in merito alla caducazione dei contratti di viaggio “tutto compreso” ai sensi dell’art. 1463 c.c. per sopravvenuta inutilizzabilità della prestazione da parte del viaggiatore creditore[17].

Da questo orientamento si può arguire un concetto di prestazione-risultato che non può essere insensibile a fatti o atti sopravvenuti che sebbene ineriscano alla sfera giuridica del creditore non siano a questi imputabili[18]. Si estrapola, cioè, un principio generale[19] volto ad equiparare tra impossibilità della prestazione ed inutilizzabilità[20] della stessa, o rectius impossibilità di fruire della stessa, secondo i motivi obiettivati in contratto agli effetti di cui all’art. 1463 c.c.[21]. Naturalmente, nei contratti di locazione ad uso commerciale non è indifferente l’attività svolta dal locatario in parte qua essa sia stata divisata nell’atto di autonomia privata e non sia, invece, rimasta nell’imperscrutabile foro interno dello stesso[22].

Seguendo questa linea argomentativa, potrebbe apparire insormontabile l’ostacolo costituito dalla natura solo provvisoria dell’emergenza sanitaria e, quindi, della persistenza dell’interesse del locatario alla prosecuzione del rapporto contrattuale che, a ben vedere, collide tanto con il rimedio ablativo di cui all’art. 1463 c.c. quanto con l’indirizzo epistemologico che ci si è imposti.

Invero, dall’orientamento in discussione deve proficuamente trarsi la regola che equipara all’impossibilità della prestazione quella divenuta inutilizzabile per il creditore e non già il rimedio che da ciò ha normalmente scaturigine, sul presupposto della definitività della perdita di interesse del creditore. D’altra parte, l’impossibilità temporanea di fruizione della prestazione per cause non ascrivibili al creditore genera una parentesi temporale nella quale il contratto non è in grado di realizzare la sua funzione ed è in relazione a questo torno di tempo che è necessario apportare dei correttivi che riequilibrino l’alterazione sinallagmatica. Del resto, nei contratti di durata, quantomeno in quelli ad esecuzione periodica o continuata, l’atto negoziale è concepito per realizzare il suo scopo nel tempo e senza incontrare impedimenti. Questi rilievi, dunque, giustificano la possibilità di mantenere salda la prefata equiparazione operata dalla giurisprudenza, mutatis mutandis.

Pertanto, a fronte di una inutilizzabilità soltanto temporanea, come nel caso paradigmatico in discussione, è possibile ipotizzare l’applicazione dell’art. 1256 co. 2, declinando tuttavia la norma in un contratto a prestazioni corrispettive[23]. In tal modo, si dovrà ritenere che l’inutilizzabilità della prestazione del locatore da parte del locatario esoneri, finché conservano vigore i provvedimenti restrittivi, quest’ultimo dal pagamento dei canoni di cui egli è debitore ed impedisca di configurare una sua responsabilità per il ritardo nel pagamento dei canoni suddetti, che pur tuttavia restano dovuti[24];

In altri termini, il rapporto contrattuale entra in una situazione di stasi, ulteriore rispetto alle ipotesi di cui all’art. 1460 c.c. e 1461 c.c., connotata però dalla peculiarità di essere una sospensione unilaterale del rapporto contrattuale. Tale eccentricità è funzionale ad una conservazione del contratto che, allo stesso tempo, riequilibri l’alterazione sinallagmatica[25].

Ove, viceversa, non si voglia accedere a questa lettura manipolativa dell’art. 1256 co. 2, obiettandosi che non è ammissibile una sospensione unilaterale del rapporto contrattuale giusta la vigenza dell’art. 1460 c.c.[26], questo iter argomentativo risulterà inadeguato a dare una risposta soddisfacente al caso analizzato e quest’ultima andrà rinvenuta aliunde.

Non abbandonando, dunque, l’equiparazione quoad effectum tra impossibilità temporanea ed inutilizzabilità temporanea, è opportuno rievocare un autorevole tesi dottrinaria[27] concernente l’applicazione del diritto di riduzione della prestazione di cui all’ art. 1464 c.c., letto in combinato disposto con l’art. 1258 c.c., anche in caso di impossibilità temporanea della prestazione nei contratti di durata. Segnatamente, si ritiene che allorquando in un contratto di durata con termine finale a data fissa in cui il sinallagma consista in una prestazione periodica di una somma di danaro a fronte di un facere continuativo della controparte, e la prestazione di fare diventi temporaneamente impossibile a causa di impedimenti sopravvenuti, la parte vincolata all’esborso del danaro può chiedere una riduzione dei ratei proporzionata al segmento della controprestazione andata perduta[28]. Questa riduzione, ispirata a ragioni perequative attesa l’irrecuperabile della prestazione di fare andata perduta, altro non è che una risoluzione pro parte per una impossibilità parziale ratione temporis[29].

Posto, dunque, giova ribadirlo, che ad una prestazione temporaneamente impossibile può essere accostata una prestazione temporaneamente inutilizzabile; e che così come ad una inutilizzabilità definitiva della prestazione corrisponde una altrettanto definitiva caducazione del rapporto contrattuale, così ad una inutilizzabilità solo temporanea dovrà corrispondere una risoluzione solo parziale del rapporto attualizzata dal potere di chiedere una proporzionale riduzione della prestazione che ha conservato intatta la sua utilità sul piano causale; si può, a questo punto, procedere ad una risoluzione più equilibrata del caso controverso.

Sulla base di queste osservazioni, dunque, al conduttore che non può servirsi temporaneamente dell’immobile locato per la precipua attività costituente la causa del contratto, né potrà recuperare nel tempo tale utilità perduta, dovrà essere riconosciuto, quantomeno, il diritto di chiedere una congrua riduzione del canone locatizio in forza dell’art. 1464 c.c. che, verosimilmente, possa compensare le ristrettezze economiche cagionate dalla sospensione dell’attività[30].

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  1. L’obbligo legale di rinegoziazione ai sensi dell’ art. 1375 c.c.

Quanto fin ora ipotizzato in merito ad una revisione del contratto di locazione in ossequio alle congiunture avverse per il locatario verrebbe viepiù favorito, com’è ovvio, dalla previsione nel contratto di apposite clausole di adeguamento[31] ovvero di rinegoziazione[32]. In ipotesi siffatte le parti impiegano strumenti convenzionali per la gestione e l’allocazione dei rischi[33] delle sopravvenienze, derogando al principio espresso in generale dal codice civile che impone una conservazione delle originarie pattuizioni ove esse si mantengono in un’alea che può considerarsi normale[34] (arg. ex art. 1467 c.c.).

Diversamente dalle clausole de quibus, è discussa[35] la possibilità a che i paciscenti introducano in contratto uno ius variandi convenzionale attribuito ad una sola di esse, sulla falsariga di quanto permette il § 315 del BGB.

Inoltre, è opportuno per ragioni di completezza espositiva far cenno agli strumenti legali di cui i privati dispongono per la prevenzione delle sopravvenienze: si allude, segnatamente, al patto di opzione[36] di cui all’art. 1331 c.c. ed il contratto preliminare[37] ex art. 1351 c.c.. Nondimeno, tali istituti consentono una gestione delle sole sopravvenienze che si verificano nel corso del procedimento di formazione del contratto, dilatando l’arco temporale dell’ iter genetico dello stesso.

Per quanto qui interessa, ad ogni modo, va considerato che le prefate pattuizioni non sono usuali nei contratti di locazione ad uso commerciale e che, pertanto, è inverosimile che i contratti stipulati prima dell’emergenza sanitaria abbiano previsto adattamenti a fronte del verificarsi di tale eventualità. Per tale motivo, l’attenzione va spostata sulla discussa possibilità di far discendere dal canone di buona fede ex art. 1375 c.c. un obbligo di rinegoziazione in capo alla parte avvantaggiata dalle sopravvenienze[38].

Il dibattito dottrinario sul punto è acceso e, tra le contrapposte opinioni[39], la giurisprudenza[40] ha fin ora mostrato una certa cautela nel maneggiare la clausola elastica di buona fede per legittimare una rinegoziazione obbligatoria.

L’indirizzo ermeneutico favorevole alla configurazione di un obbligo di rinegoziare i contratti divenuti sperequati a causa delle sopravvenienze propende per la valorizzazione del vincolo di solidarietà nei rapporti tra privati guardato attraverso la lente del principio di buona fede di cui all’art. 1375 c.c e l’equità integrativa di cui all’art. 1374 c.c.. Più precisamente, il canone di buona fede fonderebbe l’obbligo di rinegoziare i contratti in cui si è inverato uno squilibrio delle prestazioni originarie e l’equità rappresenterebbe il contenuto del suddetto obbligo.

Non manca, inoltre, chi rifugge da questa lettura per rinvenire, viceversa, il fondamento del dovere di rinegoziazione nell’istituto dell’arbitraggio di cui all’art. 1349 c.c. nella misura in cui questa disposizione sia portatrice di una logica applicabile a tutti i contratti originariamente o successivamente incompleti[41].

Invero, la tendenza ad imporre un riassetto dei contratti che presentano alterazioni della base negoziale discende da esperienze giuridiche non troppo lontane, in particolare dall’impiego della buona fede nella sua funzione di adeguamento del regolamento contrattuale alle sopravvenienze ai sensi del già citato § 313 BGB, in cui emerge con nettezza il favor per la conservazione del contratto previa rimodulazione dello stesso[42]. Questo trend, tuttavia, non è estraneo nemmeno alle logiche dei principi Unidroit, nel Draft Common Frame of reference (Art. III – I: 108 Variation or termination by agreement – III – I: 109 Variation or

termination by notice – III – I: 110 Variation or termination by court on a change of

circumstances) e nei Principles of European Contract Law (art. 6:111: mutamento delle circostanze)[43].

Le difficoltà di un facile accoglimento di posizioni simili nel nostro ordinamento risiede in due ordini di ragioni.

In primo luogo, è intuitivo ravvisare che il codice civile difetta di norme che avallino esplicitamente un obbligo di rinegoziazione e che, di conseguenza, viene in rilievo la prioritaria difficoltà di individuare un fondamento di tale dovere sfruttando il canone di buona fede quale valvola respiratoria del sistema giuridico con cui esso si possa aprire alle nuove esigenze.

In secondo luogo, una volta ammesso che l’obbligo di rinegoziazione rientri nel cono d’ombra della buona fede, si prospetta l’ulteriore problema dei rimedi approntabili allorché la parte avvantaggiata dalle sopravvenienze rifiuti di partecipare alle trattative per l’impostazione di un contratto rinegoziato.

Su questo ultimo versante anche la dottrina che opina nel senso di individuare un dovere di rinegoziare è fortemente divisa. Da un canto, ci si appella all’equo apprezzamento del giudice, in qualità di arbitratore, di cui all’art. 1349 c.c. cui la parte svantaggiata potrebbe fare ricorso[44]. Dall’altro, si tende a qualificare il dovere di rinegoziare quale obbligo a contrarre e, sul crinale rimediale, si ipotizza l’impiego dell’art. 2932 c.c.[45]. Si ritiene, cioè, che il giudice possa sostituirsi alla parte inadempiente con una sentenza costitutiva che determini il contenuto delle nuove pattuizioni, il quale non è, tuttavia, indefinito ma solo da calibrare sull’originario equilibrio delle prestazioni fissato dalle parti.

Una terza posizione[46] rifiuta l’idea di un dirigismo giudiziale del contratto e, pur accondiscendo all’esistenza di un obbligo di rinegoziazione fondato sulla buona fede, ritiene che l’unico rimedio approntabile nel caso in cui tale obbligo resti inevaso sia quello risarcitorio.

Ad ogni modo, in disparte l’ammissibilità di un dovere di rinegoziazione ex art. 1375 c.c., su cui può certamente convenirsi, è d’uopo indicare a quali condizioni vi possa essere la ricorrenza di un siffatto dovere nella fattispecie in esame.

In questa direzione emerge immediatamente una evidenza: l’inutilizzabilità temporanea della prestazione non è solo una figura sconosciuta al nostro codice ma, in un certo senso, ibrida perché può essere letta in chiave impossibilitante (scil. impossibilità di fruire della prestazione nella direzione dello scopo pratico del contratto) ovvero in chiave squilibrante il rapporto economico tra le originarie prestazioni[47]. A parere di chi scrive, anche in ossequio alla giurisprudenza più recente, dovrebbe prediligersi un’ ottica impossibilitante piuttosto che economicamente squilibrante. A tal d’uopo risulta dirimente un’osservazione più attenta della quaestio facti. L’art. 1467 co. 1 c.c. pretende che l’evento dotato di imprevedibilità ed eccezionalità renda direttamente[48] più onerosa una prestazione contrattuale rispetto ad un’altra. Pertanto, le speculari prestazioni vanno valutate nel loro valore intrinseco, senza alcun riguardo per le circostanze che incidono nella sfera giuridica di una parte rendendo solo per essa(e, dunque, relativamente) più onerosa la prestazione cui è obbligata[49]. Nel caso in esame, lo si noterà, l’impedimento delle attività produttive o professionali non concreta uno squilibrio delle prestazioni nel loro valore immanente, bensì rende il pagamento dei canoni più oneroso esclusivamente per i conduttori nella misura in cui impatta negativamente sulle loro, irrilevanti, condizioni economiche[50].

Tuttavia, secondo la teorica del c.d. fondamento negoziale, l’equilibrio tra le prestazioni contrattuali coglie solo un aspetto del problema, ossia quello oggettivo, ma non può dimenticarsi che la base contrattuale si regge anche sul soggettivistico aspetto dei presupposti di fatto o di diritto di comune rappresentazione delle parti al momento della stipula.

Pertanto, leggendo sinergicamente i menzionati aspetti, si dovrà valutare il peso specifico che ha eventualmente assunto per i paciscenti il presupposto condiviso dell’attività del conduttore e della persistenza nel tempo della possibilità di svolgerla; funditus, può osservarsi che , in generale, nei contratti di locazione ad uso commerciale il canone locatizio è stabilito a prescindere dalla specifica attività svolta dal conduttore, valorizzandosi altri aspetti quali l’ubicazione e la metratura dell’immobile. Nondimeno, ove nella determinazione del canone si sia presa in considerazione anche la specifica attività del conduttore, questo fattore certamente costituisce uno squilibrio contrattuale da compensare per il tramite di un dovere di rinegoziazione ex fide bona.

In ogni caso, pur a voler ragionare in questi termini, la prospettata pronta ripresa delle attività impedite induce comunque a soluzioni più prudenti. Infatti, giova precisare che persino nel sistema tedesco che positivizza la buona fede in ottica correttiva, è richiesta “una rilevante modifica delle circostanze poste a fondamento del contratto” (§ 313 co. 1 BGB) per giustificare una riconduzione ad equità del regolamento contrattuale. Inoltre, non vanno trascurati i costi che le parti sopporterebbero per la rinegoziazione e che, in un approccio economico del diritto, costituiscono un ulteriore motivo ostativo all’accoglimento di questa soluzione.

Si legga anche:”Risoluzione del contratto: è ammissibile nell’ipotesi del Coronavirus?”

  1. L’inesigibilità dei canoni di locazione sulla base del canone di buona fede oggettiva

Indugiando sull’ analisi afferente al ruolo che l’art. 1375 c.c., in combinato disposto con il più generale art. 1175 c.c., possa spiegare nel particolare caso in esame, è d’obbligo chiedersi se la persistente pretesa del locatore al pagamento del canone in una fase di stallo dell’attività del conduttore non possa essere “paralizzata” da una temporanea inesigibilità della stessa.

Prima facie, potrebbe apparire una teoria ardita e fortemente manipolativa del regolamento contrattuale ma, a ben vedere, possono deporre a favore di questa ipotesi argomenti tanto sistematici, quanto comparatistici, quanto ancora storici.

Preliminarmente, occorre ricordare che l’art. 1375 c.c. obbliga le parti a comportarsi secondo buona fede nell’esecuzione[51] del contratto. Della suddetta disposizione è, per giunta, discussa la sua funzione integrativa del regolamento contrattuale, sebbene sul punto si assista ad una decisa convergenza di opinioni[52].

Ad ogni buon conto, il dischiuso orizzonte che permette di intendere la regola di buona fede come attuativa nel rapporto contrattuale del vincolo solidaristico di cui all’art. 2 Cost. comporta una definizione della stessa quale <<impegno di cooperazione che impone a ciascun contraente di tenere quei comportamenti che, a prescindere da obblighi contrattuali, o dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, siano idonei a preservare gli interessi della controparte senza, tuttavia, rappresentare un sacrificio apprezzabile>>[53].

L’art. 1175 c.c., dal canto suo, ribadisce e generalizza per i rapporti obbligatori queste esigenza solidaristica che impone il contemperamento dei contrapposti interessi[54].

Pertanto, la buona fede oggettiva e la correttezza sono regole portatrici dei preminenti valori personalistici delle parti a presidio dei quali deve essere armonizzata l’esecuzione della lex contractus. Dunque, riscoprendo una teoria risalente ad un’autorevole dottrina[55] e fatta propria, in alcune pronunce[56], anche dalla giurisprudenza, la buona fede in executivis può essere impiegata non solo in funzione integrativa ma anche correttiva delle regole pattizie le quante volte l’esatta osservanza delle stesse (scil. l’esatto adempimento) confligga con valori assiologicamente preminenti di una delle parti.

La prefata correzione del regolamento contrattuale può portare persino ad una temporanea inesigibilità[57] della pretesa creditoria ove ciò esponga a pericolo la persona o i beni[58] del debitore secondo una scala valoriale che non può non rimontare alla Costituzione.

In questa prospettiva, dunque, occorre comparare l’interesse del locatore a ricevere i canoni locatizi secondo le scadenze divisate e quegli interessi del conduttore effettivamente vulnerati da questa pretesa. In tal senso, alla pretesa creditore eminentemente patrimoniale si contrappone la lesione del diritto al lavoro del conduttore che solo prima facie può ridursi ad una dimensione solo patrimoniale.

I conduttori, infatti, siano essi professionisti o imprenditori (l’art. 35 Cost. infatti tutela il lavoro in “tutte le sue forme ed applicazioni”), costretti all’adempimento in un momento di incolpevole sospensione dell’attività lavorativa non si vedono deprivati solo della remunerazione che da essa deriva ma, di riflesso, anche dei beni primari cui il lucro da lavoro è funzionale.

D’altra parte, è proprio la Carta Fondamentale che lungi dal limitarsi a prevedere il diritto al lavoro (art. 4) ne fa enfaticamente il basamento della Repubblica (art. 1 Cost.); l’art. 36 Cost[59]., poi, enuncia che la retribuzione deve essere non solo proporzionata ma anche sufficiente per assicurare una vita libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia. In quest’ultima norma si colgono a chiare lettere i riverberi della mancanza di effettività dell’ attività lavorativa ed il superiore valore che essa acquista nella trama costituzionale.

Pertanto, in ragione di questa lettura assiologica, si potrà concludere che il locatore non potrà pretendere il pagamento dei canoni locatizi finché ai conduttori non sarà consentita la ripresa dell’attività lavorativa poiché la pretesa dei primi, foriera di un interesse subvalente rispetto a quello laburistico, è contraria a correttezza e buona ex art. 1175 c.c. e 1375 c.c.

Questa soluzione, quoad effectum, è analoga alla sospensione unilaterale del rapporto contrattuale proposta nel par. 2; ne inferisce che i conduttori saranno tenuti ad adempiere una volta superate le restrizioni normative andando medio tempore esenti da responsabilità ex art. 1218 c.c[60].

A supporto di questa interpretazione sistematica del canone di buona fede giova, conclusivamente, rammentare che, sul crinale comparativo, la giurisprudenza tedesca sin dagli anni ’20 ha impiegato la clausola “Treu und Glauben” per giustificare, alla luce di circostanze sopravvenute incompatibili con i presupposti del contratto, l’inesigibilità della prestazione il cui adempimento sarebbe risultato economicamente esiziale per il debitore[61].

Inoltre, tornando molto indietro negli anni, è dato ravvisare un caso in cui il giudice nomifilattico italiano ha ritenuto contraria a buona fede e, quindi, inesigibile la pretesa del locatore al pagamento dei canoni da parte del conduttore che aveva dovuto nascondersi a causa dello scontro bellico in atto[62].

  1. Note a margine della ricerca: circostanze eccezionali non impongono un diritto eccezionale

Sinotticamente è necessario riordinare in modo sistematico i risultati della ricerca. L’emergenza sanitaria del COVID-19 e, segnatamente, gli atti normativi inibitori delle attività produttive e professionali sono certamente sopravvenienze che hanno vulnerato il sinallagma funzionale dei contratti di locazione già stipulati.

Le restrizioni, sub specie di factum principis, possono essere utilmente qualificate come impossibilitanti; più precisamente esse rappresentano una congiuntura che rende impossibile per i conduttori di godere dell’immobile secondo lo scopo divisato. Pertanto, la soluzione che merita prioritaria attenzione, in funzione di una sospensione riequilibrante del sinallagma, è la sospensione unilaterale dei contratti ai sensi dell’art.1256 co. 2. La medesima meta può essere raggiunta, è bene notarlo, anche seguendo un percorso differente e cioè quello che valorizza il ruolo correttivo del canone di buona fede ex art. 1375 c.c..

In chiave riallocativa dei rischi contrattuali e con scopo perequativo è, poi, suggeribile il ricorso al diritto di riduzione di cui all’art. 1464 c.c.; trattasi di una “risoluzione del contratto per singole coppie di prestazioni” che tiene conto dell’utilità irrecuperabile che i conduttori hanno perduto a causa delle limitazioni normative.

Nella medesima ottica, ma con prospettabili problemi economici e giuridici, e senza sottacere l’indirizzo  giurisprudenziale refrattario a questa tesi, si potrebbe ritenere alterato il fondamento negoziale e, su questo postulato, radicare un dovere di rinegoziazione dei contratti di locazione economicamente squilibrati.

In questo eterogeneo quadro di soluzioni, ad ogni modo, è dato cogliere un elemento rassicurante, id est la capacità del codice civile del 1942 di resistere  alla scure del tempo ed agli eventi eccezionali grazie alle clausole-valvola del tessuto normativo ed al rigoroso lavorio ermenutico dell’interprete; se ne ricava, in sostanza, che circostanze eccezionali non necessariamente impongono un diritto eccezionale.

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BIBLIOGRAFIA

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Note

[1] Tirocinante ex art. 73 d.l. n. 69/2013 presso la Corte d’Appello di Napoli.

[2] Sul punto, compatibilmente con l’esigenza di sinteticità espositiva, si ricordano gli angusti limiti entro i quali la normativa codicistica confina la rilevanza delle sopravvenienze in funzione ablativa: la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c. e lo scioglimento ipso iure per impossibilità sopravvenuta ex art. 1463 c.c.; invero, mentre la portata innovativa di quest’ultima norma è piuttosto limitata, giacché lo scioglimento del rapporto contrattuale deriva dalla necessaria estinzione di una delle obbligazioni contrattuali per causa inimputabile al debitore ai sensi dell’art. 1256 c.c.; l’introduzione dell’art. 1467 nella stesura definitiva del codice civile del 1942 rappresentò, per l’epoca, un’autentica rivoluzione copernicana. Non fu, comunque, accolta la proposta di Andrioli di introdurre una regola di generale revisionabilità dei contratti divenuti economicamente sperequati. Per approfondimenti cfr. M. ANDREOLI, Revisione delle dottrine sulla sopravvenienza contrattuale, RDC, 1938, p. 309. Nell’ambito dei rimedi  risolutivi, va segnalata la rilevanza di un ormai granitico orientamento giurisprudenziale che, in una feconda valorizzazione della causa in concreto del contratto, legittima ciascuna parte al ricorso all’azione costitutiva di cui all’art. 1463 c.c. le quante volte cause sopravvenute non imputabili al debitore abbiano frustrato l’utilizzabilità della prestazione da parte del creditore. Cfr. ex multis Cassazione Civile, Sezione III, 24 luglio 2007 n. 16315; Cass. civ. sez. III, 10 luglio 2018, n. 18047. Inoltre non sono peregrini gli studi che, in modo suggestivo, propongono di inquadrare il tema delle sopravvenienze all’interno della discussa categoria della nullità sopravvenuta (o dinamica). In altri termini, fatti o norme sopravvenute alla conclusione del contratto possono generare una altrettanto sopravvenuta difformità dello stesso rispetto allo schema legale tale da giustificare, dal punto di vista remediale, un’azione dichiarativa di nullità dell’atto di autonomia privata. Ove questo venga ammesso, le sopravvenienze verrebbero ad essere incasellate nella categoria dell’invalidità piuttosto che dell’inefficacia. Sull’ammissibilità delle nullità sopravvenute v. N. LIPARI, Il ruolo del notaio nella nuova realtà delle nullità contrattuali, in Riv. trim.dir. proc. civ., 2002, p. 361 ss. secondo il quale: << il contratto della società globalizzata è invece un contratto in cui l’esigenza della flessibilità fa premio sui valori della certezza e della stabilità` , con la conseguenza che è oggettivamente sempre più difficile ricostruire un criterio legislativo unificante cui rapportare il giudizio finale di validità . Il paradigma della nullità successiva, che era considerato eccezionale, diventa costante criterio di riferimento del sistema>> e F. MAISTO, La categoria della nullità sopravvenuta del contratto nel prisma delle teorie sul diritto intertemporale, in Colloqui in ricordo di Michele Giorgianni, Napoli, 2007, p. 679: << la qualifica “nullità sopravvenuta” del contratto designa, sommariamente, il concetto che il giudizio di validità stabilito al momento della conclusione dell’accordo si trasforma in giudizio di invalidità prima del momento dell’esaurimento della sua attuazione >>. Ad ogni modo, anche i sostenitori della tesi favorevole all’ammissione di questa categoria opinano nel senso che essa dispieghi effetti solo ex nunc, v. C.. DONISI, In tema di nullità sopravvenuta del negozio giuridico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1967, p. 796  ss., Contra, in ragione del principio di contemporaneità della invalidità al negozio, trattandosi di una qualificazione negativa volta a misconoscere rilevanza giuridica allo stesso dal suo momento genetico v. R. SCOGNAMIGLIO, Sulla invalidità successiva dei negozi giuridici,  in Scritti giuridici, I, Scritti di diritto civile, Padova 1996, p. 209 ss.;  N. DISTASO, I contratti in generale, Torino, 1966, p. 1943, il quale distingue i rimedi, quali l’azione di nullità, che si appuntano sul contratto inteso come atto da quelli che, invece, concernono i suoi effetti. In giurisprudenza, la quale si è occupata prevalentemente del tema in materia di usura sopravvenuta con l’introduzione della l. 7 marzo  1996, n. 108 e di fideiussione omnibus senza indicazione del tetto massimo garantito prima della l. n. 154/1992, la questione ha trovato soluzioni alterne; cfr. ex multis Cass. 28 luglio 1995, n. 8251, in Giust. civ., 1996, I, p. 1411;  Cass. 1 febbraio 1999, n. 827, in For. it., 1999, I, p. 831 nota di LAMBO; Cass. Sez. U. 19 ottobre 2017  n. 24675.

[3] Ci si riferisce al D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 recante«Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19» ed i successivi D.P.C.M.; per quanto di interesse, va segnalato il D.P.C.M. del 22 marzo 2020 che elenca le attività strategiche e determina, a contrario, quelle sospese. In fase di redazione dell’elaborato, tuttavia, l’emergenza è ancora in corsa e da ciò può discendere la naturale transitorietà degli atti normativi indicati.

[4] Trattasi di una categoria dogmatica non conosciuta dal codice civile, o rectius, non conosciuta con tale denominazione giacché, con maggior acribia, quest’ultimo distingue i contratti ad esecuzione continuata o periodica da quelli ad esecuzione differita. In generale, può comunque convenirsi sul genus di contratti di durata in contrapposizione a quello dei contratti ad esecuzione istantanea. La paternità di questa dogmatica va attribuita alla dottrina americana; per approfondimenti v. I. MACNEIL, The New Social Contract, New Haven, London,1980; O. WILLIAMSON, Transaction Cost Economics: The Governance of Contractual Relations, J. Law Econ., 1979, p. 233. Il discrimen tra le due figure va rinvenuta nell’elemento temporale, in quanto soltanto nei primi il rapporto contrattuale si dipana nel tempo, o perché continuativo o perché la sua esecuzione è differita rispetto al momento perfezionativo del negozio. Da ciò inferisce una disciplina affatto peculiare che, ad esempio, concerne le conseguenze della caducazione dei contratti di durata (art. 1458 co. 1 c.c.), il precipitato dell’esercizio di un diritto di recesso (art. 1373 co. 2 c.c.), l’avveramento di una condizione risolutiva (art. 1360 co. 2) ma, soprattutto, l’incidenza delle sopravvenienze (art. 1467 c.c.). infatti, è intuitivo che solo i contratti di durata sono soggetti alla scure del tempo, instaurando una relazione tra le parti che può essere scossa da eventi sopravvenuti. Senza sottacere dei costi, in termini di investimenti, che necessariamente comporta l’instaurazione di una relazione destinata a durare nel tempo, come è stato autorevolmente sostenuto da V. ROPPO, Il contratto, Milano, 2001, p. 1041 ss. e da P. GALLO, Revisione e rinegoziazione del contratto, in Dig. delle dis. priv. diretto da R. Sacco, Aggiornamento, VI, Torino, 2011, p. 814.

[5] Il principio è ben noto e codificato nel diritto internazionale al fine di designare l’obbligatorietà degli accordi tra Stati. Infatti, esso fa parte del novero di norme di carattere consuetudinario avente la duplice funzione di affermare la vincolatività dei trattati, da un lato, e di porsi come norma primaria sulla produzione giuridica internazionale che riconosce l’accordo come fonte di norme giuridiche tra gli Stati paciscenti, dall’altro; inoltre, non può essere trascurato che il principio è stato in definitiva cristallizzato dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 23 maggio 1969. Difatti, a mente dell’art. 26 della Conv. di Vienna: << ogni trattato in vigore vincola le parti e deve essere da esse eseguito in buona fede>>, per approfondimenti v. B. CONFORTI, Diritto internazionale, X ed., Napoli, 2014, p. 187 ss.. Dal punto di vista civilistico il principio si desume dall’icastica formula impiegata dall’art. 1372 c.c. secondo cui il contratto <<ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge>>.

[6] In materia si segnalano gli importanti studi di Osti di inizio ‘900, cfr. G.OSTI, La cosiddetta clausola “rebus sic stantibus” nel suo sviluppo storico, in Riv. dir. civ.,  1912, 1; G.OSTI, <<Clausola rebus sic stanti bus>>, in NN.D.I., III, Torino, 1967, P. 356. L’illustre A. supponeva che ad ogni contratto fosse implicitamente apposta una clausola rebus sic stantibus in forza della quale gli stati di fatto presupposti dalle parti al momento della conclusione del contratto sarebbero assurti ad elemento negoziale. Pertanto, un loro mutamento avrebbe giustificato la caducazione del contratto, traducendosi tale cambiamento in una ulteriore causa di invalidità dell’atto negoziale. Per quanto non si possa indugiare eccessivamente sul punto, non può non sottolinearsi che queste considerazioni hanno, da una parte, recepito i preziosi studi della pandettistica tedesca sulla Voraussetzung, rispetto alla quale v. B. WINDSCHEID, Die Voraussetzung, in Archiv fur die civilistiche Praxis, 78, (1892); dall’altro, hanno dato la stura nel ad un vivace dibattito dottrinario e giurisprudenziale in ordine alla tribolata categoria della presupposizione. Quest’ultima è stata, dapprima, definita quale limitazione inespressa della volontà dichiarata, così secondo M. BESSONE, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1969, p. 283, e dunque intesa in senso marcatamente psicologico sul postulato del c.d. dogma della volontà come fondamento negoziale. Successivamente, si è avvertita l’esigenza di emancipare la prefata nozione dalla sua esclusiva dimensione soggettiva a privilegio di una concezione oggettivata compatibile con la certezza dei traffici giuridici, ritenendola come comune rappresentazione delle parti circa uno stato dei fatti condiviso al momento della stipula e facendo di essa il fondamento del contratto (Geschaftsgrundlage), v. in proposito P. OERTMANN, Die Geschaftsgrundlage: ein neuer Rechtsbegriff, Leipzig, 1921. Questa teoria ha rappresentato il punto di partenza di una più compiuta teoria sul fondamento negoziale portata a compimento, nell’ordinamento tedesco, dal LARENZ, Geschftsgrundlage und Vertragserflullung, Munchen, 1963, p. 165 ss., al quale si deve il merito di aver distinto un fondamento soggettivo del contratto, nel senso testé esposto, da un fondamento oggettivo costituito dal rapporto originario di equivalenza tra le prestazioni che evolve in funzione dello scopo negoziale. Con LARENZ può dirsi raggiunto l’ obiettivo  di oggettivizzare la presupposizione, evitandone la sovrapposizione con la causa del contratto, come invece era stato criticamente rilevato per la teoria dello scopo negoziale di E.LOCHER, Geschäftsgrundlage und Geschäftszweck, in AcP, 121, 1923, p. 72. Infatti, secondo il LARENZ, mentre l’alterazione del rapporto di equivalenza tra le prestazioni pone l’esigenza di revisionare il contratto, l’irraggiungibilità dello scopo non può che comportare la risoluzione dello stesso. Ad ogni modo, il profluvio di studi in materia di presupposizione, in uno con gli indirizzi giurisprudenziali sul § 242, hanno portato all’ introduzione nell’ordinamento tedesco con la riforma che  ha modificato i primi due libri del BGB del § 313, su cui si tornerà funditus nel § 3. Nella dottrina italiana va segnalato il tentativo di evitare che la presupposizione diventi un inutile duplicato di altri elementi negoziali da parte di C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, 463 ss. Nella giurisprudenza italiana, dopo un iniziale ripudio della presupposizione, si può registrare una decisa apertura accompagnata dal tentativo di enuclearne i tratti fondamentali, come limpidamente traspare da Cass. civ. 25 maggio 2007, n. 12235, così massimata: << La presupposizione, non attenendo all’oggetto, né alla causa, né ai motivi del contratto, consiste in una circostanza ad esso «esterna», che pur se non specificamente dedotta come condizione ne costituisce, specifico ed oggettivo presupposto di efficacia, assumendo per entrambe le parti, o anche per una sola di esse – ma con riconoscimento da parte dell’altra – valore determinante ai fini del mantenimento del vincolo contrattuale, il cui mancato verificarsi legittima l’esercizio del recesso>>. A margine di questa ricostruzione, è d’uopo giustificare la scelta epistemologica di non considerare la presupposizione, quale definita nell’ordinamento italiano, come chiave di volta per la risoluzione dello squilibrio venutosi a creare nei contratti di locazione ad uso commerciale. La scelta riposa, non già, sulle incertezze definitorie cui la presupposizione presta il fianco, quanto sul fatto che la giurisprudenza e la dottrina domestiche si sono fin ora focalizzate solo su soluzioni ablative, come comprova la sentenza citata poc’anzi. Sul punto, in dottrina, v. F. DEGL’INNOCENTI,Teoria della presupposizione e rimedi contrattuali alla luce di nuovi orientamenti ermeneutici, in Giust. civ., 2009, II, 79 ss.

[7] Interessante l’analisi condotta da G. SMORTO, La giustizia contrattuale. Contributo alla definizione di un concetto, in Mat. scu. cult. giur., 2008, pp. 221-225, il quale quadripartisce la nozione di giustizia contrattuale distinguendo: a) giustizia come uguaglianza nello scambio o commutativa; b) giustizia come salvaguardia dell’equivalenza soggettiva delle prestazioni a fronte di un mutamento delle circostanze; c) giustizia come portatrice di valori; d) giustizia distributiva. La giustizia contrattuale nell’accezione sub b) è quella che rileva per la trattazione e, in merito ad essa, l’ A. afferma: <<  Una seconda accezione che il termine giustizia assume nel dibattito corrente riguarda il riequilibrio dell’assetto di interessi disegnato originariamente dalle parti, a seguito del mutamento di circostanze rilevanti successivo alla conclusione del contratto. Scopo di questo tipo di interventi è quello di mantenere le ragioni di scambio originarie, mettendole al riparo da modificazioni ingiustificate. Si tratta di un sindacato sull’equilibrio negoziale che possiamo anche ricondurre convenzionalmente a un principio di giustizia contrattuale, e segnatamente alla giustizia commutativa, nel senso sopra precisato di valutazione di proporzionalità in senso ampio, ma che è espressivo di una logica del tutto diversa da un sindacato ancorato a parametri esterni al rapporto di scambio. Esso costituisce la conservazione – e non l’alterazione – delle ragioni dello scambio voluto dalle parti. Nel parlare, a questo proposito, di giustizia contrattuale, dobbiamo tenere presente che la funzione di questo genere di intervento è quella di ristabilire, nelle mutate circostanze, l’originaria razionalità interna del contratto>>.

[8] In ordine al dibattito sulla natura oggettiva o soggettiva della responsabilità contrattuale i cui protagonisti furono Osti e Mengoni cfr. G.OSTI, La revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1918 e L. MENGONI, Responsabilità contrattuale, in Enc. dir., vol. XXXIX, Milano, 1988. Si segnala anche la lucida analisi di C. CASTRONOVO, La responsabilità per inadempimento da Osti a Mengoni, in Europa e dir. priv., 2008, p. 1 ss. e, più di recente, G. D’AMICO, La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti, in Riv. dir. civ., 2019, n. 1, p. 6, il quale riprende il pensiero di Osti affermando che: << quella che Mengoni chiama “impossibilità  relativa” della prestazione designa in realtà un’ipotesi di assenza dell’obbligo il debitore e` esentato da responsabilità , non perchè la sua obbligazione sia diventata propriamente impossibile, ma più semplicemente perchè non esisteva ab origine l’obbligo di eseguire la prestazione oltre un certo limite, che risulta superato alla luce delle “sopravvenienze” che si sono materializzate nel corso di svolgimento del rapporto>>.  La giurisprudenza, dal canto suo, mostra di aderire, ancor più per le obbligazioni pecuniarie, alla tesi oggettiva, come avvalorato da Cass. civ. sez. II 15 novembre 2013, n. 25777 e Cass. civ. 20 maggio 2004, n. 9645.

[9] Come autorevolmente sostenuto da A. DI MAJO,Le obbligazioni pecuniarie, Torino, 1996,  p. 271 le obbligazioni pecuniarie fanno riscontrare alcune eccentricità; tra queste, meritano menzione in questa sede, <<La inapplicabilità ai debiti di denaro delle comuni norme che esentano il debitore da responsabilità (per inadempimento) nel caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa ad esso non imputabile (art. 1218 c.c.)>> ed il rilievo per cui  << il debitore non può sottrarsi alla responsabilità facendo valere la sua ‘incapacità   patrimoniale’ anche non imputabile>>.

[10] Ciò e reso evidente, a titolo esemplificativo, dall’art. 1186 c.c., per i rapporti obbligatori in generale, e, per i contratti a prestazioni corrispettive, dall’art. 1461 c.c. in cui viene pur sempre in evidenza la tutela della parte in bonis. Per uno studio critico sull’incidenza delle condizioni economiche delle parti contrattuali cfr. F. ADDIS, Il “mutamento” nelle condizioni patrimoniali dei contraenti, Milano, 2013.

[11] E’ d’uopo porre in rilievo il disposto di una recente disposizione introdotta dal D.L. 17 marzo 2020, n. 18, l’art. 91, con la quale il Governo ha tentato di arginare le controversie afferenti il ristoro dei danni cagionati dai ritardi negli adempimenti ovvero da inadempimenti per i contratti in corso di esecuzione. A mente del comma 1 della suddetta disposizione: <<All’articolo 3 del decreto – legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, dopo il comma 6, è inserito il seguente: “6-bis. Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 c.c. e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti>>. Fugacemente, si intende evidenziare un duplice aspetto della norma, pur atteso che essa potrà essere stravolta ad horas; in primo luogo, la norma pone un obbligo di valutazione in capo al giudice concernente l’impatto delle misure di contenimento sui ritardi e sugli inadempimenti a prescindere, si potrebbe supporre, da una esplicita istanza della parte a ciò interessata. In secondo luogo, non si comprende il riferimento all’art. 1223 c.c. che non si concilia con la perifrasi “esclusione della responsabilità”; l’art. 1223 c.c., infatti, ha come suo prius logico il positivo accertamento della responsabilità giacché afferisce alla valutazione dei danni conseguenza di un inadempimento o di un ritardo imputabile.

[12] La nozione di impossibilità definitiva della prestazione figura, con identico significato, negli artt. 1256 c.c. e 1463 c.c.; naturalmente, sul piano dogmatico questa assume rilevanza anche per sceverare l’ inadempimento imputabile da quello inimputabile ex art. 1218 c.c., e su questo punto si rinvia supra. Quel che è d’uopo porre in luce sono le caratteristiche graniticamente attribuite alla suddetta impossibilità; anzitutto essa deve essere sopravvenuta (altrimenti si avrebbe nullità per impossibilità dell’oggetto ai sensi dell’art. 1346 c.c., ove l’obbligazione sorga ex contractu, ove invece abbia diversa scaturigine, si dovrà comunque considerare il vincolo improduttivo d’effetti per mancata verificazione di uno degli elementi costitutivi della fattispecie ex art. 1174 c.c.); in secondo luogo, come detto, definitiva; necessariamente deve essere non imputabile (altrimenti dovrebbe discorrersi di inadempimento), e, deve essere come ricorda S. PAGLIATINI, Dell’impossibilità sopravvenuta, in Comm. cod. civ. dir. da Gabrielli, 2018, p. 546: << (…) in caso di obbligazioni di fare, se non “oggettiva” ed “assoluta”, tale da reclamare uno sforzo volitivo e tecnico incompatibili col tipo di rapporto predisposto>>. Cfr. funditus anche P. PERLINGIERI, Dei modi di estinzione delle obbligazioni diverse dall’adempimento, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1975, p. 496 ss. e G. AULETTA, La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942. Si discute, invece, in dottrina e giurisprudenza, in ordine al requisito della imprevedibilità originaria, v. DELFINI, Dell’impossibilità sopravvenuta (artt. 1463-1466), in Comm. Schlesinger, Milano, 2003, pp. 41-45 e gli Autori ivi citati. In giurisprudenza cfr. Cass. civ. 27 febbraio 2004, n. 4016, in Contratti, 2004, p. 1103; Cass. civ. 1 agosto 1953, n. 20, in Rep. For. It., 1954, Obbligazioni, n. 233.

[13] In tal senso, con acribia, v. R. CALVO, La locazione, in Tratt. di dir. priv., Torino, 2016, pp. 1-2, il quale rileva che << Dal contratto sorge il diritto personale di godimento. La radice personale del diritto in questione, che non appare stravolta dalla sua innegabile attinenza con il bene valutato nella sua materialità, è facilmente distinguibile là dove si consideri che il medesimo diritto del locatario non ha ad oggetto la cosa in sé, bensì la prestazione del locatore volta ad assicurare il godimento dell’oggetto>>.

[14] Per approfondimenti sul contratto di locazione, in generale, e su quello ad uso commerciale, in particolare, si rimanda all’autorevole dottrina che si è occupata del tema specificamente o in volumi manualistici. Cfr. ex multis R. CALVO, Manuale di diritto civile, Il contratto I ed., Assago, 2017, p. 1128 ss.; F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2019, p. 1143 ss; G. GABRIELLI e PADOVINI, La locazione di immobili urbani, Padova, 2005; A. GUARINO, Locazione, in Tratt. Grosso-Santoro Passarelli, Milano, 1956; C. LAZZARA, Il contratto di locazione (profili dommatici), Milano, 1961; F. BOCCHINI e E. QUADRI, Diritto privato,Torino, 2014, p. 1108 ss..

[15] V. sul punto F. ROLFI, Funzione concreta, interesse del creditore ed inutilità della prestazione: la Cassazione e la rielaborazione del concetto di causa del contratto, in Corr. giur., 2008, p. 932, per il quale: << «taglio estremamente astratto» con cui risulta ab origine concepito l’art. 1174 c.c. non impedisce di conferire alla norma la funzione dalla medesima nel concreto rivestita, cioè a dire quella di «evidenziare la rilevanza che l’interesse del creditore ha non solo sul sorgere dell’obbligazione, quanto sulla sua stessa persistenza. Qualora, infatti, l’art 1174 c.c. sia valorizzato (…) all’interno (non della singola obbligazione atomisticamente intesa bensì) del complessivo rapporto contrattuale (…), finisce per rivelare sia la rilevanza che l’interesse del singolo creditore ha all’interno del rapporto contrattuale, sia la ricaduta che sul rapporto medesimo può avere il sopravvenuto venir meno dell’interesse».

[16] Si impone un fugace richiamo ad alcuni illustri Autori che hanno discettato dell’evoluzione del concetto di causa nel nostro ordinamento. In proposito si rimanda a M. BARCELLONA, Della causa. Il contratto e la circolazione della ricchezza, Milano, 2015, p. 132 il quale ammonisce sul fatto che: << una cosa è che il giudizio causale debba essere portato sul “reale significato pratico dell’operazione” ed una cosa diversa è che tale giudizio debba essere esperito secondo un metro individualistico o secondo una misura social-solidale>>. Cfr. anche G.B. FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, che per primo provvede ad una erosione del concetto di causa come funzione economico-sociale e R. SACCO, Il contratto, in Tratt. dir. civ. e comm. dir. da F. Vassalli, Torino, 1977. Tuttavia, la rappresentazione della causa più vicina agli orientamenti giurisprudenziali è di C.M. BIANCA, Il contratto, op. cit., pp. 452-453, per il quale: << il riferimento alla nozione di causa tipica porta a trascurare la realtà viva di ogni singolo contratto, e cioè gli interessi reali che di volta in volta il contratto è diretto a realizzare al di là del modello tipico adoperato>>. Cfr. anche F. GAZZONI, Recensione ad Antonio Palazzo, Le donazioni. Artt. 769-809 [1a ed., 1991], in Riv.not., 1994, p. 202 ss.; M. PARADISO, Recensione ad Antonio Palazzo, Atti gratuiti e donazioni, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 173 ss ; G. ALPA, Il contratto in generale, I, Fonti, teorie, metodi, in Tratt. dir. civ. e comm. Cicu-Messineo-Mengoni- Schlesinger, Milano, 2014, p. 442 ss..  In giur. una delle prime adesioni alla teorica della causa in concreto si ha con Cass. civ. sez. III 8 maggio 2006, n. 10490.

[17] Cfr. S. CERRI, Irrealizzabilità del contratto di pacchetto turistico e causa in concreto, in Dir. e proc., 2018, nota a Cass. civ. sez. I 10 luglio 2018, n. 18047.  Quest’ultima pronuncia, pur risolvendo principalmente il problema sulla spettanza della legittimazione ad agire ex art. 1463 c.c. in caso di inutilizzabilità della prestazione da parte del viaggiatore per fatto ascrivibile alla propria sfera giuridica, desta interessa perché ribadisce l’applicazione del rimedio demolitorio in caso di mera impossibilità di fruire della prestazione. In un primo torno di tempo, la giurisprudenza aveva deciso per l’inapplicabilità del rimedio in casi siffatti, cfr. G. PESCATORE, Effetti dell’impedimento personale del singolo viaggiatore sul contratto di crociera turistica, in Foro it., 1947, ritornando poi sui suoi passi basando il proprio revirement sulla protezione del contraente che subisce l’alterazione sinallagmatica, v. Cass., 24 luglio 2007, n. 16315.

[18] Posto che, ragionando diversamente, non avrebbero senso quelle norme che pongono in capo al creditore un obbligo di cooperazione all’adempimento quali l’art. 1175 c.c., 1375 c.c., in chiave risarcitoria l’art. 1227 c.c. ma, soprattutto, l’istituto della mora credendi. In dottrina si è anche ipotizzata una tutela di tipo indennitario a beneficio del contraente la cui prestazione è divenuta inutile che si trova, suo malgrado, nell’impossibilità di ricevere la sua controprestazione ancora possibile senza poter recuperare i costi sofferti nell’aspettativa di questa, v. sul punto F.ROLFI, Funzione concreta, interesse del creditore ed inutilità della prestazione: la Cassazione e la rielaborazione del concetto di causa del contratto, op. cit., p. 928.

[19] La generalità della equivalenze testé segnalato viene confortata da un recente arresto della Suprema Corte, cfr. Cass. civ. sez. III, ord. 29 marzo 2019, n. 8766,  con cui il giudice nomofilattico ha confermato la decisione del giudice di merito di ritenere liberato il debitore tenuto all’esecuzione di un’opera canora divenuta impossibile a causa delle intemperie, non conservando la controparte creditrice interesse all’esecuzione, facendo proprio applicazione della medesima ratio decidendi venuta in essere in materia di contratti di viaggio.

[20] Descrive l’inutiizzabilità della prestazione come sopravvenuta inidoneità della stessa a soddisfare l’interesse creditorio C.M. Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità, 2a ed., Milano, rist. 2015, p. 383; parla invece di negozio “inutile” A. SCIALOJA, Contributi alla teoria del negozio giuridico, II, Nullità ed inefficacia, in Saggi di vario diritto, I, Roma, 1927, p. 27.

[21] Sulla distinzione concettuale tra impossibilità della prestazione ed impossibilità di fruire della stessa, ancorché vi sia una equivalenza quoad effecta, v. Cass., 2 maggio 2006, n. 10138, in Contratti, 2007, p. 5, con nota di N.CORREA, Eccezione d’inadempimento e mancata fruizione della prestazione, la quale evidenzia che <<L’eccezione, sollevata nel giudizio di merito, di mancata fruizione della prestazione della controparte, come la mancata partecipazione ad un corso di formazione ed istruzione tenuto da un istituto universitario, non coincide né in fatto né in diritto con l’eccezione di mancato adempimento, ovverosia di mancata esecuzione del corso, in quanto, mentre la prima si riferisce ad un comportamento del creditore – e si configura come una eccezione di recesso o di impossibilità sopravvenuta –, la seconda attiene ad un comportamento del debitore, e si configura come un’eccezione di inadempimento>>.

[22] In siffatta ipotesi, infatti, si tratterebbe di un mero motivo che può assumere rilevanza esclusivamente ai sensi dell’art. 1345 c.c.

[23] In altri termini, si sta ipotizzando, sul piano ermeneutico, che l’art. 1256 co. 2 vada letto, da un canto, tenendo conto dell’equiparazione tra impossibilità ed inutilizzabilità della prestazione e, dall’altro, che con il termine “debitore” cui la norma fa riferimento si designi la parte per la quale la prestazione è divenuta temporaneamente inutile. Del resto, nei contratti sinallagmatici ciascuna parte cumula la qualifica di creditore e debitore di prestazioni distinte e ciò potrebbe autorizzare  questa interpretazione evolutiva dell’art. 1256 co. 2.

[24] Beninteso, tuttavia, che il rapporto contrattuale potrà perdurare fin quando il creditore non perda interesse all’adempimento ovvero il debitore non può più essere ritenuto obbligato “in relazione al titolo dell’obbligazione ed alla natura dell’oggetto”; a queste condizioni anche l’inutilizzabilità temporanea dovrà considerarsi definitiva e produrrà un effetto estintivo. Occorre, nondimeno, precisare che attesa la natura pecuniaria dell’oggetto della prestazione del locatario, il disposto dell’ultima parte dell’art. 1256 co. 2 potrà trovare applicazione solo in relazione alla fonte del rapporto obbligatorio. Circa i criteri di valutazione per il giudizio in discorso cfr. G. SMORTO, Dell’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore (art. 1256 c.c.), in Comm. cod. civ. dir. da Gabrielli, 2018, pp. 696-699 e gli Autori ivi richiamati.

[25] Invero, la sospensione unilaterale del rapporto contrattuale non è sconosciuta agli orizzonti giurisprudenziali. Infatti, si è consolidato nel tempo un orientamento, fin ora ristretto al solo contratto di lavoro, in forza del quale il datore di lavoro che per causa non imputabile né prevedibile non può servirsi della prestazione lavorativa pienamente possibile può sospendere il pagamento della retribuzione, cfr. Cass. civ. sez. lav. 16 giugno 2003, n. 9635 secondo cui quando la prestazione: << sia divenuta inutilizzabile non nell’aspetto economico o per deficienze di programmazione, di previsione o di organizzazione aziendale, bensì per un fatto sopravvenuto non prevedibile, il datore di lavoro non incorre in responsabilità per l’unilaterale sospensione da lui disposta e, in particolare, non è tenuto al pagamento delle retribuzioni per il periodo di sospensione.” In senso conforme v. anche Cass. sez. lav. 22 ottobre 1999, n. 11916.

[26] A ben vedere, la sospensione del rapporto contrattuale per ambo le parti in caso di impossibilità temporanea sembra essere la soluzioni cui aderisce la giurisprudenza, v. Cass. 27 settembre 1999, n. 10690, in Contr. 2002, p. 113; Cass. 28 gennaio 1995, n. 1037, in Rep. for. It., 1995, Contratto in genere, n. 512.

[27] Cfr. U. CARNEVALI, Contratti di durata e impossibilità temporanea di esecuzione, in Contr., 2000, p. 115 ss., in cui si rintracciano importanti esemplificazioni che riguardano soprattutto il contratto di somministrazione. A. TORRENTE, Sull’impossibilità temporanea del lavoratore, in Scritti giuridici in onore di Carnelutti F., Padova, 1950, p. 622 ss.; E. LUCCHINI GUASTALLA, Le risoluzioni per inadempimento dell’appaltatore, Milano, 2002, p. 180. Più di recente v. S. PAGLIATINI, Dell’impossibilità sopravvenuta, op. cit., pp. 564-565, il quale argomenta in ordine ad una “risoluzione per singole coppie di prestazioni”; l’ A. incisivamente conclude: << l’idea di una impossibilità parziale ratione temporis (…) altro non è che lo svolgimento logico di due dati fattuali. Il primo è dato dall’ineluttabile irrecuperabilità delle prestazioni ineseguite (…) il secondo impinge nella simmetrica decurtazione che si ha dall’ammontare complessivo del prezzo, della frazione relativa al fare dovuto rimasto definitivamente inevaso>>.

[28] Per esemplificare e per favorire un miglior inquadramento di tale teorica al caso che si va discettando, si ponga mente all’ipotesi in cui il locatore sia impossibilitato per due mesi ad assicurare il godimento dell’immobile al locatario. In questo caso, atteso che il contratto di locazione ha un termine finale a data fissa, quando il locatore sarà di nuovo in condizione di assicurare il godimento del bene immobile, non starà recuperando i due mesi di sospensione del godimento né potrà più farlo in quanto il vincolo contrattuale è circoscritto nel tempo.

[29] In questi termini S. PAGLIANTINI, Dell’impossibilità sopravvenuta, op. cit., p. 565.

[30] Pare invocare in generale l’art. 1664 c.c. per legittimare una revisione dei contratti di durata alla luce di sopravvenienze P. GALLO, Revisione e rinegoziazione del contratto, op. cit., p. 815, a parere del quale, diversamente opinando: << Il promittente che abbia già effettuato investimenti o spese in vista dell’esecuzione si troverebbe nel triste dilemma tra persistere in un’esecuzione eccessivamente onerosa, o chiedere la risoluzione del contratto e sopportare una perdita pari alle spese ed agli investimenti effettuati senza contare il mancato guadagno>>. Nondimeno, non può sottacersi che l’art. 1664 sia una norma eccezionale e, dunque, di stretta interpretazione; inoltre, essa prevede precisi limiti di ordine quantitativo cui è subordinato il diritto di chiedere una revisione del regolamento contrattuale che, in mancanza di una norma espressa, verrebbero rimessi all’arbitrio del giudice per contratti diversi dall’appalto. Analoga eccezionalità attaglia gli artt. 1538 c.c. (per la vendita a corpo), 1492 c.c. (per l’azione quanti minoris) e 1668 c.c. (per il contratto di appalto in caso di difetti dell’opera). Questa elencazione, certamente non esaustiva, testimonia comunque la tendenza del legislatore a conservare l’atto di autonomia, in specie nei rapporti di durata. Tuttavia, va rinvenuto un fondamento normativo che possa legittimare una revisione in generale dei contratti di durata. Sul punto v. § 3.

[31] Cfr. E. DEL PRATO, Clausole di rinegoziazione del contratto, in Riv. dir. civ., 2016, n.3, p.. secondo il quale: << esse contengono una condizione, sospensiva o risolutiva, che genera l’adeguamento  automatico o rimesso al terzo (…). Più agevole è il caso della condizione sospensiva; quando la condizione è risolutiva, il suo avveramento collega, infatti, la previsione circa l’adeguamento o il dovere di rinegoziare allo scioglimento del contratto. Si tratterà, dunque, di una nuova situazione, novativa o meno a seconda che escluda o tenda al recupero della situazione preesistente>>. Ad ogni modo, l’impiego di queste clausole è piuttosto peregrino nella contrattazione nazionale; viceversa, è piuttosto frequente nella prassi negoziale internazionale in cui è invalsa la predisposizione di hardship clauses che richiamano i principi Unidroit (v. art. 6.2.3.: effetti dell’hardship).

[32] Per queste clausole si pone un problema di operatività rispetto al quale E. DEL PRATO, Clausole di rinegoziazione del contratto, op. cit., p. 804 prospetta soluzioni di diversa problematicità: << a) è previsto un arbitratore di equo apprezzamento; b) è previsto un arbitratore di equo apprezzamento entro criteri oggettivi fissati dalle parti;  c) è previsto un arbitratore di mero arbitrio nell’ambito di criteri oggettivi fissati dalle parti (qui la differenza col punto b è data dal fatto che le parti considerano infungibile la determinazione del terzo); d) è previsto un arbitratore di mero arbitrio; e) la rinegoziazione è affidata alle stesse parti>>. Questa ultima fattispecie pone problemi analoghi a quelli che si evidenzieranno a breve discettando dell’obbligo legale di rinegoziazione fondata sul canone di buona fede.

[33] V. R. POSNER-A. ROSENFIELD, Impossibility and Related Doctrines in Contract Law, An Economic Analysis, J. Leg. Stud., 1977, 90; M. AMBROSOLI, La sopravvenienza contrattuale, Milano, 2002, 58; P. GALLO, Introduzione al diritto comparato, III, Analisi economica del diritto, Torino, 1998.

[34] Va considerato che i paciscenti possono incidere sull’alea contrattuale anche in direzione inversa, ossia aumentando la soglia di rischio. Ciò può avvenire con la scelta, operato a monte, del tipo contrattuale. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla differenza che intercorre tra un contratto di vendita, nella sua “ordinaria configurazione” commutativa e la c.d. emptio spei, ossia una vendita di cosa futura a carattere aleatorio.

[35] La dottrina italiana si è dimostrata generalmente ostile all’ammissione del suddetto potere, cfr. E. ROPPO, Il contratto, in G. IUDICA e P. ZATTI (a cura di), Trattato di diritto privato, 2 a ed., Milano 2011, pp. 356 s.; T. CAPURRO, La rinegoziazione secondo buona fede del contratto di noleggio di nave, in D. maritt., 2013, p. 642 ed E. DEL PRATO, I regolamenti privati, Milano, 1988, pp. 281 s.; inoltre E. DEL PRATO, Clausole di rinegoziazione, op. cit., p. 804 fa notare che anche il § 315 del BGB non avalla un illimitato potere di modifica unilaterale, quanto piuttosto una modifica racchiusa entro un oggetto elasticamente determinato convenzionalmente.

[36] V. funditus E. PANZARINI, Il contratto di opzione. Struttura e funzioni, Milano, 2007, p. 245, in cui l’ A. afferma: << l’opzione opera, se inserita in un contesto negoziale più ampio, come mezzo per il raggiungimento di equilibri contrattuali o di allocazione dei rischi tra le parti>>. Cfr. anche R. FAVALE, Opzione (art. 1331 c.c.), in Comm. cod. civ. di Busnelli-Schlesinger, Milano, 2009.

[37] La funzione del contratto preliminare postula la risoluzione del dibattito circa la sua natura giuridica; la giurisprudenza e la dottrina maggioritarie reputano che questo congegno negoziale non sia soltanto una promessa di futuri consensi ma anche una promessa di prestazioni già divisate nei loro elementi essenziali. In tal senso, il contratto definitivo non solo consolida il definitivo assetto di interessi ma ha anche una funzione di gestione delle sopravvenienze, v. D. TRIOLO, Il contratto preliminare, Frosinone, 2017, p. 14. Invero, è più corretto ritenere che sia il preliminare, e non già il  contratto definitivo, ad avere una simile funzione, come denota M. CATALANO, Contratti preliminari a catena e azione surrogatoria, in I Contr., III, 2009, p. 257. Sulla natura giuridica del preliminare v. anche C.M. BIANCA, Il contratto, op. cit., p. 185.

[38] Si ricordi che la legge prevede talune ipotesi di sopravvenienze tipiche al verificarsi delle quali sorge un obbligo di rinegoziazione. Ci si riferisce ad es. all’art. 3 del D.L. 27 maggio 2008, n. 93 – convertito con la L. 24 luglio 2008, n. 126) per la rinegoziazione dei mutui a tasso variabile stipulati per l’acquisto della c.d. prima casa.

[39] Per la tesi che riconosce questo obbligo cfr. F. MACARIO, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli 1996; M. LIBERTINI, Autonomia individuale e autonomia di impresa, in I contratti per l’impresa, I, Produzione, circolazione, gestione, garanzia, a cura di GITTIM MAUGERI NOTARI, Bologna 2012, pp. 33 ss., spec. pp. 65 s.; analizzando i casi di revisione ex lege F. GAMBINO, Problemi del rinegoziare, Milano 2004, pp. 90 ss; P. GALLO, Revisione e rinegoziazione, op cit., p. 812; PARDOLESI, Consensual variation of contracts, Italian nat. rep. to the XII Int. congr. com. law, Sidney, Milano, 1986; R. CALVO, Diritto civile, op. cit., p. 506 ss., secondo il quale: << (…) i rilievi che precedono rinforzano l’opinione secondo cui la parte pregiudicata dalla sopravvenienza sia legittimata a proporre la modifica extragiudiziale del contratto a meno che la “restaurazione” appaia irragionevole>>. Contra, v.  M. BARCELLONA, Appunti a proposito di obbligo di rinegoziazione e gestione della sopravvenienza, EDP, 2003, p. 467; M. AMBROSOLI, La sopravvenienza contrattuale, op. cit., p. 459; A. GENTILI, La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto, in Contratto e impr., 2003, pp. 667 ss., spec. pp. 709 s.; A CATAUDELLA, I contratti. Parte generale, IV ed., Torino 2014, pp. 272 s., per il quale il fondamento del principio di buona fede «per affrontare le sopravvenienze trova un limite proprio nell’art. 1467, che fissa le caratteristiche che le sopravvenienze devono presentare per trovare rimedio nella risoluzione del contratto»

[40] Una pronuncia che va proposta perché  apparentemente distonica dall’orientamento giurisprudenziale prevalente è Trib. Bari ord. 14 giugno 2011, in Contratti, 2012, pp. 571 ss., con nota di F.P. PATTI in cui il tribunale ha ordinato ex art. 700 c.p.c. di eseguire il contratto adeguato con una penale giudiziale ex art. 614 bis c.p.c. per ogni giorno di ritardo. Tuttavia, va rilevato per quanto si dirà oltre che si trattava di un adeguamento automatico. Più inclini alla rinegoziazione coatta si mostrano, invece, gli arbitri come dimostra G. MARASCO, La rinegoziazione e l’intervento del giudice, CeI, 2005, 539, che cita un lodo arbitrale del 19 luglio 2004.

[41] Cfr. A. FICI, Il contratto incompleto, Torino, 2005, p. 206 ss., che è fortemente critico sulle conseguenze che si intendono far discendere dal fondamento ex fide bona del dovere di rinegoziazione e richiama il più “determinato” criterio dell’equo apprezzamento giudiziale ai sensi dell’art. 1349 co. 1 c.c.

[42] Come autorevolmente ricorda R. CALVO, Diritto civile, op. cit., p. 507.

[43] Più composita è la situazione in altri ordinamenti. Ad esempio, i sistemi di common law si mostrano più refrattari all’impiego di clausole elastiche quali la good faith, privilegiando di contro rimedi specifici quali la misrepresentation o gli implied terms. Nell’ ordinamento spagnolo, come in Italia, manca una norma ad hoc sulla revisione contrattuale ma l’istituto della revisione è stato introdotto dalla giurisprudenza. Particolare attenzione desta, invece, l’ordinamento francese; a seguito della riforma del 2016  del codice Napoleone è stato introdotto l’art. 1195 che non solo codifica la revisione del contratto a causa di sopravvenienze ma incentiva una rinegoziazione spontanea dei paciscenti (v. art. 1195 co. 2).

[44] V. A. FICI, Il contratto incompleto, op. cit., p. 142; p. 210 ed anche nt. 39. L’A., inoltre, sottolinea che questa soluzione potrebbe essere incentivante per le parti a trovare un accordo spontaneamente evitando l’intervento del giudice quale soggetto estraneo al regolamento negoziale.

[45] In tal senso cfr. M. COSTANZA, Clausole di rinegoziazione e determinazione unilaterale del prezzo, in Inadempimento, adattamento, arbitrato, a cura di Draetta-Vacca, Milano, 1992, p. 316; F. MACARIO, Adeguamento e rinegoziazione, op. cit.,p. 419 ss., il quale ritiene che nel contratto di lunga durata sia automaticamente inglobata una clausola di rinegoziazione interpretando il contratto secondo buona fede che legittimerebbe la parte svantaggiata dalla sopravvenienza a sospendere l’adempimento della propria prestazione (arg. ex artt. 1375 c.c. e 1460 c.c.) come reazione al rifiuto della controparte di rinegoziare, stigmatizzato come comportamento non meritevole di tutela perché contrario a buona fede; R. CALVO, Diritto civile, op. cit., p. 507, a parere del quale << la rinegoziazione – in quanto ammissibile – non deve mai snaturare la causa concreta del rapporto, né frustrare l’interesse di ambedue le parti che stimolò la loro originaria determinazione volitiva>>. Sul crinale remediale è affatto peculiare la posizione di M. BARCELLONA, Clausole generali e giustizia contrattuale. Equità e buona fede tra codice civile e diritto europeo, Torino, 2006, p. 238 ss., il quale ravvisa nell’art. 1664 c.c. la norma giustificativa di un generale principio di favor contractus..

[46] V. E. DEL PRATO, Clausole di rinegoziazione, op. cit., p. 809 che ne parla con riferimento a clausole di rinegoziazione rimesse alla volontà delle parti. Si discute se la tutela risarcitoria debba limitarsi al solo interesse negativo cfr. G. SICCHIERO, «Rinegoziazione», in Digesto/civ., Agg., Torino, 2003, II, 1212. o ristorare anche l’interesse positivo A. FICI, Il contratto incompleto, op. cit., 218, nt. 146; concorda F. MACARIO, Adeguamento e rinegoziazione, op. cit., 2006, p. 1910. Questi ultimi autori, è bene avvertire, discorrono della tutela risarcitoria come succedanea all’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di rinegoziare.

[47] Il codice civile del 1942 mostra di tenere distinte le sopravvenienze proprio sulla base di questo discrimen (arg. ex artt. 1463 c.c. e 1467 c.c.). Giova richiamare K. LARENZ, Geschaftsgrundlage, op. cit., pp. 165 ss., il quale scevera il venir meno del rapporto di equivalenza tra le prestazioni originarie che pone la necessità di rimediare con la revisione del contratto e l’impossibilità dello scopo del contratto che, invece, non può che portare allo scioglimento del rapporto contrattuale.

[48] Invero, si ammette anche una onerosità indiretta, per tale intendendosi però lo svilimento valoriale della controprestazione.

[49] Questa interpretazione è rinforzata dalla lettura dei lavori preparatori in cui si dice che <<garantisce contro il pericolo di eccessi la rigida valutazione obiettiva del concetto di eccessiva onerosità>>.

[50] Donde l’impossibilità di chiedere la risoluzione per sopravvenuta eccessiva onerosità ex art. 1467 c.c.

[51] Per la distinzione tra esecuzione ed effetti giuridici del contratto v. A. DI MAJO, L’esecuzione del contratto, Milano, 1967, p. 22.

[52] Taluni sottolineavano come altro è l’integrazione di un contratto, che ne postula l’incompletezza, altro è la sua esecuzione, che presuppone una fattispecie completa nella quale si innerva l’obbligo di comportarsi secondo buona fede, cfr. ex multis U. NATOLI, L’attuazione del rapporto obbligatorio, I, Milano, 1974, p. 27. Il primo a collocare il canone di buona fede esecutiva tra le fonti di integrazione contrattuale è stato S. RODOTA’, Le fonti di integrazione del contratto, Milano 1969, p. 176 ss. In questo studio l’ A. imprime, inoltre, una colorazione etica alla regola di buona fede collegandola ai doveri inderogabili di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.. Questa idea è assunta, oggi, come principio acquisito in dottrina, v. C.M. BIANCA, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, I, p. 205, ed in giurisprudenza.

[53] In questi termini Cass. civ. 18 febbraio 1986, n. 960, in Rep. for. it., 1986, Contratto in genere, n. 151; più di recente v. Cass. civ. ord. 12 dicembre 2019, n. 32478. In dottrina cfr. F. MACARIO, Esecuzione di buona fede. Art. 1375 c.c., in Comm. cod. civ.  dir. da Gabrielli, 2018, p. 737.

[54] Per una disamina sinottica dell’art. 1175 c.c. v. . S. BAGGIO, Artt. 1173-1320: obbligazioni, Milano, 2009, p. 47 ss..

[55] A. DI MAJO, Debito e patrimonio nell’obbligazione, in G. GRISI (a cura di), Le obbligazioni e i contratti nel tempo della crisi economica. Italia e Spagna a confronto, Napoli, 2014, 32. per il quale <<principio di buona fede che si fa portatore, com’è noto, per via di integrazione della obbligazione, (della difesa) di valori altri e diversi rispetto al contratto, recati dai diritti fondamentali della persona>>; in maniera illuminante in questi termini v.  L. MENGONI, Responsabilità contrattuale (dir. vig.), in Enc. dir., XXXIX, 1988, 18/44.

[56] Ci si riferisce segnatamente a Cass., Sez. Un., 15 novembre 2007, n. 23726, criticata da A. GENTILI, Il diritto come discorso, in

Tratt. dir. priv. diretto da G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2013, 401 ss. Si veda anche Cass. 18 settembre 2009, n. 20106. Il principio è condiviso anche dalla Corte Costituzionale, v. Corte Cost. 3 febbraio 1994, n. 19, in Giur. Cost., 1994, p. 136.

[57] Cfr. le chiare indicazioni di L. MENGONI, Responsabilità contrattuale, op. cit., p. 19/44: <<Solo indirettamente la clausola della buona fede può integrare una causa di esonero del debitore, in virtù del limite che la direttiva di correttezza (art. 1175) impone all’esercizio del diritto di credito quando l’interesse del creditore all’adempimento entri in conflitto con un interesse del debitore al quale, nel sistema degli interessi protetti dall’ordinamento, inerisce un giudizio di valore preminente. Le esemplificazioni di scuola rappresentano i casi della cantante che all’ultimo momento disdice il recital cui è impegnata per accorrere al capezzale del figlio gravemente infermo; o del prestatore di lavoro che si assenta senza permesso perché colpito da un grave lutto familiare; o dell’inquilino che, finita la locazione non restituisce l’appartamento al tempo debito perché immobilizzato a letto da una seria malattia>>; riprende la tesi del MENGONI in relazione al sovraindebitamento F. FORCELLINI, Sovraindebitamento e statuto dell’obbligazione pecuniaria, Europa e Diritto Privato, fasc.1, 2015, pag. 109

[58] Cfr. L. MENGONI, Responsabilità contrattuale, op. cit., p. 19/44 sul pericolo che può concernere anche i beni del debitore.

[59] Secondo S. RODOTA’, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, p. 157: <<La Costituzione non si ferma al dato materiale, non si accontenta di attribuire rilievo a qualsiasi forma di esistenza, bensì a quella che dà pienezza alla libertà e alla dignità>>. Si rammenta, inoltre, che il diritto al lavoro riceve riconoscimento anche a livello sovranazionale (v. artt. 29, 30, 31, 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e le disposizioni del TFUE sulla libertà di circolazione dei lavoratori subordinati, libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi). Per analoghe considerazione cfr. G. GRISI, L’inadempimento di necessità,  G. GRISI (a cura di), Le obbligazioni e i contratti nel tempo della crisi economica. Italia e Spagna a confronto, Napoli, 2014, pp. 231-232.

[60] L’equipollenza degli effetti non deve far dimenticare il diverso approccio ermeneutico seguito; quello di cui al par. 2 si fonda sull’art. 1256 co. 2 mentre quello esposto in questa sede pone in risalto il valore della buona fede e della correttezza in funzione correttiva delle regole pattizie là dove imposto da valori preminenti. Sul punto è necessario citare ancora L. MENGONI, Responsabilità contrattuale, op. cit., p. 19/44: << l’inesigibilità non appartiene concettualmente agli impedimenti oggettivi della prestazione, tant’è che può configurarsi anche per le obbligazioni pecuniarie, dove non è ipotizzabile l’impossibilità. Essa è un limite dell’obbligazione distinto da quello previsto dagli art. 1218 e 1256, e derivante dal divieto di abuso del diritto implicito nella direttiva di correttezza impartita (anche) al creditore dall’art. 1175, il quale funge qui da autonoma causa esimente del debitore. L’inesigibilità, nel senso ora precisato, è dunque equiparabile all’impossibilità non sul piano concettuale, ma solo quoad effectum>>.

[61] V. RGZ 103, 177.

[62] Cfr. Cass. 18 gennaio 1947, n. 44, in Giur. it., 1948, I, 1, 79.

Angelo D’Onofrio

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