L’esecuzione in forma specifica: definizioni, caratteristiche e recenti orientamenti giurisprudenziali

Sommario: 1. l’esecuzione in forma generica, alias espropriazione forzata, e le sue forme: gli istituti in breve; 2. l’esecuzione in forma specifica nell’odierno processo civile ; 3. l’art. 2932 cc. in tema di dismissione di immobili pubblici; 4. l’esecuzione in forma specifica nel processo amministrativo: l’AP del 2017.

Per approfondire leggi anche “Nuovo formulario commentato del processo civile” di Lucilla Nigro.

L’esecuzione in forma generica, alias espropriazione forzata, e le sue forme: gli istituti in breve

“Il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può far espropriare i beni del debitore, secondo le regole stabilite dal codice di procedura civile”. Con tali parole, rinvenibili nell’art. 2910 cc., il legislatore ha indirettamente fornito una definizione del concetto di “esecuzione forzata”: essa mira a far conseguire quanto dovuto in ragione dell’esistenza di un titolo esecutivo certo, liquido ed esigibile.

Se nel processo ordinario di cognizione (e non solo) il creditore evidenzia il diritto di ottenere un provvedimento di merito, nel processo esecutivo, mediante la cd. “azione esecutiva”, egli sottopone all’attenzione dell’organo giudicante la pretesa di “mettere in pratica” il diritto accertato e cristallizzato nel titolo esecutivo.

Nulla executio sine titulo, dunque.  Una sentenza, un provvedimento dell’organo giudicante avente efficacia esecutiva, un atto al quale l’ordinamento giuridico attribuisce espressamente efficacia esecutiva, le cambiali e, più in generale i titoli di credito, gli atti ricevuti da un pubblico ufficiale o dal notaio, le scritture private autenticate o, ancora, un titolo esecutivo europeo, avendo riguardo ai recenti regolamenti in materia di diritto internazionale privato. E’ sufficiente uno di questi documenti, alcuni necessariamente spediti in forma esecutiva ex art. 475 c.p.c. All’elenco la recente giurisprudenza ha aggiunto anche il provvedimento, in sede di separazione dei coniugi, con il quale si impone al genitore non affidatario il pagamento pro quota delle spese ordinarie per il mantenimento dei figli[1].

La procedura si apre, come è noto, con la notifica del titolo esecutivo e dell’atto di precetto[2] e l’esecuzione forzata non può iniziare prima che sia trascorso il termine indicato nel precetto ovvero i dieci giorni dalla notifica del suddetto atto. Ad ogni modo, l’avvio non può andare oltre i novanta giorni dalla notifica del precetto.

Il procedimento può assumere tre diverse forme: mobiliare presso il debitore, mobiliare presso terzi, immobiliare.

Il primo consiste nella “ricerca” dei beni oggetto del pignoramento presso l’abitazione del debitore nonché nei luoghi a quest’ultimo appartenenti; il secondo ha per oggetto crediti che il debitore vanta nei confronti dei terzi ovvero beni mobili di proprietà del debitore  che si trovino in possesso di soggetti terzi. Tale procedura, come è facile immaginare, rende necessaria la collaborazione o la partecipazione del terzo.

La terza tipologia, invece, inerisce all’esecuzione sulla proprietà (nonché su altri diritti reali) concernenti beni immobili del debitore e loro pertinenze. Tale procedura, in parte diversamente rispetto alle precedenti, presuppone una stretta collaborazione con il creditore: è quest’ultimo, infatti, e non l’ufficiale giudiziario ad effettuare la scelta del bene da sottoporre a pignoramento. E’ altresì il creditore a predisporre l’atto scritto di pignoramento[3].

Un cenno lo meritano anche l’espropriazione di beni indivisi e l’espropriazione contro il terzo proprietario.

Quid iuris qualora si intenda sottoporre a procedura la quota indivisa di proprietà di un debitore? Quid iuris, ancora, qualora non tutti i comproprietari siano obbligati verso il creditore procedente? In siffatti contesti il processo civile impone alcuni accorgimenti: il medesimo creditore dovrà notificare avviso di pignoramento alla totalità dei comproprietari. In forza della predetta comunicazione su ciascuno di essi graverà il divieto di lasciar separare al debitore la sua parte senza ordine dell’organo giudicante.

E’, altresì, necessaria la convocazione dei comproprietari e l’audizione degli interessati prima di provvedere alla separazione della quota in natura o, in alternativa, procedere all’instaurazione di un giudizio di divisione ex art. 600 c.p.c. commi primo e secondo. La divisione, pertanto, seguirà le norme del codice civile, salvo che il giudice dell’esecuzione non ritenga più probabile la vendita della quota indivisa ad un prezzo pari o superiore al valore della stessa, da determinarsi a norma dell’art 568 c.p.c.[4].

Per espropriazione contro il terzo, invece, si intende la promozione dell’azione esecutiva nei confronti di un terzo non debitore nell’ipotesi in cui questi sia proprietario di un bene vincolato a garanzia dell’adempimento di un debito altrui o, in altri casi, in ragione di un atto revocato perché pregiudizievole per il creditore procedente. “Figure sintomatiche” al riguardo sono il terzo datore di pegno o di ipoteca (artt. 2784 e 2808 cc.), il simulato alienante (artt. 1415 e, al comma quarto, 2652 cc.) nonché, come è facilmente intuibile, il terzo acquirente in caso di revocazione per frode dell’atto di acquisto[5].

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L’esecuzione in forma specifica nell’odierno processo civile

Se quelle appena delineate sono le linee generalissime dell’espropriazione forzata, non può non notarsi come da esse differiscano le diverse modalità di esecuzione in forma specifica. Le stesse possono agevolmente essere delineate partendo dal dato codicistico per giungere alle novità più rilevanti, specie per la professione forense.

Se non è adempiuto l’obbligo di consegnare una cosa determinata, mobile o immobile, l’avente diritto può ottenere la consegna o il rilascio forzati a norma delle disposizioni del codice di procedura civile”. L’art. 2930 cc. appena riportato impone sin da subito una riflessione: il creditore che intenda ottenere la consegna coatta di beni mobili o il rilascio di un bene immobile non deve necessariamente essere munito di un titolo esecutivo di carattere giudiziale. E’ sufficiente, all’uopo, un atto di un pubblico ufficiale ex art. 474 c.p.c. o, in alternativa, un atto ricevuto da notaio.

La procedura, avuto riguardo agli artt. 605 e ss. c.p.c.,  richiede una descrizione sommaria, da parte del creditore, nell’atto di precetto, dei beni in oggetto e si presenta particolarmente lineare: occorre, infatti, che l’ufficiale giudiziario si rechi nel luogo in cui le cose si trovano (con ricerca che avviene secondo le modalità indicate dall’art. 513 c.p.c.[6]) e le consegni all’istante o ad altra persona da questi designata.

Qualora i beni i oggetto risultino pignorati, la consegna, chiaramente non avrà luogo e la parte istante farà valere le proprie ragioni in sede di opposizione ex artt. 619 c.p.c. e ss.

Diversamente si presenta il rilascio di un bene immobile. Per esso si richiede la notifica del preavviso di almeno dieci giorni, a mezzo del quale l’ufficiale giudiziario comunica il giorno e l’ora in cui procederà all’esecuzione.

Il preavviso, dunque, costituisce l’atto iniziale della sequenza, pertanto dovrà essere notificato al debitore entro il termine di efficacia del precetto, ovvero entro i novanta giorni successivi alla notifica dello stesso.

Il procedimento concreto è particolarmente intuitivo: l’ufficiale, in alcuni casi coadiuvato dalla forza pubblica,  si reca sul luogo stabilito ed immette l’istante o altro soggetto designato nel possesso dell’immobile, con consegna delle chiavi o ingiunzione agli eventuali detentori di riconoscere il nuovo possessore.  Solo in presenza di beni mobili non oggetto di consegna si potrà procedere all’intimazione di un asporto, alla distruzione o nomina di un custode ai fini della vendita (senza incanto).

Passando all’esame dei riferimenti giurisprudenziali, si può osservare come non sono infrequenti, oggigiorno, le procedure di esecuzione forzata per rilascio incardinate in forza di sentenze di condanna aventi ad oggetto la risoluzione di contratti di comodato. In tali contesti, si è affermata recentemente, con sentenza della Corte di cassazione del 2015, la legittimazione del terzo detentore di immobile a proporre opposizione all’esecuzione, qualora sostenga di possedere il bene oggetto dell’esecuzione in forza di un titolo totalmente autonomo[7].

Ancora, la Suprema Corte è tornata, nel 2017 con sentenza n. 7041, sul tema dell’esecuzione in forma specifica ex art. 608 c.p.c.

La domanda alla quale si è inteso rispondere con la predetta pronuncia, questa volta, è più articolata: anche nell’ambito della poc’anzi richiamata procedura è applicabile la disciplina dell’opposizione di terzo all’esecuzione? La risposta al quesito sembra essere positiva. Al fine di evidenziare i rilevanti passaggi logici, appare opportuna una breve ricostruzione dei fatti di cui è stato processo.

Tizio, dopo aver acquistato un immobile da Caio con scrittura privata del 1996, chiese ed ottenne pronuncia (sentenza del 2000, passata in giudicato) dichiarativa della  autenticità della sottoscrizione della nonché la sua condanna al rilascio.

Su tali basi, il medesimo Tizio avviava l’esecuzione ex art. 608 c.p.c. in forza di tale titolo esecutivo.

Caio, nel frattempo, aveva alienato l’immobile a Sempronio trascrivendo però solo successivamente  alla trascrizione della domanda proposta da Tizio. Lo stesso Caio, aveva, altresì, avviato una domanda di nullità del contratto in via autonoma adducendo una violazione degli artt. 17 e 40 L. n. 47/85, nonché dell’art. 3, comma 13 ter e quater d.lgs. n. 90/90, sulla quale la medesima Suprema Corte si era pronunciata con rigetto nel merito della domanda e con conseguente formazione di giudicato.

Su tali basi Sempronio proponeva opposizione di terzo all’esecuzione ex art. 619 c.p.c. , deducendo la  nullità della scrittura privata del 1996 tra Tizio e Caio e, conseguentemente, l’inefficacia della trascrizione della relativa domanda ex art. 2652 n. 3 c.c..

Ne discendeva, secondo la sua difesa, la prevalenza dell’acquisto di esso opponente. Tale domanda, tuttavia, veniva rigettata e la statuizione negativa confermata dalla Corte d’Appello di Torino.

Avverso la predetta conferma Sempronio proponeva ricorso per cassazione.

I Supremi Giudici hanno subito evidenziato come, in relazione all’esecuzione per rilascio d’immobile  avviata da Tizio nei confronti di Caio,  quest’ultimo sia rimasto nel possesso del bene fino a  consegna coattivamente eseguita.

La ratio di tale evidenziazione va ravvisata nel fatto che  rispetto all’esecuzione diretta, << è terzo non soltanto colui che non risulti contemplato nel titolo esecutivo azionato, ma anche che non si trovi nel possesso o nella detenzione del bene e non subisca quindi direttamente gli effetti dell’operato dell’organo esecutivo. Ciò perché, come è  stato osservato in dottrina […] solo colui che possegga o detenga il bene è in grado di  restituirlo all’avente diritto, così realizzando la sua pretesa>>. 

Il ricorrente Sempronio, dunque, assume la qualifica di  terzo  poiché l’esecuzione per rilascio venne avviata e proseguita nei confronti di Caio, ovvero di chi <<esercitava il corpus sul bene per cui è causa, ossia […]l’unico soggetto […]destinatario degli atti esecutivi>>.

Con tali premesse, dunque, si entra nel vivo della questione: la dottrina maggioritaria aveva in passato  evidenziato che l’opposizione di terzo all’esecuzione è istituto applicabile anche  all’esecuzione in forma specifica e non solo a quella per espropriazione,  nonostante il tenore letterale dell’art. 619 c.p.c[8].

Tale impostazione è stata confermata anche in questa occasione. E’ l’applicabilità, ancora una volta la scelta per delineare i rapporti tra l’opposizione di terzo ordinaria e l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c..

Per la consegna o rilascio è necessario – o, quantomeno, così normalmente accade – che vi sia coincidenza tra il bene indicato nel titolo e il bene assoggettato ad esecuzione.  Questa è, dunque, una basilare differenza rispetto all’espropriazione forzata, nella quale, come descritto nel precedente paragrafo, si pone l’accento sul

soggetto che pur essendo obbligato, risulta inadempiente. Solo successivamente, a mezzo del pignoramento si individua l’oggetto dell’esecuzione.

Si può osservare, dunque, come in un certo senso il meccanismo sia inverso rispetto alle obbligazioni propter rem: con esse, infatti, si strumentalizza il bene per risalire al titolare.

<<Scopo dell’esecuzione in forma specifica è, quindi, quello di adeguare la  situazione di fatto a quella giuridica consacrata nel titolo, ossia di intervenire  coattivamente, con l’autorità statuale, per spossessare l’obbligato e immettere  l’avente diritto nel possesso o nella detenzione (a seconda che si agisca a tutela di un diritto reale o personale di godimento) della res[9]>>.

Ne consegue, che il terzo che sia “toccato” dall’esecuzione in forma specifica per consegna può muoversi giudizialmente scegliendo, alternativamente e non cumulativamente, tra l’opposizione ordinaria, ex art. 404, comma 1, c.p.c., e  l’opposizione di terzo all’esecuzione, ex art. 619 c.p.c..

L’opposizione di terzo ordinaria ex art. 404 c.p.c. è un mezzo di  impugnazione straordinario operante anche su sentenza passata in giudicato ed avente la funzione di eliminare una statuizione resa inter alios, che, benché astrattamente inidonea a ledere la posizione del terzo in virtù dei noti effetti di cui all’art. 2909 cc. è comunque suscettibile di cagionare un danno da esecuzione dal quale si cerca ristoro.

L’opposizione di terzo all’esecuzione ex art. 619 c.p.c., per contro, mira alla sottrazione del  bene all’azione esecutiva in quanto di proprietà dell’opponente o, in alternativa, in quanto comunque oggetto di un diritto di godimento del terzo, autonomo e prevalente rispetto a quello dell’esecutante. Ne discende, su tali basi, che l’opposizione ha la funzione di escludere quel determinato bene dall’espropriazione o dall’esecuzione specifica.

La <<…linea di confine tra l’opposizione ex art. 404 e quella ex art. 619 c.p.c…>> appare, dunque, così tracciata dai supremi giudici: l’opposizione di terzo <<…sarà proponibile quando il terzo si affermi pregiudicato dalla statuizione giudiziale azionata in executivis>>.

L’opposizione agli atti esecutivi, invece, potrà essere proposta quando il terzo ritenga che il pregiudizio risulti imputabile ad un errore della fase esecutiva. Le ipotesi più tipiche sono: il pignoramento di un bene non appartenente al debitore nonché l’acquisizione di un bene da parte dello stesso opponente legittimamente posseduto o detenuto in relazione al quale si avanza pretesa di proseguire nel possesso o nella detenzione.

Partendo da tali premesse si può apprezzare la logica conclusione di questa pronuncia: l’opposizione all’esecuzione non è, pertanto, lo strumento utilizzabile dal terzo per conseguire il corpus, secondo elemento del possesso (animus et corpus). L’opposizione, infatti, mira a tutelare lo ius possessionis (in altre parole l’insieme di diritti che il possesso è in grado di generare in capo al possessore) non lo ius possidendi (ovvero il diritto di possedere il bene concretamente).

Tornando ai fatti di cui è stato processo, si deve ritenere, come è stato fatto, che la richiesta di opposizione di Sempronio risulta essere non corretta. Egli, infatti, non ha lamentato un error  nella fase esecutiva, requisito, poc’anzi richiamato, necessario ed essenziale nel confine tra le due possibili azioni.

A chiusura del tema istituzionale merita, infine, di essere ricordata l’esecuzione in forma specifica di obblighi di fare e di non fare, avuto riguardo agli artt. 2931 cc. e 2933 cc. nell’ottica prettamente civilistica. Processualcivilisticamente, il cardine è l’art. 612 c.p.c.: una sentenza di condanna per violazione di uno dei predetti obblighi costituisce titolo esecutivo idoneo assieme al verbale di conciliazione giudiziale.

Tale procedimento è applicabile in tutte le situazioni in cui, indipendentemente dalla volontà dell’obbligato, o contrariamente alla stessa, si può procedere ad esecuzione forzata.

Protagonista della procedura è, in questo caso, il giudice dell’esecuzione, il quale, dopo aver sentito la parte obbligata, nomina l’ufficiale giudiziario affinché proceda all’esecuzione stessa, eventualmente mediante l’ausilio della forza pubblica.

Al riguardo è degna di nota una recente sentenza del 2016, n. 6148[10], a mente della quale il giudice emanante provvedimenti  ex art. 612 c.p.c. risulta essere “dominus” della interpretazione della sentenza di condanna. La sentenza è destinata ad esser confermata o annullata a prescindere dalla predetta interpretazione; ciò in quanto risulta ostativa alla formazione di preclusioni da giudicato la alterità esistente tra gli oggetti dei giudizi di cognizione e di esecuzione.

L’art. 2932 cc. in tema di dismissione di immobili pubblici

La tematica dell’esecuzione in forma specifica impone qualche cenno anche al  notevolmente diverso e, sotto molti aspetti,  peculiare obbligo di concludere un contratto. Le norme del codice civile consentono, in ipotesi di inadempimento, di ottenere una sentenza che produca gli stessi effetti del contratto non concluso, con la chiarificazione che, a fronte di contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata o la costituzione o il trasferimento di un altro diritto, la domanda non può essere accolta se la parte richiedente non esegue la sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge, a meno che la stessa non sia ancora esigibile.

Prescindendo dalle disamine già abbondantemente trattate in materia di tutela del promissario acquirente, in questa sede si vuole porre l’accento su una pronuncia specifica in materia di dismissione di immobili pubblici.

La Suprema Corte  ha affermato, con sentenza del 2016 n. 6023, che nell’ipotesi in cui il conduttore abbia accettato l’offerta contenente gli elementi essenziali della vendita, si perfeziona un contratto preliminare idoneo ad attribuire al medesimo conduttore il diritto di acquistare al prezzo fissato, esercitabile ex art. 2932 cc., davanti al giudice ordinario. La ratio della pronuncia va ravvisata nella circostanza che la determinazione del prezzo risulta ormai uscita dalla sfera della discrezionalità tecnica dell’offerente ed è irrilevante il successivo mutamento della qualifica dell’immobile come immobile di pregio[11].

Più in dettaglio e ripercorrendo i fatti di cui è stato processo, in primo grado il conduttore agiva ex art. 2932 cc. nei confronti dell’INPS che sollevava eccezione di difetto di giurisdizione ordinaria.

L’appartamento oggetto di attenzione della predetta pronuncia era stato in un primo momento riclassificato come “non di pregio” e, in data posteriore all’accettazione dell’offerta, inserito tra gli immobili di pregio dal D.M. 13 aprile 2007. La conseguenza degli “spostamenti di categoria” era l’oscillazione di prezzo che, tuttavia, non ha inficiato il diritto di acquisto nei termini poc’anzi descritti.

I Supremi giudici, ribadendo le dinamiche civilistiche del contratto di opzione, chiariscono, in relazione al peculiare caso di specie, che il prezzo di vendita rappresenta si elemento strutturale dell’offerta, ma che la stessa si atteggia quale atto negoziale unilaterale recettizio ricadente nella sfera di azione del proponente, vincolato dalla legge in quanto ente pubblico. E’ l’offerente, dunque, ad avere il “margine di manovra” nella individuazione del prezzo, non l’oblato.

Dopo la presentazione dell’offerta da parte del proponente e la ricezione della stessa dall’altra parte, il prezzo diventa elemento dell’opzione/prelazione ed esce dalla discrezionalità tecnica dell’offerente, con la conseguenza, già accennata, che al momento dell’accettazione dell’offerta si perfeziona un contratto preliminare attribuente il diritto di acquistare al prezzo fissato, indipendentemente da ulteriori modifiche dello stesso.

L’esecuzione in forma specifica nel processo amministrativo: l’AP del 2017

L’esecuzione in forma specifica assume rilievo anche nell’ottica del processo amministrativo e, più in dettaglio, nel giudizio di ottemperanza[12].

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Esso, avente natura mista[13]di esecuzione e cognizione,  mira  all’esecuzione delle sentenze pronunciate – in via principale ma non esclusiva – nei confronti della pubblica amministrazione, laddove la stessa ometta di provvedervi spontaneamente. Esso può essere proposto per conseguire l’attuazione di sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato, sentenze esecutive e altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo, sentenze passate in giudicato e altri provvedimenti ad esse equiparati dal giudice ordinario, sentenze passate in giudicato ed altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza, ciò al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi alla decisione. All’elenco devono essere aggiunti i lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi al giudicato.

Contrariamente rispetto alla formulazione originaria, il comma 3 dell’art. 112 c.p.a. consente la proposizione, anche in unico grado, di una azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione ed interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza e danni connessi alla impossibilità o, comunque, alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale del giudicato.

Si pensi, al riguardo, al settore degli appalti. Si pensi, altresì, ad una aggiudicazione legittima, dichiarata “illegittima” (volendo operare una mera semplificazione di concetti) in primo grado dall’organo giudicante. Si pensi, ancora, alla circostanza che nelle more del giudizio di secondo grado, l’impresa a favore della quale è stata dichiarata “l’illegittimità” in primo grado abbia dato esecuzione totale all’appalto ed, il giudicante, in secondo grado, non abbia confermato la sentenza bensì l’abbia riformata. In tal caso, in ottemperanza, non sarà più possibile agire per l’esecuzione oggetto di indagine. Non sarà più possibile, all’esito di un appalto ormai totalmente eseguito, l’ottenimento di una esecuzione in forma specifica.  Al più si renderà fattibile un risarcimento (rectius una ottemperanza) per equivalente.

La tipologia di esecuzione in esame, dunque, benchè rappresenti, come emerge dal dato letterale dell’art. 112 c.p.a., in riferimento al periodo “danni connessi all’impossibilità” la scelta ottimale per la soddisfazione degli interessi della parte a cui vantaggio dovrebbe essere eseguita, non è, a conti fatti, la strada più semplice da percorrere.

L’intreccio che si viene a creare tra ottemperanza ed esecuzione poc’anzi descritto è realmente emerso nel panorama giurisprudenziale, sfociando in una significativa Adunanza Plenaria del 2017.

Più in dettaglio e ripercorrendo brevemente i fatti, si deve rilevare che  l’A.N.A.S. s.p.a. avviava, nel 2014, una procedura di gara per l’affidamento dei lavori di manutenzione straordinaria per la fornitura e posa in opera di giunti e contestuale rifacimento delle testate delle solette di impalcato sui viadotti.

La stazione appaltante aggiudicava la gara all’A.T.I. Consorzio Stabile Grandi Opere s.c.a.r.l. – MAS Costruzioni <<…subordinando l’efficacia e l’esecutività dell’aggiudicazione alla “verifica del possesso dei requisiti dichiarati dal concorrente in sede di gara[14]”>>. L’Amministrazione, tuttavia, revocava l’aggiudicazione disposta in favore dell’A.T.I. Consorzio Stabile Grandi Opere e disponeva l’aggiudicazione definitiva dell’appalto in favore della società Cavecon s.r.l.

L’A.T.I impugnava i provvedimenti innanzi al Tar che, con sentenza accoglieva il ricorso e, per l’effetto, annullava l’aggiudicazione in favore della Cavecon s.r.l..

La Cavecon s.r.l., per contro, impugnava tale sentenza innanzi al Consiglio di Stato. La Quarta Sezione ravvisava un contrasto e rimetteva la decisione all’Adunanza Plenaria.

L’Adunanza, dunque, ha colto l’occasione per tornare sul tema, poc’anzi accennato in termini schematici, dell’art. 112 comma 3 ed approfondirlo.

L’avvenuta ultimazione dei lavori oggetto della gara in data anteriore alla pubblicazione della sentenza dell’Adunanza plenaria ha posto totalmente nel nulla ogni possibilità di ottenimento del contratto, precludendo la strada all’esecuzione in forma specifica del giudicato.

Il dato letterale (<<…può essere proposta …azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale…>>) ed il termine risarcimento impongono un inquadramento della questione nell’ottica puramente civilistica :  elemento imprescindibile per l’invocazione del rimedio di cui al predetto comma 3  è un danno in qualunque modo collegato alla mancata esecuzione. Il termine “connessi”, infatti, merita di essere inteso in senso ampio.

Posto che l’inquadramento più corretto implica il richiamo alla tematica della responsabilità civile, ancorata all’elemento soggettivo, la norma del codice del processo amministrativo  si presenta sotto questo aspetto peculiare e derogatoria della corrispondente norma civilistica di cui all’art. 1218 cc., inerente l’inadempimento dell’obbligazione.   L’Adunanza, infatti, ritiene necessario un riferimento alla responsabilità come civilisticamente impostata ma prescide dall’imputabilità dell’inadempimento in capo alla parte chiamata a dare esecuzione al giudicato.

Si delinea, dunque, una responsabilità prettamente oggettiva, nota nel terreno aquiliano, ed, in parte, riesumando le dinaminche dell’art. 1228 cc., nel terreno delle responsabilità contrattuale, ma, di certo, estranea allo schema generale dell’inadempimento ed, anzi, con esso collidente.

<<In base all’art. 1218 c.c., infatti, il debitore si libera dall’obbligazione se prova che l’inadempimento è stato determinato da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. La disciplina dell’art. 1218 c.c. trova riscontro nell’art. 1256 c.c., secondo cui l’obbligazione si estingue, invece, quando la prestazione diventa impossibile per una causa non imputabile al debitore>>.

Nell’ottica dell’art. 112 comma 3 cpa non si ammette, dunque, una prova liberatoria della imputabilità soggettiva: si pone in capo al chiamato all’esecuzione una responsabilità obiettiva, discendente spesso da un errore dell’organo giudicante, il tutto nel rispetto di quel generale criterio di effettività della tutela, che può ragionevolmente ritenersi  racchiuso anche nel primo comma del medesimo articolo.

In questo caso, tuttavia, si sarà chiamati ad una esecuzione per “imputazione oggettiva” per equivalente, in sostituzione dell’esecuzione in forma specifica.  Il bene della vita, cui è nella accezione attuale strettamente collegato il concetto stesso di interesse legittimo, si “rende” all’altra parte, alla parte che avrebbe dovuto ottenere il bene in natura,  a mezzo di una somma di denaro.

Il tutto risulta coerente con gli orientamenti della Corte di Giustizia, che, in materia di appalti,  impongono di prescindere dall’elemento soggettivo[15].

Perchè, tuttavia, di “responsabilità” si possa ugualmente parlare, pur a fronte di una elisione della dimensione subiettiva, occorre, quantomeno, un collegamento causale. Il nesso di causalità, dunque, si atteggia, assieme al danno, ad elemento imprescindibile per l’accesso al rimedio di cui all’art. 112, comma 3 c.p.a. :  l’impossibilità di ottenere in forma specifica l’esecuzione del giudicato deve essere quantomeno riconducibile sotto il profilo causale alla condotta del soggetto dal quale si pretende il risarcimento e che tale condotta non risulti assistita da una causa di giustificazione.

Occorre domandarsi, allora, quid iuris nell’ipotesi in cui il danno, di fatto, discenda da un errore dell’organo giudicante. Occorre, altresì, chiedersi se sia ricostruibile un nesso di causalità e se il principio di effettività della tutela, a fronte di una incautelabilità per altre vie, debba necessariamente prevalere.

La risposta agli ultimi quesiti è positiva.

Occorre, tuttavia, comprendere il quomodo ricostruttivo del nesso.

L’Adunanza Plenaria, al riguardo, riesuma le norme del codice penale, e precisamente, gli artt. 40 e 41 cp, alla luce dei quali si considera causato un evento da un altro evento se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, salve le altre condizioni.  La teoria della condicio sine qua, chiaramente, si ricostruisce in termini differenti a seconda della natura del terreno: se civilistico o amministrativistico, sarà sufficiente il raggiungimento di un livello pari al “più probabile che non”, una probabilità quantificabile nel 50%+1. Se penalistico, in ragione della delicatezza degli interessi in gioco, occorrerà il raggiungimento dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

L’ultimo elemento significativo, al quale l’Adunanza ha fornito risposta, concerne l’individuazione dei soggetti coinvolti dalla norma in esame. In particolare, la parte ricorrente aveva chiesto la condanna in solido tanto dell’amministrazione quanto della parte privata che, nelle more del giudizio aveva dato esecuzione totale all’appalto, rendendo, di fatto, con tale condotta, benchè legittimata dalla pronuncia di primo grado, impossibile l’esecuzione in forma specifica ovvero il subentro nel rapporto contrattuale.

La ratio del vincolo di solidarietà andrebbe individuata nell’art. 41, comma 2, ultimo periodo c.p.a. : <<qualora sia proposta azione di condanna, anche in via autonoma, il ricorso è notificato altresì agli eventuali beneficiari dell’atto illegittimo ai sensi dell’art. 102 del codice di procedura civile; altrimenti il giudice provvede ai sensi dell’art. 49» all’integrazione del contraddittorio.

Tuttavia, si potrebbe obiettare, come è stato fatto dagli stessi giudici amministrativi,  che, in realtà, tale norma evidenzi solo una necessità di denuntiatio litis, ma non sia, concretamente, idonea a costituire fondamento di responsabilità solidale.

I predetti giudici evidenziano all’uopo come l’art. 112, comma 1, c.p.a. abbia <<…previsto, infatti, che i provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti non solo dalla pubblica amministrazione, ma anche dalla altre parti. L’obbligazione di eseguire il giudicato grava, quindi, su tutte la parti soccombenti, ivi compresa la parte privata, che, di conseguenza, deve ritenersi a sua volta investita di legittimazione passiva rispetto all’azione di ottemperanza. Se si ritiene allora che l’azione di risarcimento del danno da impossibilità oggettiva di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato di cui all’art. 112, comma 3, c.p.a., costituisca un rimedio con funzione sostitutiva dell’ottemperanza in forma specifica, coerentemente dovrebbe ammettersi pure che essa condivida con l’ottemperanza la platea dei soggetti passivamente legittimati. La relativa domanda risarcitoria, pertanto, anche a prescindere dall’applicazione dell’art. 41, comma 2, ultimo periodo, c.p.a., potrebbe essere proposta anche contro il soggetto privato (nella specie l’impresa beneficiaria dell’aggiudicazione illegittima)>>.

Per contro, i medesimi  osservano che l’art. 41, comma 2, ultimo periodo, c.p.a. non prevede, a rigore (e in senso tecnico), un litisconsorzio necessario nei confronti del privato beneficiario dell’atto illegittimo.

<<… Lo scopo della norma in esame è, infatti, solo quello di fare in modo che l’eventuale giudicato di condanna tra il privato danneggiato dal provvedimento e l’amministrazione possa essere opposto anche al terzo beneficiario, come “fatto” che accerta l’antigiuridicità, nell’eventuale giudizio di “rivalsa”, quanto all’illegittimità dell’atto e ai presupposti della condanna risarcitoria subita dall’amministrazione>>.

Denuntiatio litis o espansione effettiva dell’ambito soggettivo? Si potrebbe propendere maggiormente per la prima ipotesi[16].

La risposta al quesito, ad ogni modo, non inficia una ulteriore azione: l’amministrazione, infatti, chiamata “incolpevolmente” al risarcimento del danno ex art. 112, comma 3 cpa, potrebbe agire nei confronti dell’impresa, a sua volta “incolpevolmente” (per effetto della pronuncia di primo grado) esecutrice dell’appalto al posto dell’impresa legittima aggiudicataria.

L’impresa esecutrice, infatti, ha, sebbene lecitamente, tratto un utile dall’esecuzione dell’appalto, a fronte di una imposizione risarcitoria in capo alla amministrazione, la quale, in partenza, non aveva commesso alcun errore di aggiudicazione.

Le strade, dunque, ritornano nel terreno civilistico, in particolare (ma non in via esclusiva) nell’ingiustificato arricchimento ex art. 2041 cc.

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[1] Così Cass. Civ. sez. III, 20 ottobre 2016, n. 21241:  I supremi giudici, in siffatto contesto, hanno chiarito che non occorrono ulteriori interventi da parte dell’organo giudicante. Tuttavia, gli stessi si sono premurati di precisare che la mancata allegazione al precetto (nonché la mancata indicazione nel medesimo atto) dei documenti in virtù dei quali è stato determinato l’importo del credito azionato in executivis non è suscettibile di sanatoria a mezzo del creditore procedente, laddove si sia incardinata una opposizione agli atti esecutivi.

Il procedimento di opposizione agli atti esecutivi, diversamente rispetto all’opposizione all’esecuzione ex art. 615 cpc (avente ad oggetto la contestazione dello stesso titolo esecutivo), mira a far emergere l’illegittimità/irregolarità degli atti compiuti nella procedura esecutiva. Ne discende, come precisato nella citata sentenza, una impossibilità di rimessione in termini nei confronti del creditore procedente al fine di sanare l’atto di precetto.

[2] L’atto di precetto deve contenere, a pena di nullità: l’indicazione delle parti, la data di notifica, la dichiarazione di residenza o elezione di domicilio dell’istante, la sottoscrizione della parte o del difensore, l’avvertimento che il debitore può eventualmente rimediare alla situazione di indebitamento eccessivo.

[3] L’atto di pignoramento nell’espropriazione immobiliare è definibile alla stregua di un atto a struttura complessa: il creditore, nella prima parte, individua in modo inequivocabile i diritti immobiliari e i beni da sottoporre a procedura; l’ufficiale giudiziario, nella seconda sezione, ingiunge al debitore il divieto di sottrarre il bene a garanzia del credito. La terza parte, infine, rientra ancora una volta nella sfera di competenza dell’ufficiale giudiziario e consiste nella notificazione ai debitori del predetto atto. In questi termini  Dario Gramaglia, manuale breve diritto processuale civile, IX edizione, 2017, Giuffrè, 527. Ancora, in contesti giurisprudenziali, in ordine alla natura dell’atto di pignoramento, si è parlato di fattispecie a formazione progressiva. Così Cass. Civ., sez. III, 20 Aprile 2015, n. 7998.

[4] L’art. 568 c.p.c. dispone chiaramente che, agli effetti dell’espropriazione, il valore dell’immobile è determinato dal giudice avuto riguardo al valore di mercato sulla base degli elementi forniti dalle parti nonché dall’esperto nominato ex art. 569 c.p.c.. La recente giurisprudenza, al riguardo, ha avuto modo di chiarire che in favore del consulente tecnico al quale sia stato affidato l’incarico di procedere ad attività di estimo di più immobili è necessario liquidare  un compenso che faccia riferimento all’importo stimato diviso per scaglioni, ex art. 13 delle tabelle di cui al D.P.R. 27 luglio 1988, n. 352 . In questi termini Cass. Civ., Sez. II, 20 marzo 2009, n. 6892.

[5] Sul punto, anche per ulteriori riferimenti giurisprudenziali, si veda Dario Gramaglia, op. cit., 531 e ss.

[6] Al riguardo occorre sottolineare come la giurisprudenza abbia recentemente ammesso la sottoposizione a pignoramento delle polizze vita cd. “index linked”. Si tratta di “strumenti” che non garantiscono all’assicurato il rientro del valore investito e non sono qualificabili alla stregua di investimenti finanziari di natura previdenziale. In questi termini Trib. Parma, 10 agosto 2010, in Nuova Giur. Civ., 2011, 3, 1, 189.

[7] Cass. Civ. ,sez. III, 13 Febbraio 2015, 2855 :  Se con sentenza passata in giudicato è  stato disposto il rilascio dell’immobile detenuto dal convenuto in forza di un rapporto contrattuale (nel caso di specie si tratta di un contratto di comodato) il titolo costituito dalla sentenza di condanna alla restituzione può essere eseguito dall’attore anche nei confronti del terzo occupante l’immobile da rilasciare. Il terzo, dunque,  può agire ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ.. a patto che possieda l’immobile in virtù di un titolo autonomo. In tal caso, il titolo non risulta pregiudicato dalla predetta  sentenza alla luce dell’acquisto della proprietà per usucapione.

[8] La giurisprudenza, in precedenza, con una pronuncia a Sezioni unite, n. 1238 del 2015, aveva avuto modo di enunciare il seguente principio di diritto:  << … il terzo legittimato all’opposizione ordinaria ai sensi dell’art. 404, primo comma, c.p.c. non può far valere la sua situazione legittimante con l’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615, primo e secondo comma, c.p.c. contro l’esecuzione promossa sulla base del titolo rappresentato dalla sentenza opponibile con l’opposizione ordinaria, e ciò nemmeno se l’esecuzione, formalmente diretta contro la parte della sentenza opponibile, lo coinvolga quale detentore materiale del bene, trattandosi di esecuzione in forma specifica, ma può far valere la sua situazione per bloccare l’esecutività o l’esecuzione soltanto proponendo l’opposizione ordinaria ed instando la sospensione dell’esecutività della sentenza ai sensi dell’art. 407 c.p.c.>>.

[9] In questi termini Cass.,sez. III civ., n. 7041 del 2017.

[10] Cass. Civ., sez. II, 30 marzo 2016, n. 6148.

[11] Per agevolare la comprensione della pronuncia si riporta una massima: “ In tema di dismissione di immobili pubblici, quando il conduttore accetta l’offerta in opzione, contenente gli elementi essenziali della vendita, si perfezione un contratto preliminare che gli attribuisce il diritto di acquistare al prezzo fissato, esercitabile anche con azione ex art. 2932 cc. davanti al giudice ordinario, essendo ormai uscita la determinazione del prezzo dalla discrezionalità tecnica dell’offerente ed essendo irrilevante il successivo mutamento della qualifica dell’immobile (nella specie, riclassificato come “di pregio”). Così, Roberto Giovagnoli, Codice civile annotato, Giuffrè, VIII edizione, 2016, 3675.

[12] “I provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle altre parti”. Tale è l’incipit dell’art. 112 cpa, con il quale si pone il problema degli effetti della sentenza di annullamento del giudice amministrativo.

Ad essa dottrina e giurisprudenza riconoscono, oltre al comune effetto demolitorio, nascente dalla materiale eliminazione dell’atto impugnato, anche un effetto conformativo e ripristinatorio.

Il primo si esplica nell’imposizione di un vincolo sulla successiva attività dell’Amministrazione di riesercizio del potere. L’organo giudicante, infatti, una volta accertata l’invalidità di un atto amministrativo e le ragioni che la provocano, definisce il corretto modo di esercizio del potere  << …fissando la regola alla quale l’amministrazione si deve attenere nella sua attività futura>>.

Il secondo, invece, comporta la definitiva rimozione delle modificazioni della realtà intervenute per effetto dell’atto annullato. La rimozione, dunque, di ogni segno tangibile dell’atto invalido.

In siffatto contesto si inserisce il principio generale, di valenza costituzionale, della effettività della tutela, implicitamente ed indirettamente racchiuso nel primo periodo poc’anzi ricordato dell’art. 112 c.p.a.. Così Roberto Chieppa, Roberto Giovagnoli, manuale di diritto amministrativo,III Ediz., 2017, Giuffrè, pagg. 1227 e ss.

[13] Un cenno lo meritano i risvolti storici: il giudizio di ottemperanza nasce nel 1889 per dare esecuzione alle sentenze del giudice ordinario. L’obiettivo era colmare una lacuna, un vuoto di tutela: i giudice ordinario, infatti, riesumando le dinamiche dalla L.A.C., non aveva possibilità di annullare o modificare un atto amministrativo lesivo di un diritto soggettivo, bensì aveva esclusivamente il potere di disapplicazione. Con legge n. 1034 del 1971, il giudizio di ottemperanza ottenne valenza legislativa anche nell’ottica delle sentenze del giudice amministrativo.

[14] In questi termini  Cons. St., Ad. Plen., 12 maggio 2017, n. 2 (est. Giovagnoli).

[15]Corte di giustizia, sez. III, 30 settembre 2010, C-314/09, Stadt Graz:  la giurisprudenza comunitaria, in materia di risarcimento da (mancato) affidamento di gare pubbliche di appalto e concessioni, ha avuto modo di chiarire che non occorre provare la colpa dell’amministrazione aggiudicatrice. Il rimedio risarcitorio risulta essere rispondente al principio di effettività della tutela previsto dalla normativa comunitaria.

Al centro della scena, dunque, si pongono le garanzie di trasparenza e di non discriminazione operanti in materia di aggiudicazione dei pubblici appalti. E’ grazie ad esse che una qualsiasi violazione degli obblighi di matrice sovranazionale apre la strada all’impresa pregiudicata per l’otteniment di un risarcimento dei danni, a prescindere da un accertamento in ordine alla colpevolezza dell’ente aggiudicatore e dunque della imputabilità soggettiva della lamentata violazione.

 

[16] <<… l’impossibilità di eseguire in forma specifica il giudicato apra le porte all’alternativa di una forma di tutela compensativa per equivalente, si può ragionevolmente dubitare che, nel silenzio del legislatore (che nel comma 3 dell’art. 112 non specifica che l’azione risarcitoria sostitutiva possa essere proposta nei confronti di tutte le parti), lo speciale regime di responsabilità oggettiva sopra delineato possa estendersi anche ai privati soccombenti; che, cioè, per giunta in deroga implicita alla generale regola del riparto e per connessione, possa estendersi al privato un regime di responsabilità connotato dagli evidenziati profili di specialità proprio con riguardo al fondamentale rilievo dell’elemento soggettivo>>, Cons. St., Ad. Plen., 12 maggio 2017, n. 2 (est. Giovagnoli).

 

 

 

Micaela Lopinto

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