In tema di omicidio tentato e lesioni personali

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Cass., Pen., Sez. I, sent. 1 luglio 2014 n. 28231, Pres. Giordano, Est. Bonito

 

Massima

 

Nell’ipotesi dell’omicidio solo tentato, ai fini dell’accertamento della volontà omicidiaria assume valore determinante l’idoneità dell’azione che va apprezzata in concreto sulla base di una prognosi formulata ex post. Ne consegue che ricorre la fattispecie di tentato omicidio, e non quella di lesioni personali, se il tipo di arma impiegata e specificamente l’idoneità offensiva della stessa, la sede corporea della vittima raggiunta dal colpo di arma e la profondità della ferita inferta inducano a ritenere la sussistenza in campo al soggetto agente del cosiddetto “animus necandi”.

 

Commento

 

Con la sentenza qui pubblicata, la Suprema Corte traccia la linea di confine che separa la fattispecie dell’omicidio tentato da quella delle lesioni personali, sottolineando che ai fini dell’accertamento della volontà omicidiaria assume valore determinante l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, sulla base di un giudizio di prognosi postuma.

Nel caso di specie, un uomo, condannato in sede di Giudizio abbreviato dal Gip del Tribunale di Genova alla pena di reclusione di sei anni, due mesi e venti giorni, in ordine ai reati di tentato omicidio, resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali, si vedeva confermare la sentenza di condanna anche in secondo grado, dalla Corte di appello di Genova. Ricorreva dunque in Cassazione l’imputato, il quale, con unico motivo di impugnazione, contestava in primis la qualificazione della condotta giudicata, che a suo parere, doveva essere qualificata come delitto di lesioni aggravate e non di tentato omicidio, in considerazione della circostanza che non risultava provato l’animus necandi; in secondo luogo, il mancato riconoscimento dell’attenuante del risarcimento del danno. 

I giudici della Suprema Corte, con la sentenza in commento, hanno confermato la decisione della Corte di appello di Genova. Infatti, secondo costante insegnamento, in tema di omicidio volontario, in mancanza di circostanze che evidenzino ictu oculi l’animus necandi, la valutazione dell’esistenza del dolo omicidiario può essere raggiunta attraverso un procedimento logico d’induzione da altri fatti certi, quali i mezzi usati, la direzione e l’intensità dei colpi, la distanza del bersaglio, la parte del corpo attinta, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscano l’azione cruenta[1]. Sicché, ai fini dell’accertamento della volontà omicidiaria assume valore determinare l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, attraverso una prognosi formulata ex post, con riferimento alla situazione così come presentatasi al colpevole al momento dell’azione; ne consegue che ricorre la fattispecie  di tentato omicidio, e non quella di lesioni personali, se il tipo di arma impiegata e specificamente l’idoneità offensiva della stessa, la sede corporea della vittima raggiunta dal colpo di arma e la profondità della ferita inferta inducano a ritenere la sussistenza in capo al soggetto del cosiddetto animus necandi.

Per quanto riguarda invece, l’attenuante del risarcimento del danno, secondo costante lezione interpretativa della corte di legittimità, il risarcimento del danno, perché possa condurre all’applicazione della relativa attenuante, di cui all’art. 62, comma 1 n.6, c.p., deve essere integrale, comprensivo, quindi, della totale riparazione di ogni effetto dannoso, e valutazione in ordine alla corrispondenza fra transazione e danno spetta al giudice, che può anche disattendere, con adeguata motivazione, finanche ogni dichiarazione satisfattiva resa dalla parte lesa.

Nel caso di specie, pur essendo stato accertato il pagamento della somma di denaro di euro 16,500,00, la Corte ha ritenuto la stessa irrilevante per la riparazione del danno, in conseguenza di un barbaro accoltellamento. Pertanto, il ricorso è stato ritenuto inammissibile, con conseguente condanna per il ricorrente, al pagamento delle spese del procedimento.

Dott. Sylos Labini Emanuele

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