È incostituzionale la norma regionale che preclude l’accesso ad una professione per la mera pendenza di procedimenti penali per qualsiasi tipologia di reato.
Indice
1. La vicenda: preclusione accesso professione per pendenza di procedimenti penali
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 8/2024, è stata chiamata, su rinvio pregiudiziale effettuato dal Consiglio di Stato con l’ordinanza n. 78/2023, a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della norma della Regione Puglia (art. 8, comma 3 L. Regione Puglia n. 14 – Modalità di attuazione della legge n. 21/1992 “Legge-quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea”) lì dove prevedeva quale requisito per l’ammissione all’esame di idoneità all’esercizio di servizi taxi e di noleggio con conducente “l’assenza di carichi pendenti”. Infatti, alla domanda di ammissione all’esame, gli interessati dovevano allegare anche una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà attestante l’assenza di carichi pendenti.
2. La decisione di incostituzionalità
A ragion veduta, il Consiglio di Stato, con l’ordinanza di rimessione, ha rappresentato che la disposizione in questione viola i princìpi di ragionevolezza e proporzionalità derivanti dall’art. 3 Cost. perché per la finalità di assicurare l’affidabilità morale dei conducenti dei predetti mezzi non ha tenuto conto né della gravità dei reati che avrebbero avuto rilevanza quale condizione ostativa all’esame, né dei riflessi che tale mancata differenziazione avrebbe comportato sull’esercizio di tale professione. Al tempo stesso ha evidenziato come vi sarebbe stata l’assenza di una valutazione da parte della Commissione sull’accertamento dei requisiti d’idoneità professionale.
Altresì, il Consiglio di Stato ha rilevato che la legge regionale, prendendo in considerazione la mera pendenza di carichi pendenti, avrebbe dato importanza al mero esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero senza che vi fosse stata alcuna valutazione della notizia di reato da parte di un organo giudicante anche solo di tipo sommario, come ad esempio avviene nel caso di rinvio a giudizio.
E ancora, ulteriore irragionevolezza viene evidenziata dai giudici amministrativi lì dove il testo regionale prevede quale causa ostativa alla partecipazione l’iscrizione della notizia di reato anche per reati che non prevedono l’applicabilità della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, mentre la condanna costituisce causa ostativa alla partecipazione solo qualora sia intervenuta per reati che invece prevedono la predetta pena accessoria.
Tutto ciò, infine, contrasterebbe con la libertà di esercizio dell’attività d’impresa di cui all’art. 41 Cost..
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 8/2024, ha riconosciuto la violazione del principio di proporzionalità atteso che, se il fine che si è prefissato la Regione in astratto è legittimo in quanto teso a garantire un servizio adeguato, dall’altro, nella sostanza, si traduce in un “macroscopico difetto” dell’assenza di un nesso di causalità “tra il mezzo predisposto dal legislatore pugliese e il fine che questi intende perseguire” in quanto la norma regionale in questione comprende incomprensibilmente “una vastissima gamma” di reati “che nulla hanno a che vedere con l’affidabilità dei soggetti che ambiscono ad essere ammessi all’esame” divenendo così ogni ipotesi di reato condizione ostativa allo svolgimento di un’attività lavorativa “contrassegnando la persona con un abnorme stigma sociale” e producendo “un effetto interdittivo del tutto sproporzionato”.
Qualora la norma regionale avesse individuato la tipologia di reati che rilevavano ai fini del divieto di partecipazione in base alla gravità degli stessi o alla loro connessione in termini di affidabilità in base alla professione da svolgere, non vi sarebbe stata, dunque, alcuna incostituzionalità.
Quanto alla rilevanza della mera iscrizione nel registro degli indagati, la Corte Costituzionale, nel richiamare un proprio precedente (sentenza n. 152/2022) ha evidenziato che la tendenza dell’ordinamento “è quella di ritenere che lo specifico presupposto di operatività di effetti extrapenali (…) debba essere ‘che l’accertamento della responsabilità penale sia stato oggetto di un primo vaglio giudiziario’ sicché sia ravvisabile ‘un nesso affidabile (…) tra la possibile responsabilità penale e l’idoneità a svolgere determinate attività richiedenti particolari requisiti di moralità’”.
Tale conclusione è rinvenibile, secondo i giudici di legittimità costituzionale, anche nell’art. 335 bis c.p.p. introdotto dal D.Lgs. n. 150/2022 c.d. Riforma Cartabia, il quale dispone che “la mera iscrizione nel registro di cui all’art. 335 non può, da sola, determinare effetti pregiudizievoli di natura civile o amministrativa per la persona alla quale il reato è attribuito”.
Altresì irragionevole è tale disposizione per quanto disposto dal capoverso successivo del comma in questione poiché sebbene hanno rilevanza le condanne per quei reati che prevedono la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, invece, “paradossalmente” in fase di mera pendenza del procedimento penale rileva qualsiasi tipologia di reato anche se non prevede la predetta pena accessoria.
Infine, la Corte Costituzionale riconosce anche la violazione dell’art. 41 Cost. prospettata dal Consiglio di Stato affermando che tale disposizione “si traduce in una ‘indebita barriera all’ingresso nel mercato’”.
È da evidenziarsi come limiti ostativi alla partecipazione di tale tipologia è frequente rinvenirli anche nei bandi delle procedure concorsuali per i quali, evidentemente, è bene che vi sia un cambio di rotta alla luce di quanto delineato dalla Corte Costituzionale con la pronuncia appena esaminata.
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