L’«avviso di sfratto» per Prefettura e Questura. Legge 1014/1960 e TAR Toscana, Sez. III, n.1036/2015.

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Il TAR della Toscana, con sentenza n.1036 depositata il 9 luglio (e reperibile sul sito della giustizia amministrativa), pronunciandosi su un caso riconducibile alla disciplina di cui all’art.3 Legge n.1014/1960, ha condannato il Ministero dell’Interno e le locali Prefettura e Questura «ad addivenire nel termine di sei mesi dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza ad una intesa con la Provincia (…) in ordine alle modalità e alla tempistica del rilascio dei relativi immobili».

Tra le competenze storicamente attribuite alle Province vi è stata quella di provvedere ai locali degli uffici di Prefettura e all’alloggio dei Prefetti, ai locali per gli uffici provinciali, per i commissariati e per le delegazioni suburbane di pubblica sicurezza e per gli uffici distaccati di P.S. istituiti nei Comuni già sedi di sottoprefettura.

L’obbligo di provvedere venne originariamente stabilito dall’art.203, nn. 14 e 15, della Legge comunale e provinciale del 1865. Con R.D. 26/9/1933, n°1937, veniva approvato il Regolamento per la gestione dei mobili ed arredi di proprietà dello Stato adibiti ad uso degli alloggi dei Prefetti; regolamento che confermava e specificava anche l’obbligo delle Province di fornire e mantenere in stato di buona manutenzione i locali e i giardini annessi[1].

Quest’obbligo di provvedere venne poi ribadito nel Testo Unico della legge comunale e provinciale del 1934 (approvato con R.D. 3/3/1934, n°383), che all’art.144, comma 1, lett.b), inseriva, appunto, tra le “spese obbligatorie” quelle sostenute dalla Province “per i locali degli uffici di prefettura, per l’alloggio dei prefetti, per i locali degli uffici provinciali, dei commissariati e delle delegazioni suburbane di pubblica sicurezza e degli uffici distaccati di pubblica sicurezza istituiti nei Comuni già sedi di sottoprefettura[2].

Con la legge 16/9/1960, n°1014, invece, tali spese vennero trasferite a carico dello Stato a decorrere dal 1° luglio 1959 (art.1, lett. b).

L’art.3 della legge 1014/1960, dopo aver precisato che  «Qualora gli uffici e i servizi di cui ai precedenti artt. 1, lettera b), e 2 siano allocati in locali o stabili presi in affitto dalle Province, lo Stato subentra a queste nei relativi contratti con effetto dalle date rispettivamente previste nei precedenti artt. 1 e 2», stabilisce altresì che «Nel caso invece di locali o stabili di proprietà delle Province, ferma restando la loro attuale destinazione fino a quando non sia diversamente provveduto d’intesa fra le parti, lo Stato corrisponde alle Province stesse, dalle rispettive date predette, un congruo canone di affitto».

L’art.3 della legge 1014/1960 ha quindi introdotto una sorta di vincolo di destinazione sugli immobili di proprietà provinciale che alla data della sua entrata in vigore erano adibiti -in forza delle disposizioni prima richiamate- agli usi sopra indicati, col risultato che, in assenza di una diversa intesa tra le parti, le Province dovrebbero consentire queste utilizzazioni verso un “congruo canone di affitto”. Su questo specifico punto, come vedremo tra poco, il TAR della Toscana, con la sentenza n.1036/2015, ha avuto modo di fare un’importante puntualizzazione dalla quale occorre per il momento prescindere per proseguire con un ragionamento che ci sarà utile nel prosieguo.

Si è detto che l’art.3 della legge 1014/1960 ha introdotto una sorta di vincolo di destinazione sugli immobili di proprietà provinciale che alla data della sua entrata in vigore erano adibiti a determinati usi «fino a quando non sia diversamente provveduto d’intesa fra le parti». Il caso in cui tra le parti via sia accordo pieno ed attuale a provvedere diversamente rappresenta un’ipotesi talmente ovvia che non necessita di approfondimenti. I problemi, invece, sorgono quando un simile accordo (pieno ed attuale) non vi sia e a fronte di Amministrazioni Provinciali che manifestino l’esigenza di addivenire a soluzioni diverse si risponda da parte ministeriale opponendo il vincolo di legge. In tali casi è necessario procedere ad un attento esame degli atti che regolano in concreto il singolo rapporto, perché una diversa “intesa tra le parti”, sì come richiesta dalla legge 1014/1960, potrebbe risultare anche da un contratto di locazione o da un disciplinare di concessione amministrativa (secondo il regime giuridico del bene) che attribuisca all’Ente proprietario la facoltà di impedirne la prosecuzione o la rinnovazione mediante disdetta.

Il disciplinare di concessione o il contratto di locazione contenente una simile clausola, infatti, costituirebbe proprio quell’accordo (artt. 1321 e 1325 c.c.) e, quindi, quell’”intesa tra le parti” che la legge 1014/1960 richiede per la cessazione del vincolo di destinazione, nel senso che con la previsione (contrattuale) della disdetta le parti altro non farebbero che prevedere (e quindi accettare) che la cessazione del rapporto locativo possa aver luogo con l’esercizio di tale diritto potestativo da parte dell’Ente proprietario dell’immobile.

Può ritenersi, al riguardo, esemplare quella clausola contrattuale secondo cui “Il presente contratto sarà tacitamente rinnovato alle stesse condizioni di sei anni in sei anni qualora la parte proprietaria non formuli disdetta almeno dodici mesi prima di ciascuna scadenza, fermo restando, comunque, l’aggiornamento del canone ai nuovi parametri di mercato” [3] .

Difficile in tal caso, infatti, giungere a conclusioni diverse da quelle cui siamo già pervenuti, perché se, come abbiamo visto, il requisito della congruità del canone è già stabilito dall’art.3 della legge 1014/1960 e se, come espressamente previsto, l’”aggiornamento del canone ai nuovi parametri di mercato“ va effettuato anche nel caso che il contratto si rinnovi tacitamente, per quale altra ragione (diversa da quella della cessazione del rapporto e del vincolo ex art.3 L.1014/1960) sarebbe stata pattuita la clausola di disdetta? E siccome ai sensi dell’art.1367 c.c. “le clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”, non può esservi alcun dubbio che le parti, con la previsione (contrattuale) della disdetta, abbiano altresì previsto ed accettato la cessazione del rapporto e del vincolo ex art.3 legge 1014/1960 quale conseguenza del concreto esercizio del diritto potestativo (contrattualmente) attribuito all’Ente proprietario[4]. Ma dubbi, al riguardo, non potrebbero esservi neppure laddove manchino queste specificazioni in materia di aggiornamento dei canoni, perché, da un lato, le conseguenze della disdetta non potrebbero che essere quelle sue proprie (mentre la questione dei canoni si pone su altro piano) e perché, dall’altro, la validità della clausola di disdetta discende direttamente dalla legge 1014/1960 che nello stabilire il vincolo di cui all’art.3 fa salva la diversa intesa tra le parti; diversa intesa che prende corpo, appunto, nel disciplinare di concessione o nel contratto di locazione contenente la clausola di disdetta[5].

E’ arrivato il momento di dare atto dell’importante puntualizzazione che il TAR della Toscana, con la sentenza n.1036/2015, fa sull’estensione del vincolo di destinazione di cui all’art.3 L. n.1014/1960: «Le fattispecie che vengono in esame sono riconducibili, come evidenziato concordemente dalle parti, alla previsione normativa di cui all’art. 3 della legge n. 1014 del 1960; con riferimento agli uffici di Prefetture, Questure e alloggi dei Prefetti la suddetta norma stabilisce che qualora essi “siano allocati in locali o stabili presi in affitto dalle Province, lo Stato subentra a queste nei relativi contratti con effetto dalle date rispettivamente previste nei precedenti artt. 1 e 2” mentre “nel caso invece di locali o stabili di proprietà delle Province, ferma restando la loro attuale destinazione fino a quando non sia diversamente provveduto d’intesa fra le parti, lo Stato corrisponde alle Province stesse, dalle rispettive date predette, un congruo canone di affitto”; in specie nei presenti ricorsi viene in considerazione la seconda previsione dell’art. 3 cit., riferita a immobili di proprietà provinciale, la quale ha un duplice contenuto, prevedendo da un lato che lo Stato corrisponde alle Province un congruo canone d’affitto e dall’altro che la destinazione in essere (cioè a sede di Prefettura, Questura ecc.) permane “fino a quando non sia diversamente provveduto d’intesa fra le parti”. La richiamata previsione normativa, nel duplice contenuto disciplinare sopra citato, ha bisogno di essere chiarita nella sua esatta portata interpretativa. Deve essere in primo luogo posta l’attenzione sulla prima parte dell’art. 3 cit., già richiamata; in tale parte la norma, evocando la disciplina del rapporto tra Stato e Province relativo all’utilizzo per funzioni statali di immobili provinciali ed in particolare il pagamento di un “congruo canone d’affitto”, fonda la previsione di una disciplina pattizia del rapporto stesso, pur nell’ambito del rapporto concessorio, secondo il modulo della concessione-contratto; tale disciplina pattizia si è inverata nei c.d. contratti di locazione che nella specie sono stati stipulati tra la Provincia (…) e lo Stato, che contratti di locazione in senso tecnico-giuridico non sono, trattandosi invero di disciplinari di regolamentazione del rapporto concessorio; nell’ambito di detta regolamentazione pattizia è stato determinato tra le parti una durata del rapporto di concessione, prevedendosi altresì la possibilità del soggetto proprietario di dare “disdetta” in termini prefissati, in tal modo evitando il rinnovo del rapporto concessorio in essere. Come già evidenziato, sia con riferimento al contratto relativo alla sede della Prefettura che con riferimento al contratto relativo alla sede della Questura la Provincia (…) ha dato nei termini disdetta, il che ha impedito il rinnovarsi del rapporto concessorio e il conseguente venir meno del rapporto concessorio in essere. Ne segue che la “domanda di accertamento circa l’attuale inesistenza in atto di un rapporto concessorio o di locazione” formulata in entrambi i ricorsi deve essere accolta, poiché attraverso le richiamate disdette la Provincia (…) ha impedito il rinnovo dei rapporti in essere, il che ha determinato la loro cessazione per decorso del termine prefissato. Come già evidenziato l’art. 3 cit. ha tuttavia anche una seconda previsione, quella relativa alla necessaria “intesa fra le parti”, sino all’intervenire della quale permane la destinazione degli immobili provinciali a sede degli uffici statali. Ritiene il Collegio che, pena la manifesta incostituzionalità della norma, di essa non possa darsi una lettura secondo la quale in mancanza dell’intesa il rapporto concessorio prosegue sine die, venendosi a configurare una sorta di concessione perpetua a favore delle Amministrazioni statali; come già chiarito il profilo della durata del rapporto concessorio è stato disciplinato negli atti stipulati tra le parti, che hanno previsto termini di durata e il loro possibile rinnovo, salvo intesa; ritiene il Collegio che il significato dell’intesa di cui parla l’art. 3 cit. debba essere trovato su un altro piano, cioè sul piano esecutivo: nel senso che anche una volta che il rapporto concessorio sia venuto meno l’effettiva cessazione della destinazione a sede degli uffici statali degli immobili provinciali non possa avvenire secondo modalità ordinarie, avendo il legislatore, per la delicatezza e importanza delle funzioni pubbliche in considerazione, rimesso ad una intesa tra le parti la determinazione delle modalità e dei tempi del rilascio degli immobili con restituzione alla Provincia, sì da consentire alle Amministrazioni statali di avere il tempo per individuare le soluzioni alternative di nuova allocazione degli uffici. Questa lettura comporta che la proposta domanda di condanna al rilascio deve sì essere accolta (essendo venuti meno i titoli giuridici che legittimavano la permanenza degli uffici della Prefettura e della Questura nei locali provinciali) ma nel senso di condanna delle Amministrazioni statali ad addivenire ad una intesa con l’Amministrazione provinciale (…), nel termine di sei mesi dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza, sulle modalità e la tempistica di effettivo rilascio dei locali medesimi». E per questi motivi «il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, Sezione Terza, definitivamente pronunciando sui ricorsi riuniti, li accoglie, nei sensi di cui in motivazione, e per l’effetto accerta la cessazione dei rapporti concessori aventi ad oggetto gli immobili di proprietà provinciale adibiti a sede della Prefettura (…) e della Questura (…) e condanna il Ministero dell’Interno, la Prefettura (…) e la Questura (…) ad addivenire nel termine di sei mesi dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza ad una intesa con la Provincia (…) in ordine alle modalità e alla tempistica del rilascio dei relativi immobili».


[1] V. legge 20/3/1865, n°2248, allegato A e, altresì, l’allegato 3 al Regolamento di esecuzione approvato con R.D. 12/2/1911, n°297. La normativa del 1865 poneva a carico delle Province anche le spese per il mobilio; onere che veniva eliminato a far tempo dal 1/1/1908 con legge 24/3/1907, n°116, per poi essere ripristinato con R.D. 19/4/1925, n°722 (prevedendosi il diritto al rimborso, ma a forfait), ed infine nuovamente eliminato con l’entrata in vigore del T.U. sulla finanza locale. Sui vari aspetti v. SolmiLa Provincia nell’ordinamento amministrativo vigente, Padova 1953, Pag. 362 ss..

 

[2] Il testo unico della legge comunale e provinciale approvato con R.D. 3/3/1934, n°383, all’art.144, comma 1, lett.b), n°12, stabiliva che dovevano considerarsi obbligatorie anche le spese concernenti il “servizio di accasermamento dei corpi armati di polizia”. In effetti, l’art.295 del R.D. 30/11/1930, n°1629, attribuiva alle amministrazioni provinciali il compito di provvedere all’accasermamento degli agenti di pubblica sicurezza in conformità al R.D. 5/7/1923, n°1773, contenente norme sul passaggio alle Province del servizio di accasermamento ed alloggio dei Carabinieri. Il servizio e la spesa vennero poi trasferiti allo Stato per effetto dell’art.5, comma 2, della legge 2/7/1952, n°703: “A decorrere dal 1° luglio 1952, viene trasferito a carico del bilancio dello Stato l’onere delle Province riguardante l’accasermamento delle Forze di Polizia ed il relativo servizio viene assunto direttamente dallo Stato a decorrere dall’entrata in vigore della presente legge”.

[3] E’ proprio il caso del contratto di locazione (come nomen iuris, ma il rapporto va inteso come concessorio attesa la natura giuridica del bene) dell’immobile di proprietà provinciale adibito a Prefettura e oggetto del giudizio del TAR Toscana: contratto stipulato il 25/2/1997 ed approvato il 15/11/1999 con D.M. n°337701/01/1097, col quale veniva concessa in locazione (rectius: concessione) al Ministero dell’Interno, per il periodo 15/11/1999-14/11/2005, un’intera ala del Palazzo della Provincia già adibita ad uffici della Prefettura ed alloggio prefettizio alla data di entrata in vigore della legge 1014/1960 ed ininterrottamente utilizzata a tali scopi in forza di precedenti contratti di locazione stipulati alla luce della stessa legge. Tale contratto contiene una stipulazione speciale secondo cui “Il presente contratto sarà tacitamente rinnovato alle stesse condizioni di sei anni in sei anni qualora la parte proprietaria non formuli disdetta almeno dodici mesi (prima) di ciascuna scadenza, fermo restando, comunque, l’aggiornamento del canone ai nuovi parametri di mercato”. Qui, come si vede, le parti, nel pattuire la clausola di disdetta, avevano ben presente che alla scadenza del contratto si sarebbe dovuto comunque procedere all’aggiornamento del canone, sì che la facoltà di disdetta costituisce inequivocabilmente un qualcosa in più che inerisce proprio alla cessazione del rapporto e, con esso, del vincolo di cui all’art.3 legge 1014/1960. Stesso ragionamento può ripetersi per l’analogo caso preso in esame dal TAR della Toscana riguardante la Questura di quella stessa città.

 

[4] Sulla questione ci eravamo già espressi in tal senso: v. «Sull’obbligo per le Province di mantenere in propri immobili gli uffici di Prefettura e l’alloggio dei Prefetti», Diritto&Diritti, 2006.

 

[5] Come è noto, i beni che appartengono agli enti pubblici territoriali si distinguono in beni demaniali (artt.822 e 824 c.c., nonché, per quanto qui interessa, l’art.53 D.Lgs. 22/1/2004, n°42, i quali non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano: art.823 c.c.); beni del patrimonio indisponibile (art.826 c.c., soggetti alle regole particolari che li concernono e, in quanto non sia diversamente disposto, alle regole comuni: essi non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano); e beni del patrimonio disponibile (soggetti alle regole comuni). I beni che appartengono al demanio o al patrimonio indisponibile possono essere attribuiti alla disponibilità di soggetti terzi attraverso lo strumento della concessione amministrativa. E un rapporto deve essere qualificato come concessorio in tutte le ipotesi in cui, anche se in forza di contratti di affitto, l’oggetto consiste nel godimento individuale, da parte di un soggetto privato, di un bene pubblico tenuto presente che la concessione al privato, del godimento di beni demaniali o del patrimonio indisponibile di enti territoriali integra, in ogni caso, una concessione amministrativa. E al fine della qualificazione della natura dell’atto stipulato, si rivelano – fra l’altro – irrilevanti – di per sé – sia l’eventuale denominazione meramente privatistica data all’atto stipulato, sia l’eventualmente comune difforme rappresentazione della natura dell’atto coltivata dalle parti [v. «Sull’obbligo per le Province di mantenere in propri immobili gli uffici di Prefettura e l’alloggio dei Prefetti», cit.; sul punto si è espresso anche il TAR della Toscana con la sentenza n.2036/2015, affermando la propria giurisdizione ex art.133, comma 1, lett.b), c.p.a. una volta accertata la natura giuridica dei beni coinvolti «(…) discende da ciò che nella specie i contratti di locazione richiamati dalle parti vengono in considerazione non già come atti di esplicazione di autonomia privata ma come atti di regolazione del contenuto del rapporto concessorio esistente tra le parti e quindi accessivi a concessioni amministrative»]. Orbene, all’atto di concessione può accedere (e normalmente accede) una convenzione attuativa (c.d. “concessione-contratto”) e la clausola che consente all’Ente proprietario dell’immobile la facoltà di disdetta potrebbe quindi essere contenuta sia nel contratto di locazione (per i beni appartenenti al patrimonio disponibile), sia nella convenzione accessoria all’atto di concessione (per i beni appartenenti al demanio e al patrimonio indisponibile), realizzando in ogni caso quell’«intesa tra le parti» richiesta dall’art.3 legge 1014/1960 per la cessazione del vincolo di destinazione sull’immobile.

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Dott. Stefano Gennai

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