L’ammissibilità della rinunzia abdicativa tra diritto civile e diritto amministrativo

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L’ammissibilità e gli effetti derivanti dalla c.d. rinunzia abdicativa della proprietà sono stati analizzati di recente sia dalla Cassazione che dal Consiglio di Stato in varie occasioni. Con il termine rinunzia abdicativa della proprietà si fa riferimento ad un atto di rinunzia, di abbandono, da parte del dominus avente ad oggetto il proprio diritto di proprietà in assenza di un trasferimento dello stesso. Tale facoltà discenderebbe dal contenuto del diritto del proprietario ex art. 832 c.c. La fattispecie è stata ricostruita in termini differenti nel diritto civile e nel diritto amministrativo, in cui ad essere bilanciati sono plurimi interessi in gioco.

La recente sentenza dell’Adunanza Plenaria del 20 gennaio 2020 in materia di acquisto in sanatoria sembra stravolgere l’orientamento sorto a seguito della sentenza 2/2016, mostrando la complessità di tale materia.

La disciplina del codice civile tra rinunzia abdicativa e traslativa

Il codice civile fa riferimento al termine rinunzia in varie disposizioni.

L’art. 1070 c.c. attribuisce al proprietario del fondo servente il potere di liberarsi delle spese necessarie per la servitù, rinunziando alla proprietà a favore del dominus del fondo dominante.

In termini analoghi si pongono anche gli artt. 882 e 1104 c.c. che prevedono la facoltà per il comunista di liberarsi delle spese rinunziando al proprio diritto.

La rinunzia costituirebbe una facoltà esercitabile liberamente dal proprietario. É proprio sulla base di tali disposizioni che una parte di dottrina e della giurisprudenza ritiene possibile l’atto di rinunzia anche al di fuori delle ipotesi codicistiche. Si pensi per esempio al caso di colui che decida di abbandonare il proprio fondo, rinunciando così al proprio diritto, a fini meramente fiscali. La crisi del mercato immobiliare e la smaterializzazione della ricchezza ha attribuito particolare importanza a tale questione, in quanto ha reso sempre più frequente  l’abbandono delle terre.

A sostegno della tesi favorevole militerebbero le suddette ipotesi di rinunzia nonché l’art. 2643, n.5, c.c. che ammette la trascrivibilità degli atti di rinunzia aventi ad oggetto i diritti trascrivibili a norma dello stesso art. 2643, n.1-4, c.c. La possibilità di trascrivere tali atti ne ammetterebbe l’esperibilità e coniugherebbe il diritto del proprietario con la tutela del terzo e della stessa certezza dei traffici.

Occorre tuttavia distinguere la rinunzia c.d. abdicativa da quella traslativa.

Il codice civile nelle ipotesi suindicate, infatti, attribuisce al proprietario la facoltà di rinunziare al proprio diritto con un atto unilaterale ad effetto traslativo. Sia nel caso delle servitù che in quello della comunione il diritto oggetto di rinunzia transita dal dominus alla sfera soggettiva altrui. Simile rinunzia presenta una natura traslativa.

La rinunzia abdicativa, al contrario, produce un effetto meramente liberatorio in quanto manca il trasferimento; l’atto ha ad oggetto la mera rinuncia e l’abbandono del diritto sul bene.

Dottrina e giurisprudenza si sono occupate, allora, di verificare l’ammissibilità di tale fattispecie alla luce degli effetti prodotti da tale rinunzia.

Secondo l’orientamento che ne ammette l’esperibilità, l’atto di rinuncia renderebbe il bene vacante comportandone l’automatico acquisto da parte dello Stato ai sensi dell’art. 827 c.c..

Tale tesi è oggetto di critiche sulla base di due considerazioni principali. In primo luogo, avanzando un argomento di tipo economico, apparirebbe dannoso e rischioso per il bilancio pubblico collegare l’acquisto della proprietà alla mera volontà del privato. L’acquisto avverrebbe automaticamente e all’insaputa dello Stato che sarebbe costretto ad accollarsi i costi di un bene abbandonato. Accanto a tale argomento si rintraccia anche una considerazione di tipo sistematica e teleologica. L’art. 827 c.c. occuperebbe nel sistema un ruolo residuale, riconoscendo allo Stato in extrema ratio la proprietà dei beni divenuti vacanti a seguito di cause naturali. La norma dovrebbe interpretarsi alla luce della sistematica del codice che agli artt. 941 ss c.c. disciplina ipotesi di acquisto della proprietà dubbie a seguito di causa naturali, come l’alluvione, e con l’art. 827 c.c. attribuisce le proprietà rimaste vacanti allo Stato. La norma non sarebbe pertanto utilizzabile a fronte di un atto unilaterale del privato che decida di disfarsi della propria proprietà, trasferendola di fatto forzosamente nel patrimonio dello Stato.

Il problema dell’ammissibilità della rinunzia abdicativa è strettamente collegato a quello della proprietà vacante. La tesi contraria infatti ha come principale argomento il voler evitare la creazione di terre abbandonate, ricondotte forzosamente al patrimonio dello Stato e incidenti sul bilancio pubblico.

Il dibattito nella giurisprudenza amministrativa

L’Adunanza Plenaria nella nota sent. 2/2016 ha fatto espressamente riferimento alla fattispecie della rinuncia nell’identificare il momento di cessazione dell’illecito permanente formatosi a seguito di occupazioni acquisitive o usurpative (espropriazioni indirette). Secondo tale pronuncia la condotta illecita dell’amministrazione incidente sul diritto di proprietà non può comportare l’acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. – con la conseguente decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sull’occupazione contra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene – che viene a cessare solo in conseguenza… della rinunzia abdicativa (e non traslativa, secondo una certa prospettazione delle SS.UU.) da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo.

L’atto di rinuncia avrebbe qui l’effetto di interrompere l’illecito posto in essere dall’Amministrazione.

Parte della dottrina e della giurisprudenza hanno interpretato tale sentenza come una forma di riconoscimento della rinuncia abdicativa, estendendone la portata. In realtà la tesi maggioritaria critica tale orientamento, proponendo un’interpretazione calibrata sulla peculiarità del caso affrontato dall’Adunanza Plenaria.

La sentenza aveva ad oggetto un’ipotesi di espropriazione indiretta, comportamento illecito dell’amministrazione che procede all’occupazione di un fondo e alla realizzazione di un’opera in assenza della dichiarazione di pubblica utilità o del decreto di esproprio.  Deve premettersi che la giurisprudenza è ormai unanime nel riconoscere al privato il diritto ad ottenere la restituzione del bene[1]. L’azione reale avrebbe ad oggetto il ripristino dello stato del bene e la restituzione dello stesso.

La suindicata pronuncia nel definire il momento di cessazione dell’illecita occupazione ha fatto riferimento ad un atto di rinuncia implicito, desumibile dalla richiesta di risarcimento per equivalente del danno subito. Il proprietario, azionando il rimedio ex art. 2043 c.c., rinuncerebbe ad ottenere la restituzione del bene e al proprio diritto. L’ipotesi appare differente dal caso in cui il singolo con un atto unilaterale abbandoni il proprio bene immobile rinunciandovi. La diversità di circostanze escluderebbe qualsiasi ragionamento analogico che volesse desumere dalla sentenza il riconoscimento della rinunzia abdicativa.

 

Il danno risarcibile

Esclusa la possibilità di ritenere ammessa in generale la fattispecie delle rinunzia abdicativa a seguito della suindicata sentenza, appare necessario evidenziare lo stato dell’arte in materia di risarcimento del danno.

La giurisprudenza meno recente ammetteva rimedi diversi sulla base della distinzione tra occupazione acquisitiva e usurpativa. In assenza della dichiarazione di pubblica utilità l’occupazione veniva definita usurpativa costituendo un illecito permanente a fronte di cui si ammetteva il rimedio della restituzione. Al contrario in caso di occupazione acquisitiva, in cui a mancare era il solo decreto di esproprio, si riteneva ammissibile il solo rimedio risarcitorio. La fattispecie veniva costruita come un illecito istantaneo ad effetti permanenti, a seguito di cui l’amministrazione acquistava in via originaria la proprietà (accessione invertita) e al privato spettava il risarcimento del danno avente ad oggetto la perdita del bene.

Tale distinzione è stata oggi superata dalla giurisprudenza nazionale ed eurounitaria che ha definito entrambe le ipotesi nei termini di illecito permanente.

Attualmente la restituzione rappresenta l’unico rimedio esperibile a fronte di un’occupazione illegittima, salvo l’instaurarsi di un’eventuale rapporto contrattuale con cui il privato trasferisca il bene all’amministrazione.

L’evoluzione della giurisprudenza in materia ha inciso inevitabilmente sul quantum risarcibile. Secondo la tesi oggi maggioritaria, infatti, al privato spetterebbe oltre che la restituzione del bene  anche il risarcimento del danno subito per l’occupazione illegittima. Lo stesso, pertanto, deve essere calibrato al periodo in cui il dominus non ha potuto godere del proprio diritto in modo pieno ed esclusivo. Si esclude invece che al proprietario spetti un risarcimento avente ad oggetto il diritto di proprietà, anche nel caso in cui lo stesso rinunci alla restituzione, in quanto il rimedio ex art. 2043 c.c. ha come presupposto il fatto illecito di un terzo e non può derivare da un atto proprio del danneggiato, come la rinuncia del singolo.

La proposizione della domanda di risarcimento del danno da perdita sostanziale della proprietà a seguito di trasformazione dei suoli – in quanto manifestazione del potere di autodeterminazione del titolare che ha preferito non chiedere la restituzione del fondo – produce l’abbandono liberatorio del fondo medesimo… viceversa, anche qualora il fondo sia stato irreversibilmente trasformato, la domanda di risarcimento del danno la cui causa petendi sia fondata sulla perdita del godimento del bene – ma che al contempo non sia accompagnata da una esplicita richiesta di applicazione dell’istituto della rinuncia abdicativa – impone al giudice di liquidare solo tale voce di danno e, eventualmente, di disporre la rimessione in pristino in favore di colui che era e continua a rimanere legittimo proprietario[2].

Si leggano:

La recente sentenza dell’Adunanza Plenaria (sent. n. 2, 20 gennaio 2020)

Di recente l’Adunanza Plenaria è tornata a pronunciarsi sul tema della rinuncia abdicativa, proponendo una tesi restrittiva e definendo il rapporto dell’atto del privato con l’istituto ex art. 42bis Tuespropriazioni. La Corte sottolineando l’esistenza di un orientamento favorevole nel diritto civile afferma che la tesi della rinuncia abdicativa in materia espropriativa non appare, tuttavia, condivisibile per diverse ragioni..e che se l’atto abdicativo è astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà privata, non è altrettanto idoneo a determinare l’acquisto della proprietà in capo all’ente espropriante.

In particolare l’Adunanza Plenaria ritiene violato il principio di legalità e lo stesso articolo 42 Cost., in quanto la rinuncia, quale modo di acquisto della proprietà, non ha alcuna base legale.

Il Consiglio di Stato si sofferma anche sui diversi poteri del privato e dell’amministrazione; infatti la scelta tra l’acquisizione o la restituzione del bene non è propria del dominus ma del solo ente espropriante ai sensi dell’art.42 bis Tuespropriazioni. Si legge espressamente che la scelta tra acquisizione e restituzione va effettuata dall’amministrazione o dal commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o del giudizio di ottemperanza ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 c.p.a.

La sentenza ha una portata innovativa non solo nel escludere il potere di rinuncia del privato ma nel precludere l’utilizzo del solo sistema risarcitorio.  Non sarebbe, quindi, ammissibile una richiesta solo risarcitoria in quanto essa si porrebbe al di fuori dello schema legale tipico previsto dalla legge per disciplinare la materia ponendosi anzi in contrasto con lo stesso, anche se il giudice potrà, ove ne ricorrano i presupposti, accogliere la domanda. La domanda risarcitoria consiste essenzialmente nell’accertamento della illegittimità degli atti della procedura espropriativa e nella scelta del rimedio previsto dalla legge. Nel caso di espropriazione senza titolo valido, la legge speciale prevede che il trasferimento del bene non avvenga, per carenza di titolo, e il bene vada restituito al privato. La restituzione può essere impedita dall’amministrazione, la quale è tenuta, nell’esercizio di una funzione doverosa, a valutare se procedere alla restituzione del bene, previa riduzione in pristino, o all’acquisizione del bene nel rispetto di tutti i presupposti declinati dall’art. 42-bis e con la corresponsione di un’indennità pari al valore del bene maggiorato del 10 per cento.

La giurisprudenza amministrativa, se in un primo momento sembrava favorevole ad attribuire al singolo il potere di rinunciare al proprio diritto, oggi sembra assestarsi su una tesi restrittiva.

Il problema che ancora una volta sembra rintracciarsi con la rinunzia abdicativa è quello della proprietà vacante, in quanto con la stessa vi è un solo effetto estintivo del diritto di proprietà. L’Adunanza Plenaria in via espressa afferma che la rinuncia non produce un effetto acquisitivo per il soggetto pubblico, rendendo il bene sine domino.

Alla luce della pronuncia illustrata e di quanto affermato nel 2016, allora, la richiesta risarcitoria sarebbe idonea solo ad interrompere l’illecito e a far decorrere la prescrizione nelle ipotesi non rientranti nell’acquisizione sanante, infatti per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata (Adunanza Plenaria, sentenza n.2 del 20 gennaio 2020).

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Note

[1]In precedenza unico rimedio attivabile dal privato era il risarcimento del danno ex art.2043, su cui si veda Cass. Sez. Un. 25 novembre 1992, n. 12546.

[2]    Si veda Cass. civ., Sez. Un., n. 735 del 2015; Cass. Civ. Sez. I, n. 12961 del 2018; Cons. Stato, sez. IV, n. 5703 del 2019

Dott.ssa Sonia Sasso

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