La riparazione per ingiusta detenzione

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I casi di riparazione per ingiusta detenzione si devono distinguere da quelli di riparazione derivante da errore giudiziario.

 

Nel primo caso si ha la detenzione subita in via preventiva prima dello svolgimento del processo e perciò prima della condanna eventuale, mentre nel secondo si presuppone una condanna alla quale sia stata data esecuzione e un successivo giudizio di revisione instaurato (a seguito di una sentenza irrevocabile di condanna) in base alle altre prove o alla dimostrazione che la condanna è stata pronunciata in conseguenza della falsità in atti.

 

Secondo le disposizioni degli articoli 314 e 315 del codoce di procedura penale, all’imputato è riconosciuto un vero e proprio diritto soggettivo a ottenere un’equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente, diritto che è stato introdotto con l’attuale codice di procedura penale, ed è in adempimento di un preciso obbligo posto dalla Convenzione dei diritti dell’uomo (ex art 5, comma 5, C.E.D.U.).

 

Rilevanti modifiche in materia sono state apportate dalla legge n. 479/1999, cosiddetta “Legge Carotti”.

In particolare, è aumentato il limite massimo di risarcimento per avere patito un’ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a un miliardo (oggi € 516.456,90), ed è anche aumentato il termine ultimo per proporre, a pena di inammissibilità, domanda di riparazione, da un anno e mezzo a due anni.

 

Il presupposto del diritto di ottenere l’equa riparazione consiste nella ingiustizia sostanziale o nella ingiustizia formale della custodia cautelare subita.

L’ingiustizia sostanziale è prevista dall’articolo 314, comma 1, del codoce di procedura penale e ricorre quando c’è proscioglimento con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non avere commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato.

 

Si deve tenere presente che, ai sensi del successivo comma 3 dell’articolo 314 del codoce di procedura penale, alla sentenza di assoluzione sono parificati la sentenza di non luogo a procedere e il provvedimento di archiviazione.

 

L’ingiustizia formale è disciplinata dal comma 2 dell’articolo 314 del codoce di procedura penale e ricorre quando la custodia cautelare è stata applicata illegittimamente, cioè senza che ricorressero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280 del codoce di procedura penale, aindipendentemente dalla sentenza di assoluzione o di condanna.

 

La domanda di riparazione per l’ingiusta detenzione (ex 315 c.p.p. e102 norme di attuazione c.p.p.) deve essere presentata (a pena di inammissibilità) entro due anni dal giorno nel quale la sentenza di assoluzione o condanna è diventata definitiva, presso la cancelleria della Corte di Appello nel distretto della quale è stata pronunciata la sentenza o il provvedimento di archiviazione che ha definito il procedimento.

 

Nel caso di sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, è competente la Corte di Appello nel distretto della quale è stato emesso il provvedimento impugnato, sulla richiesta decide la Corte di Appello con un procedimento in camera di consiglio.

 

E’ obbligatoria l’assistenza di un legale munito di procura speciale e la parte che si trovi nelle condizioni di reddito previste dalla legge può chiedere il patrocinio a spese dello Stato.

La riparazione per ingiusta detenzione deve essere estesa alle ipotesi di detenzione cautelare sofferta in misura superiore alla pena irrogata oppure a causa della mancata assoluzione nel merito.

Coloro che sono stati licenziati dal posto di lavoro che occupavano prima della custodia cautelare e per questa causa, hanno diritto di essere reintegrati nel posto di lavoro se viene pronunciata a favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero ne viene disposta l’archiviazione.

 

La Corte di Giustizia di Strasburgo, con una sentenza del 2005, ha richiesto una modifica dell’articolo 314 del codoce di procedura penale che ammette l’indennizzo per ingiusta detenzione solo se l’imputato è assolto, se è disposta l’archiviazione del caso o il non luogo a procedere o se, in caso di condanna, la custodia cautelare è stata disposta in assenza di gravi indizi di colpevolezza o per reati per i quali la legge stabilisce una reclusione superiore a tre anni.

Secondo la Corte si tratta di previsioni restrittive perché l’articolo 5 comma 5 della convenzione prevede in ogni caso di illegittima restrizione il diritto a una riparazione.

 

La custodia cautelare in carcere è ingiusta (ex art. 314 comma 1 c.p.p., si parla, in merito, di “ingiustizia sostanziale”) quando un imputato all’esito del procedimento penale viene prosciolto con sentenza di assoluzione diventata irrevocabile, cioè riconosciuto innocente

 

Per non aver commesso il fatto

Perché il fatto non costituisce reato

Perché il fatto non è previsto dalla legge come reato

 

 

Riportiamo di seguito il caso Barillà

 

La Corte di Cassazione, per la prima volta in modo approfondito e analitico, ha affrontato nel 2004 (con sentenza n. 2050 della Sezione IV Penale) la questione della risarcibilità dei danni non patrimoniali (di tipo biologico, morale ed esistenziale) conseguenti a ingiusta detenzione, decidendo sul caso molto noto di Daniele Barillà.

La Corte di Appello di Genova, con ordinanza emessa nel febbraio dell’anno precedente, aveva accolto la domanda di riparazione dell’errore giudiziario proposta dal Barillà il quale, con sentenza della medesima corte territoriale depositata nel luglio 2000 e non impugnata, era stato definitivamente assolto con la formula “per non aver commesso il fatto” da reati concernenti il traffico illecito di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti.

A seguito di questa vicenda Barillà, aveva subito una detenzione, prima cautelare e poi in espiazione di pena, pari a 7 anni, 5 mesi e 10 giorni.

I giudici liguri, accertate le conseguenze di natura psico fisica della detenzione (con particolare riguardo ai riflessi sulla capacità lavorativa) e di quelle di natura reddituale, derivanti dalla cessazione dell’attività d’impresa in precedenza svolta dall’istante, aveva determinato l’entità della riparazione nella somma complessiva di euro 3.947.994,00, oltre alle pronunzie accessorie.

I successivi ricorsi in Cassazione da parte dell’Avvocatura dello Stato e della Procura della Corte D’Appello di Genova, dove venivano contestati i criteri utilizzati per la determinazione dell’entità della riparazione, venivano respinti.

In relazione al ristoro del danno esistenziale, la Cassazione confermava il risarcimento di tale posta di danno, negando la sussistenza di un’indebita duplicazione risarcitoria rispetto al danno biologico sull’assunto che il primo tipo di pregiudizio fosse diverso dal secondo, non presupponendo alcuna lesione fisica o psichica, né una compromissione della salute della persona, ma riferendosi agli evidenti sconvolgimenti delle abitudini di vita e delle relazioni interpersonali provocate dal fatto illecito.

Secondo la Cassazione, neppure le voci di danno morale ed esistenziale potevano dirsi sovrapponibili, perché “il danno morale soggettivo si esaurisce nel dolore provocato dal fatto dannoso”ed “è un danno transeunte di natura esclusivamente psicologica” mentre “il danno esistenziale pur avendo conseguenze di natura psicologica, si traduce in cambiamenti peggiorativi permanenti, anche se non sempre definitivi, delle proprie abitudini di vita e delle relazioni interpersonali.

La non sovrapponibilità tra le due categorie di danno emerge chiaramente proprio in relazione all’ingiusta detenzione: la privazione della libertà personale per un solo giorno può provocare un gravissimo danno morale ma il danno esistenziale, in questi casi, può anche non essere presente”.

Dott.ssa Concas Alessandra

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